Leggende, storie e curiosità siciliane

Leggende, storie e curiosità siciliane Questa pagina è un viaggio nel cuore della Sicilia, isola incantevole che custodisce una ricca eredità di storie, curiosità e leggende.

Scopri i racconti affascinanti e i luoghi straordinari che fanno della Sicilia una gemma nel Mediterraneo.

🔵Questo racconto non lo conoscevo. Me lo ha tramandato il mio carissimo amico Franco Gurzeni, e da lui l’ho raccolto cos...
21/09/2025

🔵Questo racconto non lo conoscevo. Me lo ha tramandato il mio carissimo amico Franco Gurzeni, e da lui l’ho raccolto così come un tempo si raccoglievano i cunti dei nostri nonni.

Gli scuti

Un tempo, in Sicilia, quando la gente cercava risposte che nessuno poteva dare, si affidava agli scuti.
Il termine viene da scutare, che in siciliano significa ascoltare. Non si trattava di magia né di superstizione vera e propria: era un modo antico di leggere il proprio destino nelle parole degli altri.

Ogni città aveva i suoi luoghi: piazze, slarghi, angoli di mercato. A Gela, per esempio, bastava fare una passeggiata in certe zone e tendere l’orecchio. Le voci della gente, i discorsi buttati lì, diventavano segni da interpretare. Chi aveva un dubbio – una madre preoccupata per il futuro della figlia, un uomo che temeva di non avere eredi, una vedova che sperava in nuove nozze – non cercava un indovino, ma si lasciava guidare dal caso.

Gli scuti erano questo: un modo per trasformare parole comuni in risposte alla propria vita. Bastava ascoltare, e dentro quelle frasi, pronunciate senza saperlo, ognuno trovava la propria verità.

Tra chi si affidava agli scuti c’era anche Za Maruzzeddra. La sarta del quartiere Ospizio Marino, donna di carattere che faceva scendere uomini a cavallo, aveva però un cruccio che le pesava sul cuore: sua figlia Cettina.

La ragazza aveva già ventitré anni, e per l’epoca era considerata una “schetta ranni”, cioè zitella. In quegli anni, infatti, le fanciulle andavano spose pochi anni dopo esser diventate signorine. Vederla ancora in casa, con gli occhi spenti e le mani occupate tra telaio e ricamo, era motivo di chiacchiere in quartiere. “A facistivu zita a Cettina?”, si chiedevano le comari. Quelle parole erano come spine per Za Maruzzeddra.

Un giorno, stanca di tormentarsi, prese la sciallina e se la mise sulle spalle. Senza dire niente a nessuno, uscì di casa e si incamminò verso piazza Santa Lucia. Quella piazza era uno dei punti di ritrovo per i viddrani che scendevano in città: si fermavano in gruppi a parlare di raccolti, di animali e di stagioni.

Za Maruzzeddra rallentò il passo vicino al primo gruppo. Si mise ad ascoltare con attenzione. Uno di loro, parlando ad un compagno, disse chiaro:
«No cumpà, si marita… tardu, ma si marita.»

Il cuore della donna ebbe un sussulto. Continuò a camminare, passò accanto a un altro gruppo e sentì un uomo dire:
«Ata stari quetu, un vata scantari.»

Per lei non c’erano più dubbi: gli scuti avevano parlato.

Quel giorno, Za Maruzzeddra tornò a casa con il cuore più leggero. Le parole ascoltate in piazza Santa Lucia le risuonavano dentro come una certezza: “Si marita, tardu ma si marita… ata stari quetu, un vata scantari.” Ogni volta che guardava Cettina, con quel viso dolce e gli occhi buoni, ripeteva a sé stessa che il destino era già scritto.

Passarono le settimane. Le giornate scorrevano uguali, ma dentro casa aleggiava un’attesa silenziosa, come se qualcosa dovesse accadere. E accadde.
Un giovane aveva notato Cettina alla scuola di ricamo, e colpito dalla sua grazia ne parlò con la propria madre.

Fu così che una mattina, a bussare alla porta di Za Maruzzeddra, non fu il ragazzo, ma la mamma di lui. Con i modi rispettosi e solenni di allora, venne a proporre il fidanzamento.

Quando Za Maruzzeddra la vide, capì che quello era il compimento degli scuti. Non c’erano più chiacchiere di comari, né sospiri di rassegnazione: a casa arrivò la promessa di zitaggio, la prima vera festa dopo tanta attesa.

Perché dalle nostre parti, a volte, basta davvero solo ascoltare.

U Sciav'ru ProibitoMangiova è un puntino sulla mappa tra Gela e Butera, una contrada fertile dove la terra fa crescere a...
19/09/2025

U Sciav'ru Proibito

Mangiova è un puntino sulla mappa tra Gela e Butera, una contrada fertile dove la terra fa crescere anche il seme più duro a germogliare, per me bambino rappresentava l'universo intero. L'estate si spalancava davanti a noi come una promessa di vacanze estive tra animali ed esperienze nuove ogni giorno, mentre il sole siciliano trasformava ogni cosa in una carcara accesa.

Quel caseggiato immenso viveva il ritmo delle stagioni. Dalle finestre, con i portelli socchiusi filtravano raggi dorati che danzavano sul pavimento bianco e a cerchi colorati, mentre fuori, nel cortile, le tavole di legno grezzo ospitavano il loro prezioso carico. Le cchiappe - pomodori spaccati a metà con la pazienza di chi conosce i tempi della terra - si distendevano in file ordinate, ogni metà un gioiello scarlatto cosparso di sale. Il sole le accarezzava, le concentrava, ne tirava fuori l'acqua lasciando l'essenza più pura di quei frutti.

Mia nonna si muoveva tra quelle tavole come una sacerdotessa nel suo tempio, controllando, aprendole quando si arricciavano, proteggendo quel companatico veloce nelle serate estive o aperitivo frugale quando arrivavano ospiti improvvisi. Le sue mani, segnate dal lavoro e dal tempo, conoscevano ogni segreto di quella terra ingrata e allo stesso tempo tanto generosa.

Ma il cielo siciliano è traditore per natura. In un attimo, l'azzurro perfetto si macchiava di grigio scuro. Il vento, che fino a un momento prima soffiava appena tra le vigne a tendone, si alzava improvvisamente da ponente, squotendo ulivi e palme come durante un terremoto.

Il primo tuono era il segnale. La voce di mia nonna tagliava l'aria come una lama: "Spicciativi! Pigghiatili! , senò si lavanu e pigghinu i vermi!"

E allora iniziava la danza frenetica della salvezza. Io, mio fratello e i miei zii, portavamo le tavole pesanti verso il riparo della veranda. Il legno scivolava tra le mani. I primi goccioloni di pioggia esplodevano sulla polvere come piccoli meteoriti, lasciando crateri scuri che si moltiplicavano rapidamente.

Quando finalmente l'ultima tavola trovava rifugio, quando l'ultima cchiappa era al sicuro, io mi sedevo accanto mio fratello sul sedile in legno blu lungo almeno 4 metri, il fiatone a causa di quella corsa frenetica. Ed era allora che arrivava.

U sciavuru.

Non era semplice profumo - era un'epifania. La terra, dopo mesi di siccità brutale, si apriva come un fiore notturno. Ogni molecola d'aria portava con sé il racconto segreto del suolo: gli oli delle piante che si disperdevano nell'aria, il risveglio di mille creature microscopiche che attendevano quel momento, l'abbraccio tra acqua e terra che generava qualcosa di nuovo, di primordiale.

Chiudevo gli occhi e quel profumo mi riempiva completamente. Era dolce e selvatico, carico di promesse e di memorie che non sapevo di custodire per tutta la vita. Sentivo la Sicilia che si raccontava nella sua lingua più vera.

Ma quando aprivo la bocca per dire quanto mi piacesse quell'odore, mia nonna si girava di scatto e mi guardava male.

"Un si dici mai", diceva con una severità che non ammetteva repliche. "Mai!"

I suoi occhi, si facevano duri. Perché nella saggezza contadina, in quella filosofia nata dal rapporto quotidiano con la vita e la morte di ogni animale, la terra e la vita, chi amava l'odore della terra bagnata chiamava a sé la propria fine. Diceva che era il profumo che sentivano i morti dopo essere stati seppelliti, l'ultimo senso che li legava al mondo dei vivi prima di sprofondare nel silenzio della terra.

Gli anni sono passati. Ho imparato che la scienza chiama quel profumo petricore, dal greco petros (pietra) e ichor (il liquido che scorreva nelle vene degli dei). Ho scoperto la geosmina prodotta dagli attinomiceti, gli oli volatili delle piante, la chimica precisa di quella magia. Ho capito i meccanismi molecolari dietro quella poesia.

Ma quando chiudo gli occhi e torna quel profumo - dopo un temporale estivo, in una strada di campagna, in un giardino appena innaffiato - non penso alla scienza. Non penso nemmeno più al tabù di mia nonna.

Torna Mangiova. Tornano le cchiappe rosse, l'astrattu, le tavole pesanti. Torna l'odore più vero dell'estate, quello che mi ha insegnato che alcuni amori si vivono in silenzio, che la bellezza a volte si nasconde dietro la paura, che il mondo è pieno di profumi proibiti che vale la pena respirare almeno una volta nella vita.

Anche se non si può dire.

LA FIERA DEL DESTINOLa leggenda racconta che, nelle notti più cupe, presso il lago di Pergusa il silenzio si spezza all’...
17/09/2025

LA FIERA DEL DESTINO

La leggenda racconta che, nelle notti più cupe, presso il lago di Pergusa il silenzio si spezza all’improvviso. Le montagne brulle fanno da cornice a caverne profonde, e da quelle gole oscure emergono sette diavoli. Hanno corna, code e corpi neri come carbone. Appena appaiono, il mondo attorno si scuote: esplode la tregenda.

I demoni ballano come forsennati, urlano con voci gutturali, cantano versi che nessun uomo può capire. Le loro grida fendono l’aria e rimbalzano sulle rocce. La terra trema sotto i loro passi, e il vento porta odore di zolfo e cenere. Quando la furia rallenta, i sette si guardano negli occhi e danno inizio al gioco più tremendo: il tocco. Chi viene segnato dal Destino riceve un compito preciso. Il giorno seguente deve confondersi tra gli uomini, scegliere la maschera che preferisce e portare un’anima all’inferno.

Il prescelto prende forma di caprone. I suoi occhi bruciano come carboni accesi, la bocca ribolle come un cratere in eruzione. Attorno a lui si leva un vento che strappa foglie e pietre, si contorce in vortici senza fine. Dalle viscere della terra salgono fiamme sulfuree e vapori che bruciano la gola. I compagni si agitano insieme a lui, trascinati in una danza frenetica. Il frastuono cresce: catene che sbattono, carri che cigolano, belve che ruggiscono, serpi che sibilano, cani che abbaiano e gatti che graffiano l’aria con miagolii agghiaccianti. Poi, con un tonfo che sembra un tuono, la tregenda si spegne. I demoni si ricacciano nelle caverne, lasciando dietro scie di zolfo incandescente come fiumi ardenti. Rimangono solo silenzio, tenebra e paura.

Ma la leggenda racconta ancora.

Il giorno successivo, uno di quei demoni si travestì da dama splendida. Indossava abiti sontuosi che rilucevano anche nella polvere. Camminava tra le strade con passo leggero, ma ogni suo movimento appesantiva l’aria. Sembrava che il respiro stesso degli uomini si fermasse al suo passaggio.

I suoi occhi si posarono su un giovane operaio che lavorava in alto, su un ponte del cantiere. Il ragazzo batteva col martello, ma il colpo p***e ritmo, come se un incanto lo avesse bloccato. Quelle pupille lo inchiodarono: profonde, dolci e ingannevoli. Lo avvolsero come vino forte, gli annegarono i sensi. La dama gli strizzò l’occhio e il suo corpo tremò. Le gambe cedettero, il fiato gli rimase strozzato in gola. Un brivido lo attraversò dalla nuca ai piedi, e il vuoto lo reclamò.

Il corpo cadde giù, sbattendo tra macerie e polvere. Il rumore della caduta spense per un attimo ogni suono del cantiere. Il demone, con rapidità feroce, gli fu addosso per strappargli l’anima. Ma il giovane, con fiato spezzato e voce spegnente, invocò il nome della Madre di Dio. La luce si accese intorno a lui, invisibile eppure potente. Il demonio urlò, le sue carni finte presero fuoco, si contorse furioso e svanì in un vortice di zolfo e fiamme.

Arso dall’odio della sconfitta, il maligno cercò subito un’altra vittima. Scorse una giovane che camminava sola per una via di campagna. Era la figlia di quell’operaio, e non sapeva ancora della tragedia. Il suo passo era leggero, il volto candido, i capelli mossi dal vento. La sua purezza brillava nella semplicità di quel cammino solitario.

Il demone si travestì da contadinella dal viso rubicondo e dall’aria ingenua. La campagna sembrò mutare al suo arrivo: gli uccelli tacquero, le cicale smorzarono il loro canto, persino il sole p***e forza. La fanciulla proseguiva ignara, e l’inganno stava per compiersi.

All’improvviso, davanti a lei, apparve una visione luminosa. Era suo padre, morto da pochi istanti. Il suo volto emanava pace, gli occhi trasmettevano amore. Con gesto lento si tolse dal collo l’abitino della Purissima e lo posò su quello della figlia.

Un boato squarciò la campagna. Le fiamme salirono dal terreno, il fumo riempì l’aria come in una polveriera che esplode. Il demonio urlò come una belva ferita, si contorse nella rabbia e venne risucchiato nell’abisso.

Secondo la leggenda, da quel giorno, la Fiera del Destino p***e forza. I figli di Enna si affidarono a un talismano che nessun inganno poteva spezzare: la fede in Maria Santissima Madre di Dio.

Il Conte Ruggero e Betta la TraditriceGli anni correvano tra il 1058 e il 1070. Ruggero d’Altavilla, ultimo figlio di Ta...
15/09/2025

Il Conte Ruggero e Betta la Traditrice

Gli anni correvano tra il 1058 e il 1070. Ruggero d’Altavilla, ultimo figlio di Tancredi, raggiunse la Sicilia dopo i fratelli Roberto il Guiscardo e Guglielmo Braccio di Ferro. Il giovane Normanno portava con sé il coraggio, l’ambizione e la forza di un uomo deciso a lasciare un segno nella storia. Le cronache lo avrebbero poi chiamato Gran Conte.

Dopo le vittorie ottenute in Calabria, Ruggero guardò all’isola come a una nuova sfida. Le sue truppe marciarono per valli e contrade, incendiarono villaggi, saccheggiarono campagne, imposero il terrore con la spada e il fuoco. Ogni passo segnava l’avanzata di un esercito deciso a piegare i centri più forti della Sicilia.

Un giorno il conte giunse sotto le mura di Enna, città posta in cima a un altopiano aspro e difeso da precipizi. Quella rocca sembrava sospesa tra cielo e terra, protetta da mura solide e da un popolo fiero. Ruggero pose gli accampamenti e diede ordine ai suoi di stringere l’assedio.

Gli ennesi compresero subito il destino che li attendeva. Uomini e donne, giovani e vecchi, si mossero come un solo corpo. Le strade si riempirono di voci, di mani pronte a sollevare pietre, di braccia tese a riparare bastioni.
Ogni famiglia offrì ciò che possedeva, ogni artigiano mise la propria arte al servizio della città.

Passarono i mesi. Il gelo dell’inverno scese sulle campagne, le giornate divennero corte, i venti tagliavano le vesti e il freddo rodeva le ossa. Dentro le mura la fame cominciò a mordere, ma il popolo di Enna non cedette. Al contrario, rispose all’assedio con ingegno e coraggio.

Quando i messaggeri di Ruggero furono accolti in città, rimasero sorpresi da uno spettacolo che non lasciava spazio a dubbi: enormi mucchi di grano, ammassati come montagne, riempivano piazze e cortili. I Normanni credettero di trovarsi davanti a riserve inesauribili. L’aria poi diffondeva un profumo irresistibile di arrosti che uscivano dalle cucine. Quel segnale bastò a convincere gli ambasciatori che la città galleggiava nell’abbondanza e che poteva resistere all’infinito.

In realtà i mucchi di frumento nascondevano sabbia, coperta solo da un velo sottile di chicchi dorati. E il profumo di carne arrostita saliva da fuochi accesi apposta, dove bruciavano animali che nessuno avrebbe mai pensato di cucinare. Tutto serviva a ingannare l’occhio e l’olfatto del nemico, a mostrare forza e ricchezza laddove rimanevano soltanto stenti.

Gli assediati non si fermarono. Munsero gli animali fino all’ultima goccia, raccolsero quel latte e lo gettarono davanti al nemico, come a dire che la città straripava di provviste. Anche i bambini e le donne partecipavano alla messinscena. Ogni gesto diventava segno di resistenza e orgoglio.

Il Conte Ruggero osservava da lontano. Ogni giorno che passava, la sua convinzione cresceva: Enna si alzava come una fortezza inviolabile, capace di respingere qualsiasi forza.

I mesi scorrevano lenti, segnati dal suono dei corni normanni e dal silenzio carico dentro le mura. Ogni giorno Ruggero attendeva il cedimento della città, e ogni giorno Enna rispondeva con fierezza.

Il tempo, però, lasciava i suoi segni. Nei vicoli la fame diventava una compagna crudele. I più deboli cadevano, i bambini cercavano pane, gli anziani resistevano stringendo i denti. Le madri dividevano l’ultima manciata di legumi, i padri si spezzavano la schiena per mantenere viva la speranza.

Eppure, agli occhi degli assedianti, la città continuava a sembrare florida. L’inganno funzionava: quei mucchi di sabbia coperti da chicchi di grano brillavano al sole come montagne di frumento, i profumi di carni arrostite si diffondevano nell’aria e illudevano chi stava fuori. Ruggero stesso, informato dai suoi ambasciatori, cominciava a credere che Enna possedesse riserve inesauribili.

Una volta i Normanni entrarono per trattare. Furono condotti in giro come ospiti d’onore e videro i finti depositi di grano, ascoltarono il vociare allegro delle cucine, sentirono nell’aria l’aroma degli arrosti. I messaggeri tornarono all’accampamento scoraggiati, convinti che la città reggesse senza timore.

Ruggero iniziò a nutrire dubbi sulla possibilità di conquistare quella rocca. La sua mente calcolava i rischi: un assedio lungo stremava i soldati, logorava le risorse, esponeva l’esercito agli agguati delle campagne. Tutto portava a un’unica decisione: alzare le tende e abbandonare l’impresa.

Dentro Enna, intanto, gli abitanti stringevano le cinture. Le pietre diventavano più pesanti, i giorni più duri, le notti più fredde. La città resisteva, ma il limite si avvicinava.

Ruggero osservava la fortezza dall’altura del suo accampamento e pensava che nessuna forza avrebbe piegato quella resistenza. Il suo animo di guerriero rispettava quel coraggio. Già progettava il ritiro, convinto che Enna fosse destinata a rimanere un baluardo imbattuto.

Ma mentre il Conte meditava di andarsene, il destino preparava un colpo di scena che avrebbe cambiato tutto.

Tra le mura di Enna viveva Betta, giovane dai capelli corvini e dagli occhi scuri, promessa sposa di un soldato normanno. Un amore nato nei mesi precedenti, quando gli scontri si alternavano a tregue e scambi di parole tra nemici e cittadini. In lei bruciava un sentimento ardente, capace di spegnere ogni altro pensiero.

Il tempo dell’assedio, però, trasformò quell’amore in tormento. Betta guardava la città soffrire: le case vuote di pane, le strade silenziose, i bambini che cercavano un tozzo di cibo. Dentro di sé, però, la paura più grande era un’altra: il ritiro dei Normanni. Se Ruggero avesse alzato l’assedio, il suo amato sarebbe tornato lontano, e il destino li avrebbe separati per sempre.

La notte in cui prese la decisione, Betta tremava. Uscì di casa, cercò il contatto con il soldato che amava e gli rivelò il segreto custodito dagli ennesi: le scorte erano finite, la città cedeva alla fame, e nel giro di pochi giorni le mura sarebbero cadute senza colpo di spada.

Quelle parole, portate alle orecchie di Ruggero, cambiarono il corso della guerra. Il conte, già deciso a lasciare il campo, trattenne i suoi uomini e ordinò di stringere ancora l’assedio. I Normanni, incoraggiati dalla notizia, serrarono i ranghi. Dentro la città, la fame dilagava come un fuoco.

Pochi giorni dopo, le porte cedettero. Ruggero entrò vittorioso in Enna. I suoi stendardi sventolavano sulle torri, i cavalieri normanni riempivano le strade, e la città che aveva resistito per mesi cadde in un istante.

Betta guardava tutto dall’alto del castello. Il cuore non trovava pace: l’amore l’aveva guidata, ma la sua voce aveva consegnato Enna al nemico.

Quando le insegne normanne sventolavano già sulle torri, Betta salì sul punto più alto del castello. Da lassù osservava la città piegata: le strade percorse dai cavalieri, le case violate, il silenzio dei suoi concittadini. Ogni sguardo le ricordava il peso delle sue parole.

Il rimorso le divorava il cuore. Aveva scelto l’amore per un uomo e, con quella scelta, aveva spezzato il destino della sua gente. Le grida lontane non erano più voci di vittoria, ma un canto di condanna che risuonava solo per lei.

Betta si fermò davanti al precipizio. Il vento le sollevava i capelli e portava con sé l’eco dei tamburi normanni. Per un attimo chiuse gli occhi, e nel buio vide il volto dell’uomo che amava. Un sorriso breve le attraversò le labbra. Poi il passo. Il corpo si staccò dalla rocca e si frantumò contro le pietre della valle.

La notizia raggiunse Ruggero. Il Gran Conte ascoltò in silenzio, senza giudizio né rabbia. L’animo del guerriero, temprato da mille battaglie, si piegò davanti alla tragedia di quella giovane. Ordinò che la sua memoria non si disperdesse.

Sul monte di fronte a Enna fece costruire un nuovo centro, e gli diede il nome di Calascibetta, il castello di Betta. Così il ricordo della fanciulla, segnata dall’amore e dal rimorso, rimase inciso nella pietra e nella storia.

Ancora oggi, chi pronuncia quel nome evoca la leggenda di una ragazza che sacrificò la città per seguire il cuore, e che nel cuore trovò la sua fine.

La lettera del diavoloAd Agrigento, in tempi remoti, giunse uno straniero dall’aspetto raffinato. Alto, vestito con eleg...
10/09/2025

La lettera del diavolo

Ad Agrigento, in tempi remoti, giunse uno straniero dall’aspetto raffinato. Alto, vestito con eleganza, portava con sé un fascino irresistibile, un’aria signorile che lo rendeva simile a un grande signore. Ovunque andasse, la gente lo osservava con ammirazione: il suo sorriso era capace di conquistare anche i cuori più diffidenti, e la sua cordialità sembrava attenuare ogni distanza sociale.

Quell’uomo non era un uomo. Era il diavolo.
Sotto il volto gentile, celava le forme mostruose della sua vera natura: coda, corna, occhi di fuoco, simili al traghettatore dantesco che guida le anime lungo il fiume infernale. Eppure, quando desiderava una preda, il maligno sapeva indossare le sembianze di un cavaliere.

Trascorsi pochi giorni dal suo arrivo, il diavolo posò lo sguardo su una giovane agrigentina: Lucia. La ragazza aveva la freschezza di un bocciolo di rosa in maggio, la purezza delle vette del Carmelo, la gioia luminosa di un’alba di primavera. Bellezza e candore che avrebbero dovuto scoraggiare il maligno, invece ne accesero la brama.

Lucia sentiva l’insistenza di quell’uomo come l’assalto di un esercito che cinge d’assedio una fortezza. Ogni suo gesto era elegante, ogni parola seducente, ma in quell’incanto c’era qualcosa di oscuro, un’ombra che la faceva rabbrividire. Intuiva che dietro la promessa di felicità si nascondeva un abisso senza fondo.

Il corteggiatore non si arrese. Vestito da cavaliere, moltiplicò i suoi tentativi. Le offrì ricchezze, terre, tesori vasti quanto la sua stessa ambizione. I suoi occhi, neri come le more di campagna, ardevano di desiderio. Ma Lucia rispose sempre con fermezza: «No, no, no!». La sua fede la sosteneva.

Il rifiuto accese l’ira del diavolo. Decise allora di usare l’arma più sottile: la parola scritta. Redasse una lettera piena di promesse e lusinghe, in cui si proclamava suo schiavo e la innalzava a regina. Dichiarava di vivere soltanto per lei, di voler fondere in una sola le loro anime, e concludeva con un invito che sapeva di condanna: «Confondiamo, adunque, e leghiamo in una sola le nostre due anime, e la felicità sarà nostra!»

Lucia, leggendo, sentì il cuore travolto da una tempesta. Il desiderio di lasciarsi andare e la paura di smarrirsi si scontravano dentro di lei. Le parole di quella lettera le sembravano ardere come fiamme di passione, mentre una voce segreta, profonda e misteriosa, la ammoniva: «Fuggi, non dargli ascolto!». Ma subito un’altra voce, insinuante, la tentava: «Vieni, fuggiamo insieme. Ti dono amore, vita, ricchezza!».

In quel tormento, il suo cuore rischiava di spezzarsi.

Nella notte, la Madonna le apparve in sogno. Con dolcezza materna le disse:
«Lucia, so quanto soffri. Porta quella lettera al tuo confessore. Segnati tre volte con la Croce del mio Figlio adorato, inginocchiati e ascolta la mia voce. Sarai salva. Quella lettera resterà nei secoli a testimoniare la vittoria sul nemico».

All’alba, Lucia si svegliò come rinata: serena, leggera, libera. Seguì il consiglio della Vergine e consegnò la lettera al sacerdote, che a sua volta la portò al Vescovo. Da allora, quel documento venne custodito con cura nella chiesa madre di Agrigento.

Lucia si salvò, il maligno tornò a inabissarsi nelle sue tenebre, e la lettera rimase come prova tangibile della vittoria della luce. Una vittoria accaduta in una terra verde e splendida, la Sicilia.

DisclaimerQuesta storia si ispira a fatti realmente accaduti e a una persona realmente esistita. I nomi dei protagonisti...
09/09/2025

Disclaimer
Questa storia si ispira a fatti realmente accaduti e a una persona realmente esistita. I nomi dei protagonisti sono stati cambiati per rispetto della privacy dei discendenti e dei familiari ancora in vita.

A Zzà Cuncittina a Sinzala

Quando il profumo della legna bruciata si spandeva per le viuzze di via Agatocle, nel quartiere locu Baruni, mescolandosi agli odori di mare e di terra, era il segno che a za Cuncittina a Sinzala aveva acceso il forno. Alta quasi un metro e ottanta, una gigantessa per quei tempi, la sua figura riempiva l’ingresso della casa come una colonna. Faceva il pane a parti i casa e lo vendeva ai vicini: cucciddrati, vasteddre da cinque chili per le famiglie numerose, scacciate, filoni, scacciuna da cunzare con sarde e pecorino.

Ma dietro quella forza, dietro le mani grandi che impastavano ogni giorno farina, acqua e criscente, si nascondeva una ferita che non si poteva rimarginare.

Molti anni prima, Cuncittina aveva avuto una figlia, Filomena. Bella e piena di vita, si era innamorata di Pauliddru, un giovane che la madre riteneva “sbagliato”: senza mestiere, senza terra, con la fama di campare alla giornata. Cuncittina si oppose con tutta sé stessa, convinta che quell’amore avrebbe trascinato la figlia nella rovina.

Quando le parole non bastarono, prese la decisione più dura: chiuse Filomena in casa, negandole ogni incontro, ogni sorriso, ogni speranza. Credeva di salvarla, ma la ragazza si spense lentamente, consumata dal dolore. Rifiutava il cibo, taceva, e alla fine il suo cuore cedette, lasciando la casa immersa in un silenzio che nessun rumore avrebbe mai potuto colmare.

Da quel giorno, a Zzá Cuncittina non fu più la stessa. Era quella del pane al quartiere, ma dentro di sé covava un giuramento: nessun’altra figlia avrebbe dovuto morire d’amore, nessun’altra madre avrebbe dovuto vivere con quel rimorso.

Così iniziò a cunzare i matrimoni. Conosceva famiglie e parentele meglio di chiunque altro, sapeva chi aveva buona reputazione, chi portava doti oneste, chi meritava fiducia. Dove c’era diffidenza, lei diventava ponte; dove c’erano muri, trovava una porta. Non accettava denaro, solo i doni che arrivavano per gratitudine: mezzo crastagneddu, una pezza di tumazzu, un sacco di grano, un cafisu d’olio.

E ogni volta che una coppia nasceva, che una sposa sorrideva, negli occhi di Cuncittina riaffiorava l’immagine di Filomena. Forse era proprio questo che la spingeva a continuare: ogni matrimonio cunzato era un’offerta all’anima della figlia perduta. Dal suo errore, da quel senso di protezione esagerato finito in tragedia, Cuncittina cercava un riscatto, una serenità che si rifletteva nei sorrisi degli sposi.

Si dice che, quando le coppie che avevano avuto il suo aiuto mettevano al mondo un figlio, Cuncittina trovava piacere nel preparare con le sue mani una copertina ai ferri, un paio di calzette di lana, un berrettino. Piccoli doni che custodivano il calore della sua pena trasformata in amore, forse anche per il desiderio di quei nipoti mai arrivati.

E spesso, al tramonto, la si vedeva seduta davanti all’uscio, con l’uncinetto tra le mani, il forno che ancora profumava e i bambini del quartiere che correvano e ridevano. Li guardava in silenzio, come se fossero i nipoti, a causa del suo errore, la vita le aveva negato, trovando in quel vocìo infantile, la pace che il destino un tempo le aveva strappato.

Al Calar Delle Tenebre, I Vicoli Di Gela Diventano Lo Scenario Perfetto Per Racconti Di Spettri, Maledizioni E Personagg...
08/09/2025

Al Calar Delle Tenebre, I Vicoli Di Gela Diventano Lo Scenario Perfetto Per Racconti Di Spettri, Maledizioni E Personaggi Leggendari.

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Era il 1476, un periodo in cui la città di Gela ancora portava il nome di Terranova e la vita dei contadini si intreccia...
08/09/2025

Era il 1476, un periodo in cui la città di Gela ancora portava il nome di Terranova e la vita dei contadini si intrecciava con le preghiere rivolte alla Madonna, sperando in un buon raccolto e nella protezione divina.
Salvatore, un giovane contadino devoto, lavorava nella contrada margi (oggi villaggio Aldisio), dove oggi sorge il Santuario della Madonna dell'Alemanna nei pressi della chiesa San Domenico Savio.
Un giorno, mentre stava arando la sua terra con due robusti buoi, accadde qualcosa di insolito. Le bestie, senza apparente motivo, si fermarono e si rifiutarono di proseguire. Salvatore si avvicinò per cercare di capire cosa li avesse bloccati. Pensando fosse una radice o una pietra nascosta sotto la terra, cominciò a scavare con la vanga, sperando in cuor suo di trovare qualcosa di valore.
Quello che emerse non era un tesoro materiale, ma qualcosa di molto più prezioso. Quando le sue mani toccarono il legno di una tavola antica, Salvatore si inginocchiò. Estrasse con cura la tavola dal terreno, e davanti ai suoi occhi apparve l’immagine di una figura sacra: la Madonna con il Bambino, sbiadita dal tempo ma carica di una potenza spirituale indescrivibile. Era un'icona mariana, e i suoi occhi parevano guardare direttamente nel cuore di Salvatore.
In quello stesso istante, i suoi buoi si inginocchiarono, come se avessero riconosciuto la santità di quel ritrovamento. Salvatore, tremante, si rese conto di essere testimone di un miracolo. La notizia si diffuse rapidamente tra gli abitanti del luogo e le autorità ecclesiastiche. Si decise di erigere un Santuario dove l'icona era stata ritrovata, e la Vergine Maria, sotto il titolo di Madonna dell'Alemanna, divenne la protettrice di Gela.

Nei secoli a ve**re, a questa sacra immagine vennero attribuiti molti miracoli. Tra i più significativi, si racconta che la Madonna abbia salvato la città di Gela dalla devastazione durante il terremoto dell'11 gennaio 1693, che colpì duramente la Val di Noto, ma risparmiò la città. E ancora, nel luglio del 1943, quando le forze alleate sbarcarono sulle coste siciliane durante l'Operazione Husky, i cittadini si rivolsero alla Madonna per la sua protezione, e molti attribuiscono a Lei lo scampato pericolo dai bombardamenti.
Da allora, la Madonna dell'Alemanna continua a essere il simbolo della fede e della speranza per il popolo gelese, che ogni anno l’8 settembre si riunisce per onorarla con la tradizionale processione, portando l’icona attraverso le vie della città.

Disclaimer:
Questo racconto trae ispirazione dalla leggenda popolare del ritrovamento dell’icona della Madonna dell’Alemanna.
Alcuni eventi sono stati romanzati per intrattenere e coinvolgere i lettori.

Indirizzo

Gela
93012

Sito Web

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