27/02/2025
L'autore, appassionato delle novelle di Giovanni V***a, si ispira a Vita nei campi per scrivere storie che attingono ai racconti ascoltati durante l'infanzia. Pur rifacendosi a tradizioni, luoghi e atmosfere reali, gli eventi narrati sono frutto della fantasia e della memoria popolare, senza alcuna pretesa di rigore storico.
A Truvatura di Raffaele
Il sole di agosto picchiava senza pietà sulla terra riarsa, mentre l'aria calda si sollevava tremolante dalla ristuccia ai bordi della forestale. Gli eucalipti piantati anni prima per spezzare la solitudine della campagna proiettavano ombre allungate sul terreno. Il canto delle cicale era un ronzio costante che sembrava voler addormentare ogni cosa, e in quello stesso torpore Giovanni, appena dodicenne, aveva trovato conforto, sdraiato all'ombra di un tronco, con il suo tasco siciliano calato sugli occhi.
Raffaele, il maggiore, sedeva poco distante con un rametto secco tra le dita, strofinandolo contro la suola della scarpa. Ogni tanto alzava lo sguardo verso le vacche, che pascolavano pigre tra la sterpaglia, indifferenti alla calura. Non era il tipo da distrarsi facilmente, ma quel giorno qualcosa catturò la sua attenzione.
Un cozzo di pietra si ergeva poco più avanti, una delle tante asperità che punteggiavano la serra. In Sicilia, le montagne si chiamano serre, non sono picchi alti e imponenti, ma dorsali ondulate che tagliano la campagna come vecchie cicatrici. Su quel cozzo, proprio nel punto più esposto al sole, un masso, non troppo grande ma nemmeno piccolo, si mise in movimento.
All'inizio sembrò un riflesso del caldo, un gioco dell’aria tremolante, ma poi Raffaele capì che quel masso non era scivolato da solo. Si era staccato di netto, rotolando giù lungo il pendio con un suono sordo, spezzando rami secchi e sollevando polvere. Si fermò più in basso, nel punto in cui la terra aveva fatto crescere piante altissime di sarracchio, lasciandosi dietro una scia di pietrisco.
Raffaele si alzò di scatto. "Giuvà, talìa dda supra! S’allavangau na puntala, sula!"
Giovanni brontolò nel sonno e si tolse il tasco dagli occhi. "Chi è, Raffaè?"
"Talìa ddà, supra o cozzu!"
Giovanni si mise seduto e strizzò gli occhi contro la luce. A pochi metri dal punto in cui si era staccata la pietra, qualcosa attirò la sua attenzione. Non era solo la terra smossa, c’era una fessura nella roccia, sottile e oscura come una bocca socchiusa.
"Ma ch'èni? Si rapiu a muntagna?"
Raffaele disse al fratello: "Talè, ora va taliu, resta qui a vardare le vacche."
Si alzò con un gesto deciso e si scotolò i pantaloni dalla polvere, battendo forte le mani sulle cosce e sul sedere. Poi, senza perdere altro tempo, si incamminò verso il cozzo.
Giovanni, rimasto seduto all'ombra degli eucalipti, lo guardava allontanarsi, stringendo le ginocchia al petto. Sapeva che la curiosità del fratello era come una mosca fastidiosa: una volta che gli si metteva in testa qualcosa, niente lo fermava. Ripensò a quel giorno lungo il torrente, quando Raffaele, invece di stare attento, si mise a rincorrere una guisina nell'acqua, scivolando tra le pietre viscide e rischiando di essere trascinato via dalla corrente. "Sempre a fari u spertu…" mormorò tra sé, con un mezzo sorriso.
Raffaele avanzava con passo sicuro tra le sterpaglie, il sudore gli incollava la camicia alla schiena. Appena arrivato sotto il cozzo, si fermò ad osservare la pietra che si era staccata. Non era come le altre. Le rocce di quella zona erano ruvide, sbrecciate dal vento e dal tempo, ma quella no. Era liscia, levigata , quasi come se qualcuno l'avesse lavorata a mano.
La curiosità lo punse ancora più forte. Si strinse le dita sulle ginocchia e iniziò a scalare il pendio. Il terreno era sdrucciolevole, ma lui sapeva dove mettere i piedi. Era nato in campagna, ci era cresciuto tra serre, pascoli e trazzere, e certe cose gli venivano naturali.
Arrivato in cima, si trovò davanti a qualcosa che gli fece fermare il respiro. Là dove la pietra si era staccata, si apriva un ingresso.
Non era una crepa naturale, né una semplice fessura nella roccia. Era una piccola apertura quadrata, perfetta, larga non più di cinquanta centimetri. Non poteva essere un caso.
Con il cuore che gli batteva forte nel petto, si chinò e infilò la testa dentro.
Appena lo fece, un odore lo investì con violenza. Non era muffa, né terra umida.
Era odore di pane appena sfornato.
E comu può mai esseri sciavuru di pani sciurnatu?" mormorò Raffaele tra sé, mentre il cuore gli batteva nel petto come un martello.
L'odore era forte, inconfondibile. Non sapevamo di terra umida, né di muffa o pietra vecchia. Era pane caldo, appena sfornato, come quello che la nonna tirava fuori dal forno la mattina presto. Ma in una grotta sperduta in mezzo alla campagna, quell'odore non aveva senso.
Si morse il labbro e, preso dalla curiosità, si chinò e infilò il busto nell'apertura. Il buio era denso , gli occhi avevano bisogno di qualche secondo per adattarsi. Mentre avanzava a quattro zampe, con il fiato corto e le mani che sfioravano il terreno freddo, sentì qualcosa che lo fece bloccare di colpo.
Un parrascinu?!?!
Un brusio di voci, soffuso, lontano, come se qualcuno stesso parla da un'altra stanza. Non era vento. Non era il suono della sua immaginazione.
Un brivido gli salì lungo la schiena. Era terrorizzato. Ma anche dannatamente curioso.
E se... se avesse trovato la truvatura ?
Se fosse un tesoro dei saraceni?
O magari qualcosa di ancora più antico, nascosto dai greci?
Deglutì a fatica, chiuse le dita a pugno e strisciò dentro, lentamente, mentre la grotta si stringeva attorno a lui e virava a sinistra. Dopo pochi metri in discesa, lo spazio si aprì improvvisamente in una cavità più ampia.
E lì, davanti ai suoi occhi increduli, si trovò una tavola imbandita con ogni ben di Dio .
Selvaggina, pane, dolci, frutta, formaggi, caraffe di vino che riflettevano la luce tremolante delle candele.
Le candele stesse erano enormi, alte almeno mezzo metro, piazzate in pesanti candelabri di ferro battuto.
Ma quello che lo fece impietrire fu ciò che c'era intorno alla tavola .
Un gruppo di uomini.
Erano tredici. Vestivano con abiti sgargianti, tuniche di velluto, calzoni di seta, cinture decorate d'oro. Se la ridevano tra loro, alzando i bicchieri colmi di vino, come se il tempo non li toccasse. Sembravano usciti da un'altra epoca.
Raffaele si nascose d'istinto dietro una roccia, il cuore che gli martellava nelle orecchie. Chi erano?
Non ebbe il tempo di rispondere.
Dalla porta a destra della tavola comparvero due figure enormi.
Erano due cuochi , alti e massicci, con grembiuli sporchi di farina e mani grandi come pale. Portavano vassoi fumanti, teglie colme di carne arrosto e piatti ricolmi di cibo , che sistemavano con precisione sulla tavola.
Raffaele sentì il sangue gelarsi nelle vene. Quella non era una scena normale.
Si ritrasse, con il respiro mozzato. Pensò a Giovanni, rimasto fuori ad aspettarlo.
Doveva andare. Ora.
Si girò di scatto e, con mani e ginocchia che raschiavano il terreno, gattonò via il più velocemente possibile , senza mai voltarsi indietro.
Appena fuori dalla grotta, inciampò e scivolò lungo la discesa del cozzo.
La polvere gli entrò negli occhi, i rovi gli graffiarono le mani, ma non si fermò.
Corse a perdifiato verso Giovanni.
Fine Prima Parte