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"Era dolce, carino, affettuoso. Mi colpivano la sua gentilezza e la sua calma. Ci conoscemmo nel 1988, a cena da amici, ...
14/11/2025

"Era dolce, carino, affettuoso. Mi colpivano la sua gentilezza e la sua calma. Ci conoscemmo nel 1988, a cena da amici, era inverno, io mi lamentavo per il riscaldamento ma avevo in casa un camino. Massimo il giorno dopo mi mandò un furgoncino pieno di legna con un bigliettino: per tenerti al caldo.

Nei tre anni in cui siamo stati insieme non l’ho mai visto giocare né a carte né a biliardo. Massimo si svegliava tardi, poi andava nello studio a scrivere progetti. Erano usciti i computer e i primi rudimentali cellulari. Era affascinato dalla tecnologia. Se rivedeva mai i suoi film? No, mai. Facevamo vita di casa, gli habitué erano l’attore Massimo Bonetti e l’autore televisivo Giovanni Benincasa.

Ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo. Mi è capitato anche con Francesco Nuti e non me lo spiego, dovete farvi qualche domanda voi uomini. Parlo di tutti gli uomini sulla faccia della Terra, non solo di quelli italiani.

Sapevo che c’era quel problema prendeva medicinali in maniera disciplinata, poi giocava a calcio, era una cosa che sembrava si potesse gestire, nessuno pensava che se ne sarebbe andato così presto, nemmeno lui. Quando morì ero appena tornata in America. Ripresi l’aereo e andai al funerale. Ci ho messo dieci anni per vedere il suo ultimo film, Il postino."

Clarissa Burt

 . ORIANA FALLACI. Non a caso c’è quella sua frase: «Se mi volto a guardare la strada che ho percorso, posso dire di ave...
14/11/2025

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ORIANA FALLACI. Non a caso c’è quella sua frase: «Se mi volto a guardare la strada che ho percorso, posso dire di aver speso bene la mia vita».
SANDRO PERTINI. Sì. E posso dirlo in coscienza, Oriana. Io ho fatto una scelta da giovane e, se per un prodigio tornassi indietro, rifarei la stessa scelta. Perché era una scelta giusta. Vede, io di solito non vado ai ricevimenti. Preferisco stare con mia moglie, la sera, o leggermi un libro o recarmi a teatro. Ma a volte capita che debba andare ai ricevimenti e allora vedo quei professionisti ricchi e provo una tale pena per loro. Hanno conquistato il denaro, sì. Hanno conquistato il successo e il potere. Eppure sono frustrati perché si sono accorti di aver avuto una vita vuota. Non vorrei essere al posto loro quando viene l’ora dei lupi. Ingmar Bergman la chiama l’ora dei lupi, cioè l’ora antelucana, l’ora in cui ci troviamo soli anche se accanto c’è la compagna della nostra vita, e non possiamo mentire a noi stessi. La mia ora dei lupi è alle cinque del mattino, quando mi sveglio magari per riaddormentarmi, e nella penombra analizzo ciò che ho fatto il giorno prima. Ne esce un esame di coscienza che si allunga nel tempo, nel passato, e deve credermi, Oriana: non ci trovo errori. Oh, non che possa negare d’aver commesso errori. Chi cammina talvolta cade. Solo chi sta seduto non cade mai. Però i miei errori sono frange che invariabilmente nascono dal mio caratteraccio. Non sono errori sostanziali. Il mio caratteraccio... Sono sempre stato un passionale, un impetuoso. Anche da giovane e prima di finire in carcere, sa? Non posso darne la colpa al carcere, alle sofferenze, e anzi ora son migliorato. Questa mia carica, se non altro, ha servito a imbrigliare un poco le mie impazienze.
( Da "L' Europeo", 27 dicembre 1973)

14/11/2025

A Koropi un 22enne ha ingerito un hamburger intero per gioco, smettendo di respirare per minuti e riportando danni gravissimi a cervello, reni e organi

«Ho sempre mantenuto una grossa discrezione sulla mia vita privata. Da anni ormai vivo a Londra con mia moglie Carla e P...
14/11/2025

«Ho sempre mantenuto una grossa discrezione sulla mia vita privata. Da anni ormai vivo a Londra con mia moglie Carla e Penelope, nata nel 2010. Pochi mesi dopo essere diventata mamma decisi di trasferirmi in Inghilterra, non ci sono leggi in Italia che mi garantiscono cosa succederebbe a Penelope se me ne andasssi in cielo. Lì sono rispettata nei miei diritti umani di mamma. Durante la gravidanza fui inondata di critiche, la decisione di diventare madre a 54 anni non fu apprezzata dall'opinione pubblica. La Bibbia parla di madri a 70 anni. Se Rod Stewart fa un figlio a 65 nessuno dice nulla. Invece con me si parla di questo e non della mia musica. A mia figlia, oggi 14enne, ho dedicato numerose sue canzoni e in una lettera dedicai a lei queste parole: Ti chiamerò Penelope perché mi hai aspettato tanto prima di nascere. Hai aspettato che fossi pronta. Per tre volte non lo sono stata, ma oggi lo sono. Tu, il più grande amore della mia vita, arrivi dopo il dolore profondo e lo shock. Ma ci ho creduto pienamente, e ho sentito la forza per riuscirci, e ti ho desiderata così tanto che oggi, mentre ti scrivo, ti ho dentro di me.Pochi mesi dopo la nascita di Penelope, decisi di trasferirmi a Londra, dove tutt'ora vivo. Ho scelto di vivere qui perché così mia figlia cresce senza preconcetti. Non mi sentivo tutelata dallo Stato e da qui nacque la mia scelta di lasciare l'Italia. Dopo l'unione civile con Carla, adottai le pratiche per la stepchild adoption, la possibilità che il genitore non biologico adotti il figlio naturale o adottivo del partner. Questo è l'unico nucleo famigliare di cui posso fidarmi».
Gianna Nannini

Ci siamo amati con una forza che sfiorava la follia. Un amore così intenso da lasciare cicatrici, ma anche radici. E anc...
14/11/2025

Ci siamo amati con una forza che sfiorava la follia. Un amore così intenso da lasciare cicatrici, ma anche radici. E anche se la vita ci ha portati su strade diverse, anche se abbiamo conosciuto il dolore, la rabbia e la delusione… ogni tanto, ancora oggi, ci diciamo “Ti amo”.
Non per tornare indietro, ma per onorare ciò che siamo stati. Perché c’è una forma di amore che non pretende, non possiede, ma resta.
Viviamo in un mondo dove tutto è conflitto, dove ci si lascia per distruggersi, per dimenticare. Ma noi no. Noi abbiamo scelto il rispetto. Abbiamo deciso di non cancellare quel sentimento, ma di custodirlo, anche se in una forma diversa.
E questo, agli occhi di molti, è inspiegabile. Fa paura. Sconvolge chi crede che l’amore debba avere solo un finale, o una sola forma.
Ma non tutto ciò che è raro è sbagliato. A volte, amare anche nella distanza è il gesto più coraggioso e sano che possiamo fare.
Perché non sempre l’amore finisce. A volte… cambia solo posto.
Ambra Angolini

FRANCESCA GALATI: IO NON VOLEVO SBAGLIARE, VOLEVO SOLO VIVERE Mi chiamo Francesca Galati, ho 51 anni e lavoro come colla...
14/11/2025

FRANCESCA GALATI: IO NON VOLEVO SBAGLIARE, VOLEVO SOLO VIVERE

Mi chiamo Francesca Galati, ho 51 anni e lavoro come collaboratrice scolastica in una scuola di Vicenza. Sono una bidella, sì. Un lavoro onesto, che faccio con rispetto e con dedizione. Ogni mattina apro le aule, pulisco, sistemo, accompagno i bambini quando stanno male, li guardo crescere. È un lavoro che amo, ma che non basta.

Con il mio stipendio non riuscivo ad arrivare a fine mese. Ho due figli. Sono madre prima ancora che lavoratrice. Quando hai dei figli, non esiste la parola “arrendersi”: esiste solo “andare avanti”.

Così, la sera, dopo ore a scuola, andavo in un bar. Facevo la cameriera. Stanchezza, certo. Le gambe che tremano, la schiena che fa male. Ma lo facevo col sorriso, perché quello stipendio in più significava bollette pagate, spesa fatta, un paio di scarpe nuove quando servivano. Tutto dichiarato, tutto in regola, ogni centesimo tassato. Non ho nascosto nulla allo Stato. Semplicemente… non sapevo che avrei dovuto comunicarlo alla dirigente scolastica.

E un giorno mi sono ritrovata una multa di 2170 euro.

Ho pensato fosse uno scherzo. Io, che lavoro da tutta la vita, io che non ho mai chiesto niente se non la possibilità di vivere con dignità… multata per aver lavorato troppo.

Mi sono sentita crollare.
Mi sono sentita colpevole di essere povera.

Poi, qualcosa è successo. Tante persone hanno teso una mano. Una colletta, una parola, un abbraccio. Una solidarietà che non mi aspettavo. Non perché non creda nella bontà umana, ma perché a volte ci si convince di essere invisibili.

Grazie. Davvero.

Ma non vorrei che la mia storia finisse qui, come se fosse solo questo: una multa e una colletta. No.

La verità è un’altra, più dura, più grande: in questo Paese, una donna che lavora in una scuola pubblica deve fare due lavori per mantenere la propria famiglia. E invece di aiutarla, lo Stato la punisce.

Io non volevo sbagliare.
Io volevo solo vivere.
E vivere, in Italia, sembra essere diventato il mio errore.

MARCO DEPLANO: L’INCONTRO CHE TI CAMBIA PER SEMPRE Mi chiamano per una consulenza. Una paziente tra i settanta e gli ott...
14/11/2025

MARCO DEPLANO: L’INCONTRO CHE TI CAMBIA PER SEMPRE

Mi chiamano per una consulenza. Una paziente tra i settanta e gli ottant’anni, tumore in fase terminale, insufficienza renale per compressione degli ureteri. Arriva in corsia sul letto. Bianca, sottilissima. Capelli rosso carota, due dita di ricrescita. Ma lo smalto? Rosa. Perfetto. Preciso. Come un dettaglio rimasto in piedi quando tutto il resto sta cedendo.

La visito, guardo la cartella, ripeto l’ecografia. Con calma le spiego:
“Signora, i suoi reni adesso non riescono a scaricare bene l’urina. Per questo dovrei mettere un tubicino…”.

Lei mi interrompe.
“Dottore, ne avrò un’altra sacchetta dietro?”
“Sí, signora.”

Mi guarda. Mi chiede come mi chiamo.
“Marco? Che bel nome. Hai due minuti per me?”

E lì, tutto cambia.
“Marco, io sono già morta. Quindici anni fa. Quando mio figlio è venuto a mancare. Aveva trentatré anni. Io dovevo andarmene con lui. Non ce l’ho fatta. Ho dovuto restare. Ho fatto la madre, la nonna, la forte, la dignitosa. Ho sofferto e ho sorriso per loro. Ma io quel giorno… sono morta.”

La ascolto.
Ogni parola mi toglie un pezzo di difesa, una certezza, un protocollo.

“Che senso ha vivere qualche giorno in più con sacchette, tubi, sofferenze? Io devo tornare da lui. I figli sono sistemati, i nipoti anche. Io ho diritto alla mia dignità. Marco, ti offendi se non voglio fare nulla?”

“No, signora… lei può fare quello che crede. Però mettendo due…”
Mi ferma ancora.
“Marco, ti ho detto no. La vita è mia. Ho deciso così. Anzi, sospendi la trasfusione. Voglio tornare a casa a mangiare un gelato con mio nipote.”

Scrivo la consulenza. Mi volto. Non voglio che mi veda con gli occhi lucidi.
Lei però capisce.

“Marco, ti sei emozionato?”
“Sì, signora. Un pochino. Mi scusi.”
“È bello invece. Mi fai sentire importante.”

Poi mi guarda come solo una madre sa guardare.
“Se i miei figli ti urlano contro, chiamami. Io li rimetto al posto loro. Tu scrivi che io sto bene così. Marco… posso chiederti un’altra cosa?
Tu sei un ragazzo speciale. E sei destinato a grandi cose.
Me lo dai un bacio?
Uno di quelli che i figli danno alle mamme.”

Gliel’ho dato.

“Pregherò per te e per mio figlio. Spero di rivederti.”

L’abbiamo riportata in reparto.
Io sono rimasto lì, in corridoio, senza difese, senza corazza, senza maschera.

MARIA CRISTINA FINATTI: QUANDO LA SCUOLA SI DIMENTICA DI ESSERE EDUCAZIONE Lei è Maria Cristina Finatti. 62 anni, insegn...
14/11/2025

MARIA CRISTINA FINATTI: QUANDO LA SCUOLA SI DIMENTICA DI ESSERE EDUCAZIONE

Lei è Maria Cristina Finatti.
62 anni, insegnante di scienze, una vita intera trascorsa tra banchi, lavagne, laboratori, colloqui, sorrisi, rimproveri e quella pazienza che solo chi crede davvero nella scuola sa conservare. Insegna all’Istituto tecnico "Viola Marchesini" di Rovigo. O meglio, insegnava come si vive, più ancora di come si studia.
Poi, un giorno, la sua vita viene colpita — letteralmente.
Uno studente le spara palline di plastica in volto con una pi***la ad aria compressa.
Mira alla testa.
Ride.
Riprende tutto.
E pubblica sui social.
Non un errore.
Non uno scivolone.
Un’umiliazione.
La ferita fisica guarisce. Quella morale no.
Passano i mesi.
Non arriva una scusa.
Non una riflessione pubblica.
Non un gesto riparatorio.
Poi arriva la notizia:
lo studente è stato promosso e ha preso 9 in condotta.
Nove.
Il voto che dovrebbe rappresentare l’esempio, il rispetto, l’impegno, il comportamento corretto.
A quel punto, l’insegnante si rivolge al Ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara.
Non per vendetta.
Non per protagonismo.
Ma per dignità.
Chiede solo: Per quale criterio?
Perché si può perdonare, ma non si può fingere che non sia successo nulla.
I suoi legali hanno chiesto accesso agli atti. Vogliono capire come sia possibile che un episodio di violenza volontaria sia stato pesato come se fosse una ragazzata qualsiasi. Come se nulla fosse accaduto.
E lei lo dice con una semplicità che fa più male di qualsiasi polemica:

«La scuola deve essere prima di tutto una scuola di vita, e quindi insegnare il rispetto e l’educazione. Nessuno, in tutti questi mesi, mi ha mai chiesto scusa. Ho dedicato la vita alla scuola, e ora mi sento sempre più emarginata. Posso capire che si facciano delle bravate, ma bisogna imparare dagli errori, e soprattutto rendersi conto del male che si può provocare negli altri.»

CRISTIAN, 14 ANNI: L’EROE CHE HA SALVATO UN BAMBINO SENZA CHIEDERE NIENTE IN CAMBIO Questa è una storia che ci ricorda c...
14/11/2025

CRISTIAN, 14 ANNI: L’EROE CHE HA SALVATO UN BAMBINO SENZA CHIEDERE NIENTE IN CAMBIO

Questa è una storia che ci ricorda che il coraggio non ha età, non ha nazionalità, non ha addestramento. Il coraggio è un istante. È un cuore che decide. È un sì che arriva senza pensarci, perché ciò che è giusto si fa e basta.

Cristian ha 14 anni.
È rumeno.
È un ragazzo come tantissimi: scuola la mattina, ritorno a casa, lo zaino sulle spalle, la vita ancora tutta da scrivere.

Eppure, quel giorno, tornando a casa, ha incontrato il suo destino.

Dal giardino di una casa lungo la strada, ha sentito trambusto, grida, disperazione. Si è avvicinato. Ha visto uomini e donne correre, soccorritori impegnati, lacrime e panico. Un bambino di tre anni era caduto in un pozzo profondo 15 metri.

Da ore stavano tentando di salvarlo.
Undici ore.
Undici ore di paura, speranza, tentativi, fallimenti.

Poi una cosa semplice ha cambiato tutto: uno sguardo.

I soccorritori vedono Cristian: magro, agile, corpo esile.
Forse può passare in quello spazio stretto dove gli adulti non riuscivano.

La proposta arriva.
Non c’è tempo per spiegazioni lunghe.
Non c’è tempo per calcoli.
C’è un bambino là sotto.

Cristian non chiede:
“È pericoloso?”
“E se mi faccio male?”
“Perché proprio io?”

Cristian dice: sì.

Lo imbracano, lo assicurano con corde robuste.
Lo calano nel pozzo, a testa in giù.
Il silenzio cala sopra tutti.
Lì sotto ci sono solo lui e il piccolo.

Poi, dopo secondi che sembrano un’eternità,
la corda si muove, risale, risale, risale…

E quando Cristian riemerge,
stringe tra le braccia il bambino.
Vivo.

Il padre crolla in lacrime.
Gli operatori si abbracciano.
Cristian sorride.
Un sorriso timido, pulito, quello di chi ha fatto la cosa giusta senza sapere che stava facendo qualcosa di straordinario.

In un mondo che spesso premia l’apparenza, la bravura esibita, il merito calcolato, Cristian ci ricorda l’essenziale:

Che per essere un eroe non servono mantelli.
Servono mani che si tendono.
E un cuore che non si tira indietro.

Non importa da dove vieni, quanti anni hai, quanto sei “importante”.
L’eroismo non abita sui palchi: abita dentro.

Cristian ha salvato una vita.
Ma soprattutto, ha salvato un’idea:
che il bene esiste, che il coraggio esiste, che l’umanità esiste.

E l’ha fatto senza voler essere guardato, senza cercare applausi, senza chiedere nulla in cambio.

Perché i veri eroi non si sentono tali.
Fanno. E basta.

Grazie Cristian.
Per averci ricordato di che pasta può essere fatto un ragazzo di 14 anni.
Per aver mostrato che si può essere grandi prima ancora di diventare adulti.

Sei un ragazzo fenomenale.
E per sempre, anche se tu non lo dirai mai, sei un eroe.

SPOT, IL CANE CHE HA AMATO FINO ALL’ULTIMO RESPIRO Vi racconto la storia di Spot. Spot era un cane grande, bianco, dal p...
14/11/2025

SPOT, IL CANE CHE HA AMATO FINO ALL’ULTIMO RESPIRO

Vi racconto la storia di Spot.
Spot era un cane grande, bianco, dal pelo folto e morbido, un maremmano abruzzese dal cuore mite. Di lui non si conosceva la nascita, né il passato. Si sapeva soltanto una cosa: la tristezza.

Nel perugino viveva ai margini delle strade, abbandonato a sé stesso, forse dimenticato solo perché sordo.
Eppure, chiunque l’avesse guardato negli occhi avrebbe visto una dolcezza infinita, un bisogno semplice e profondissimo: una carezza sul suo testone.

Poi, un giorno, come accade nelle storie che non si inventano, ma accadono, Spot ha incontrato lei.
Una donna, una veterinaria. Una di quelle persone buone davvero, che non si limitano a “voler bene”, ma lo sanno dare.

L’ha guardato e ha riconosciuto in quel silenzio qualcosa che le parlava.
Non servivano parole, non serviva l’udito.
Lui sentiva. Lei capiva.

Decise di adottarlo.
Di portarlo con sé a Firenze.
Di strapparlo al freddo dell’indifferenza.

E Spot, per la prima volta, era a casa.
Insieme si cercavano, si completavano.
Quando lei lo abbracciava, il suo pelo diventava coperta, protezione, calore.
Quando camminavano, le sue zampe seguivano fedelmente le orme di lei.
Non era più solo un cane. Era un compagno di vita.

Finché un giorno, durante una passeggiata in un parco qualunque, la storia ha preso la forma della violenza che non ti aspetti.

Due uomini.
Un coltello.
Un pit bull al guinzaglio usato come arma.
Un attacco improvviso.

La donna si ritrova minacciata, aggredita.
E allora Spot non esita un solo istante.

Si mette davanti.
Pianta le sue grandi zampe per terra come radici.
Diventa scudo, muro, barriera.
Si prende ogni morso.
Ogni colpo.
Ogni ferita.

Non perché fosse coraggioso.
Non perché fosse un eroe.
Ma perché amava.

Amava quella donna che lo aveva salvato una volta.
E ora era lui a salvare lei.

Quando i rapinatori scappano, il silenzio torna.
Spot cade a terra.
Stremato.
Ferito mortalmente.

La guarda.
Per l’ultima volta.

E in quello sguardo c’è tutto:
la riconoscenza, la gioia dei giorni condivisi, la sincerità dell’amore semplice, assoluto, puro.

Spot se n’è andato così.
Non come un animale.
Ma come una vita che ha scelto di proteggere un’altra vita fino all’ultimo respiro.

14/11/2025

La showgirl Pamela Camassa avrebbe intrapreso una nuova relazione dopo la rottura da Filippo Bisciglia, come mostrano foto scattate in un centro sportivo

L PRESIDE CHE HA SUONATO IL CAMPANELLO: UNA LEZIONE DI SCUOLA E DI UMANITÀ. Questa storia arriva dal Parmense e racconta...
14/11/2025

L PRESIDE CHE HA SUONATO IL CAMPANELLO: UNA LEZIONE DI SCUOLA E DI UMANITÀ.
Questa storia arriva dal Parmense e racconta, con la forza della semplicità, cosa significhi davvero essere un insegnante. O, in questo caso, un preside.
È il giorno della prova scritta dell’esame di terza media. Tutti gli studenti sono in aula, emozionati, agitati, pronti a misurarsi con l’ultima tappa della scuola secondaria.
Tutti.
Tranne uno.
Marco (nome di fantasia) non c’è. Nessuno sa dove sia. Non lo sanno i compagni, non lo sanno gli insegnanti, non lo sa neppure la famiglia degli altri ragazzi.
Parte una telefonata a casa, poi un’altra, qualche messaggio sulle chat dei genitori.
Nulla. Silenzio.
È a quel punto che accade qualcosa che va oltre le circolari, oltre i regolamenti, oltre le carte protocollate: il dirigente scolastico decide di uscire dalla scuola e andare a cercare Marco di persona.
Si fa dare l’indirizzo, prende l’auto e suona alla porta di quel ragazzo.
Marco apre. È confuso, in tuta, spettinato, con gli occhi ancora assonnati.
Non si è ribellato, non ha scelto di non andare, non ha abbandonato.
Si è semplicemente sbagliato.
«Giuro, pensavo che oggi ci fosse solo l’orale! Mi vesto subito, arrivo!»
Nessun rimprovero. Nessun giudizio. Solo un preside che annuisce e aspetta.
Marco entra in aula in tempo, fa il suo esame, si diploma regolarmente.
Niente sessioni suppletive.
Nessuna etichetta.
Nessuna colpa cucita addosso.
Solo una mano tesa.

Questa non è solo una storia scolastica.
È una storia di responsabilità, empatia, cura.
Nell’epoca di chi invoca scuole come piccole aziende, dove tutto è performance, valutazione, merito, punteggi, classifiche e competizione, il gesto di quel preside dice l’opposto:
Un ragazzo non è un numero.
Un ragazzo è una storia.
E se anche quella storia inciampa, si confonde, si perde per un momento, non si deve lasciarla indietro.
Chi lavora nella scuola lo sa: il confine tra chi ce la fa e chi si perde può essere una porta suonata, uno sguardo attento, un “ti vengo a cercare”.
La scuola vera non è quella che seleziona.
È quella che accompagna.
È facile parlare di merito.
Più difficile è ricordare che il punto di partenza non è lo stesso per tutti.
Per qualcuno svegliarsi in tempo è facile.
Per altri è una battaglia invisibile.
Per qualcuno studiare è naturale.
Per altri è un percorso ripido, faticoso, pieno di ostacoli emotivi, familiari, sociali.
Quel preside non ha “coperto” Marco.
Non ha aggirato la regola.
Ha semplicemente fatto ciò che ogni adulto significativo dovrebbe fare:
Ha visto un ragazzo.
Non una mancanza.
E questo, sì, è educare.
È scuola.
È la forma più alta di insegnamento:
ricordare che nessuno, mai, deve essere lasciato indietro.
Complimenti, Preside.
Ha suonato un campanello.
E ha dato una lezione a tutto un Paese.

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Bari

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