Leggende, storie e curiosità siciliane

Leggende, storie e curiosità siciliane Questa pagina è un viaggio nel cuore della Sicilia, isola incantevole che custodisce una ricca eredità di storie, curiosità e leggende.

Scopri i racconti affascinanti e i luoghi straordinari che fanno della Sicilia una gemma nel Mediterraneo.

Nel cuore di questa città ogni zolla contiene millenni. Ogni scorcio racconta una civiltà. Ogni granello sa di miele, di...
17/04/2025

Nel cuore di questa città ogni zolla contiene millenni. Ogni scorcio racconta una civiltà.
Ogni granello sa di miele, di battaglia, di amore, di sudore, di civiltà.
Ogni seme piantato porta in grembo un racconto che nessuno potrà cancellare.

Questa tomba è nostra. Non per possesso, ma per appartenenza.
È la prova che la grandezza dorme sotto i nostri piedi e si sveglia ogni volta che qualcuno osa toccarla con rispetto.

Gela è madre di storia.
È ventre di civiltà.
È baluardo di identità.
Chi nasce a Gela possiede un cuore antico.
Chi vive a Gela respira Eterno.
Chi ama Gela, la difende. Sempre.

Quello che non dissero maiGela, 1949All’epoca Gela era piccola. La guerra era finita da qualche anno, ma la città era vi...
12/04/2025

Quello che non dissero mai

Gela, 1949

All’epoca Gela era piccola. La guerra era finita da qualche anno, ma la città era viva come è viva oggi. Forse è una prerogativa del popolo gelese essere sempre presenti, anche nelle ore tarde della sera.
A est finiva davanti al cimitero monumentale, che sembrava quasi una fortezza di silenzio e cipressi, appoggiata alla campagna.
A nord si interrompeva in quella che tutti chiamavano “a strata i l’amuri”, oggi via Crispi, dove le coppiette si imboscavano sotto i carretti parcheggiati per la notte.
A ovest, la città si fermava al quartiere Molino a Vento, quartiere che guardava il mare e la collina dove oggi sorge il museo.
Le strade erano di terra o basole nere di pietra lavica, le case basse con i tetti in coppo siciliano, e la notte si sentiva il rumore dei carretti che tornavano dalla campagna.

Pietro e Sarina erano fratello e sorella. Vivevano con la madre e un padre sordo di guerra, insignito con la medaglia al valore militare sotto l'effige di Vittorio Veneto.
Un uomo che, dopo la disgrazia della sua disabilità, aveva dedicato la vita alla cultura, scrivendo poesie e racconti da leggere ai bambini la sera.
Abitavano nel quartiere San Giacomo, in una delle stradine tra via Martorana e via Polieno, dove i bambini giocavano all'usignolo o ai 4 canti, e le donne vicine di casa parlavano sedute con le sedie sui marciapiedi.

Sarina aveva appena compiuto quindici anni. Era alta e snella, i capelli neri lunghi fino alla schiena e due occhi grandi, sempre scaltri.
Si muoveva con la grazia di chi non sapeva ancora quanto fosse bella.
Pietro, che di anni ne aveva diciassette, era un po' più basso di lei, ma aveva un volto scolpito come quello delle statue antiche: naso pizzuto, mandibola squadrata e due occhi verdi che sembravano usciti da un dipinto bizantino.
Li aveva ereditati dalla madre, donna silenziosa che portava sulle spalle la responsabilità di una famiglia da otto figli.

Una sera di febbraio, la madre ricevette notizia che la sorella, che abitava in campagna — là dove oggi sorge il quartiere Capo Soprano — si era sentita male.
Niente di grave, forse un colpo di freddo, ma in famiglia non si lasciava mai nessuno da solo.
Così Pietro e Sarina si offrirono di andare a trovarla per vedere come stava la zia.

Camminarono a piedi lungo le trazzere che tagliavano tra vigne spoglie e zammarre.
Passarono accanto a vecchie casuzze di campagna e paragne mosse dal vento.
Arrivarono tardo pomeriggio, quasi al tramonto. La zia, pallida ma vigile, li accolse con una carezza per uno e un piatto di fave pizzicate.
Restarono un paio d’ore, poi si misero in cammino per tornare in paese.

Era buio quando presero la trazzèra che oggi è l'odierna via Palazzi.
Il cielo era limpido, punteggiato di stelle e attraversato da una luna tonda come il viso di una panettiera.
Intorno, il silenzio della campagna sembrava trattenere il respiro.
La strada era solitaria, e l’unica cosa che si sentiva era il fruscio dei loro passi e, di tanto in tanto, il verso lontano di una pivila e di qualche cirriviolo.

Fu in quel momento che Pietro si fermò. Il suo braccio si tese, trattenendo Sarina con uno strattone leggero ma deciso.

«Fèrma,» le disse sottovoce, e il tono era cambiato. Era quello di chi ha appena visto qualcosa che gli ha gelato il sangue.

Sarina seguì lo sguardo del fratello. I cipressi si muovevano appena, come se respirassero.
Le cappelle a destra e sinistra della strada proiettavano le ombre sulla strada centrale.
Il cancello quella notte non aveva catena e lucchetto.

Un brusio lieve — come se alcuni stessero parlando animosamente — veniva da dentro. Ma non c’era nessuno.
Poi, un’altra cosa. Una luce.
Una sfera che volteggiava, pallida come la pelle dei morti, si accese in mezzo alla strada centrale.
E subito dopo, il silenzio.
Un silenzio talmente denso che sembrava raggelare il sangue, come se l’aria stessa si fosse ritirata.

Pietro fece un passo indietro, stringendo la mano di Sarina con forza.

«Gira. E un taliari.»

Lei, che non aveva mai sentito il fratello parlare così, obbedì senza fiatare.

Tornarono indietro correndo, senza mai voltarsi.
Il corso Vittorio Emanuele sembrava non finire mai.
I piedi sbattevano sulle basole, il fiato era corto.

Quando arrivarono a casa, la madre li trovò pallidi come la cera.
Non dissero niente. Mai.
Non quella notte. Non il giorno dopo.
Mai.

E anche quando, molti anni dopo, quando chiesi a mia nonna Sarina di descrivermi cosa aveva visto quella notte...
La nonna rispondeva solo:
«Nenti di chiddu ca ti putissi cuntari ti facissi dormiri cchiù»

Sarina e Pietro non parlarono mai dei dettagli di quella notte.
E noi… noi ancora ci domandiamo cosa videro quella notte del 1949.

La donna più bella del mondo e il legame con TerranovaClaudia Cardinale è stata definita l'attrice italiana più importan...
13/03/2025

La donna più bella del mondo e il legame con Terranova

Claudia Cardinale è stata definita l'attrice italiana più importante degli anni Sessanta. La stampa internazionale l’ha consacrata ripetutamente come “la donna più bella del mondo” in quel decennio dorato, illuminato dal suo talento e dalla sua bellezza mediterranea. Una bellezza che non era soltanto dono personale, ma aveva radici antiche, profonde, legate indissolubilmente alla Sicilia e in particolare a Gela, un tempo Terranova.

All’anagrafe Claude Joséphine Rose Cardinale nasce a Tunisi il 15 aprile 1938. I suoi genitori, Yolanda e Francesco, erano nati in Tunisia, figli di emigranti siciliani. I nonni materni gestivano una piccola impresa di costruzioni marittime proprio a Gela (all’epoca Terranova), cittadina siciliana dalle tradizioni marinare antichissime. In cerca di fortuna, si trasferirono poi a La Goletta, sobborgo portuale di Tunisi, dove prosperava una nutrita comunità italiana, continuando l’attività che avevano avviato in Sicilia.

Sebbene entrambi i suoi genitori fossero stati educati in scuole francesi, il radicamento alle origini siciliane rimase così profondo che il padre Francesco, ingegnere delle ferrovie, scelse con orgoglio di mantenere la nazionalità italiana, rinunciando deliberatamente a quella francese. Una scelta che avrebbe potuto facilitare molto la vita della famiglia, specialmente durante la Seconda guerra mondiale, quando l’alleanza tra l’Italia fascista e il regime nazista rese la vita dura agli italiani in Tunisia, facendo emergere sentimenti anti-italiani.

Per rispetto della decisione paterna, Claudia Cardinale, anche nella maturità, quando si trasferirà stabilmente in Francia, deciderà sempre di mantenere con fierezza la cittadinanza italiana. Una scelta che ribadisce e rinnova l'amore verso la Sicilia, terra che non ha mai dimenticato, tornando spesso tra amici e parenti.

Nata a Tunisi il 15 aprile 1938 come Claude Joséphine Rose Cardinale, fino ai sedici anni Claudia parla principalmente l’arabo tunisino, il francese e il siciliano. Impara l’italiano soltanto più tardi, con difficoltà, durante l'inizio della carriera cinematografica.

Il suo debutto è segnato da un primo piano magnetico, apparso quasi per caso in un cortometraggio girato con le sue compagne di scuola dal regista francese René Vautier. Quella fugace apparizione è sufficiente a renderla celebre localmente, attirando l’attenzione del regista Jacques Baratier che la vuole accanto a Omar Sharif nel film I giorni dell’amore, sebbene con un ruolo secondario.

La svolta arriva nel 1957, quando, in occasione della Settimana del cinema italiano a Tunisi organizzata dall'Unitalia-Film, vince involontariamente e inconsapevolmente il concorso per la «più bella italiana di Tunisia». Quel premio consiste in un viaggio a Venezia, durante la Mostra internazionale del cinema, dove l'affascinante diciottenne attira immediatamente l'attenzione di registi e produttori. L’offerta di frequentare il Centro sperimentale di cinematografia di Roma le arriva subito, ma è un’esperienza breve e difficile: le difficoltà con l’italiano, la distanza culturale e la sensazione di non essere portata per il mestiere di attrice la spingono ad abbandonare gli studi dopo soli tre mesi.

Tornata a Tunisi, appare sulla copertina del settimanale “Epoca” proprio per questa decisione insolita di abbandonare il cinema. Tuttavia, al rientro scopre dolorosamente di essere incinta, frutto di una terribile esperienza personale con un uomo più grande che abusò di lei. Decide coraggiosamente di tenere il bambino, ma le difficoltà sembrano insormontabili. È proprio in questa circostanza drammatica che arriva la proposta di un contratto esclusivo da parte della casa di produzione Vides di Franco Cristaldi. Comincia così, in modo non pianificato e quasi forzato, una carriera che presto la porterà a diventare una star mondiale.

Il rapporto con Cristaldi, totalizzante e opprimente, segnato da un contratto rigido all'americana, le impone un controllo assoluto e privazione della libertà personale. Claudia dirà: «Non ero più padrona né del mio corpo né dei miei pensieri. Persino confidarsi con un'amica era rischioso».

Questo segreto doloroso, quello della nascita del figlio Patrick frutto di una violenza subita, lo conserverà per sette anni, finché non verrà scoperto da un giornale scandalistico. A quel punto decide finalmente di raccontare tutto, liberandosi dall’enorme peso, in un'intervista al celebre giornalista Enzo Biagi.

La sua straordinaria bellezza, unita al suo talento istintivo, la porta a lavorare con i più grandi registi del cinema mondiale. Visconti la vuole ne "Il Gattopardo" e in "Vaghe stelle dell’Orsa", Fellini in “8½”, Zurlini ne “La ragazza con la valigia”, Leone in “C’era una volta il West”. Hollywood non rimane indifferente e la reclama per capolavori come “La pantera rosa”, “Il circo e la sua grande avventura” con John Wayne e “I professionisti”.

Nonostante il successo planetario e una vita internazionale, Claudia Cardinale non ha mai dimenticato né nascosto le sue origini. Anzi, le ha rivendicate continuamente con orgoglio. Non dimenticherà mai di essere, in fondo, sempre la ragazza di origini siciliane, con nonni che erano partiti dalla piccola Terranova (oggi Gela) per inseguire un sogno migliore oltre il mare. Lei stessa afferma, ripensando al suo ruolo di Angelica ne “Il Gattopardo”, che sentirsi chiamare così nel mondo la rende orgogliosa, poiché si sente ambasciatrice della Sicilia ovunque vada.

La bellezza di Claudia Cardinale non è solo un fatto personale: rappresenta l'incarnazione del fascino siciliano, quella bellezza mediterranea che contraddistingue le donne di Gela, considerate da sempre tra le più belle di Sicilia, d’Italia e forse del mondo intero. È un orgoglio che Gela può rivendicare con fierezza, guardando alla storia straordinaria di una donna che, con talento e dignità, ha portato l’immagine della Sicilia in giro per il mondo.

A Truvatura di RaffaeleSeconda e ultima parteGiovanni lo guardava preoccupato, ma non riuscì a cavargli una parola di bo...
08/03/2025

A Truvatura di Raffaele
Seconda e ultima parte

Giovanni lo guardava preoccupato, ma non riuscì a cavargli una parola di bocca. Sulla via di casa nessuno parlò; solo il frinire insistente delle cicale e il suono delle campane delle vacche accompagnò i loro passi fino al tramonto.

Quella notte Raffaele non riuscì a chiudere occhio. Continuava a rivivere il momento in cui aveva visto quei tredici signori vestiti di velluto. Quando infine il sonno lo vinse, precipitò in un sogno irrequieto.

Nel buio della sua stanza, vide una figura piccola dalle sembianze umane che gli apparve ai piedi del letto. Aveva un aspetto carino e amichevole e sorrideva a Raffaele come per trasmettere serenità.

Raffaele cercava di urlare dallo spavento, ma la voce non gli usciva. Apriva e chiudeva la bocca, senza riuscire a emettere nemmeno un filo di voce.

La figura alzò la testa e, mettendo il dito indice sulla bocca come per intimare silenzio, con un balzo saltò sulla pancia di Raffaele. Avvicinandosi lentamente al suo volto, disse:

«Raffaè, u fuddrittu sugnu, chiddu chi viristi oj è a Truvatura. E cu viri a mia, avu sulu furtuna da vita. Ma stai attentu, ca ogni ricchizza havi u so prezzu. Scuta a mia: quannu viri u cruvacchiu, ca nun si viri quasi mai di sti fea, allura sarà tempu di turnari ddà.»

Raffaele si svegliò di soprassalto, sudato e confuso. Corse alla finestra spalancata sulla notte immobile. Il canto di qualche cirriviolo, o occhione in italiano, batteva il ritmo di quella notte mite e serena. Appena rasserenato, Raffaele ritornò a letto.

Qualche mese era passato da quella notte strana, e Raffaele aveva quasi dimenticato quel sogno misterioso col fuddittu. Era maggio, ora il sole era più dolce e la campagna era tornata verde dopo le piogge invernali.

Quel giorno, Raffaele era solo a pascere le vacche. Giovanni era andato a Riesi dalla zia sarta, che doveva preparargli il vestito per la prima comunione. Poggiato sul suo bastone di mandorlo selvatico, osservava le vacche che strappavano lentamente ciuffi d’erba fresca.

Improvvisamente, una sagoma scura catturò la sua attenzione. In alto, sul cozzo che nascondeva la grotta, un grosso uc***lo nero volteggiava lentamente, disegnando ampi cerchi nel cielo terso.

Raffaele strinse gli occhi e trattenne il respiro.

«Minchia, u cruvacchiu!» esclamò con un brivido che gli attraversò la schiena.

Per un attimo esitò. Guardò le vacche, indeciso se abbandonarle o meno. Ma qualcosa dentro di lui aveva già deciso. L’uc***lo nero sembrava richiamarlo con ogni giro nel cielo. Non poteva perdere quell’occasione, era il segno che stava aspettando da mesi.

Si sistemò rapidamente il tasco sulla testa e partì di corsa verso il cozzo, stringendo con forza il bastone di mandorlo tra le mani, senza voltarsi più indietro.

Raffaele arrivò davanti alla grotta con il cuore in gola e il respiro corto. Il profumo del pane caldo lo accolse ancora una volta, intenso e invitante. Restò fermo un istante davanti all’apertura, sentendo il cuore accelerare.

Con cautela entrò, ma questa volta non vide i tredici uomini vestiti di velluto. Stavolta, ad aspettarlo, c'era soltanto quella piccola figura che gli era apparsa in sogno, u fuddittu, che lo guardava sorridendo, seduto comodamente su una pietra levigata.

«Benvenuto, Raffaele, ti spittava,» disse dolcemente, con lo stesso sorriso sereno del sogno.

Raffaele esitò, cercando di ritrovare la voce. «Ca fari ora?» chiese con timore.

«Hai du strati, Raffaé,» rispose il fuddittu con un sorriso rassicurante. «Puoi entrare fino in fondo alla grotta e prendere quello che desideri. Ma ricordati, ogni ricchezza porta con sé un prezzo alto. Oppure puoi scegliere di rinunciare ora e affidarti a me. In cambio, io ti prometto una vita dignitosa e serena. Non avrai grandi fortune, ma non ti mancherà mai nulla.»

Raffaele rimase in silenzio per qualche secondo, guardando verso il buio profondo della grotta. Poi un brivido gli percorse la schiena.

E se una volta dentro non fossi mai più uscito?

Quei tredici uomini vestiti di velluto… erano davvero vivi? O erano anime rimaste prigioniere della Truvatura?

Si voltò verso il fuddittu, che lo guardava con un sorriso enigmatico, come se già sapesse la risposta.

Raffaele strinse forte i pugni, poi fece un passo indietro. «Mi cuntentu ristari accussí comu sognu. Accetto la tua proposta: un trasu.»

Il fuddittu annuì con soddisfazione. Cià nzirtasti.

Poi, con un piccolo cenno della mano, lo salutò, mentre lentamente spariva nell’ombra.

Appena uscito, Raffaele sentì un rumore leggero dietro di sé. L'apertura nella roccia era scomparsa del tutto, come se non fosse mai esistita e non parlò mai con nessuno di quella storia.

Oggi Raffaele è un nonno sereno che vive in una cittadina poco distante. Non è mai diventato ricco, ma non gli è mai mancato nulla. Ha accompagnato i suoi due figli alla laurea e trascorre le giornate tra una passeggiata in piazza, gli amici e i suoi nipoti.

E certe sere, quando si trova in campagna e sente il canto del cirriviolo, Raffaele sorride in silenzio, pensando che da qualche parte il fuddittu veglia ancora su di lui, proprio come gli aveva promesso tanti anni prima.

L'autore, appassionato delle novelle di Giovanni V***a, si ispira a Vita nei campi per scrivere storie che attingono ai ...
27/02/2025

L'autore, appassionato delle novelle di Giovanni V***a, si ispira a Vita nei campi per scrivere storie che attingono ai racconti ascoltati durante l'infanzia. Pur rifacendosi a tradizioni, luoghi e atmosfere reali, gli eventi narrati sono frutto della fantasia e della memoria popolare, senza alcuna pretesa di rigore storico.

A Truvatura di Raffaele

Il sole di agosto picchiava senza pietà sulla terra riarsa, mentre l'aria calda si sollevava tremolante dalla ristuccia ai bordi della forestale. Gli eucalipti piantati anni prima per spezzare la solitudine della campagna proiettavano ombre allungate sul terreno. Il canto delle cicale era un ronzio costante che sembrava voler addormentare ogni cosa, e in quello stesso torpore Giovanni, appena dodicenne, aveva trovato conforto, sdraiato all'ombra di un tronco, con il suo tasco siciliano calato sugli occhi.

Raffaele, il maggiore, sedeva poco distante con un rametto secco tra le dita, strofinandolo contro la suola della scarpa. Ogni tanto alzava lo sguardo verso le vacche, che pascolavano pigre tra la sterpaglia, indifferenti alla calura. Non era il tipo da distrarsi facilmente, ma quel giorno qualcosa catturò la sua attenzione.

Un cozzo di pietra si ergeva poco più avanti, una delle tante asperità che punteggiavano la serra. In Sicilia, le montagne si chiamano serre, non sono picchi alti e imponenti, ma dorsali ondulate che tagliano la campagna come vecchie cicatrici. Su quel cozzo, proprio nel punto più esposto al sole, un masso, non troppo grande ma nemmeno piccolo, si mise in movimento.

All'inizio sembrò un riflesso del caldo, un gioco dell’aria tremolante, ma poi Raffaele capì che quel masso non era scivolato da solo. Si era staccato di netto, rotolando giù lungo il pendio con un suono sordo, spezzando rami secchi e sollevando polvere. Si fermò più in basso, nel punto in cui la terra aveva fatto crescere piante altissime di sarracchio, lasciandosi dietro una scia di pietrisco.

Raffaele si alzò di scatto. "Giuvà, talìa dda supra! S’allavangau na puntala, sula!"

Giovanni brontolò nel sonno e si tolse il tasco dagli occhi. "Chi è, Raffaè?"

"Talìa ddà, supra o cozzu!"

Giovanni si mise seduto e strizzò gli occhi contro la luce. A pochi metri dal punto in cui si era staccata la pietra, qualcosa attirò la sua attenzione. Non era solo la terra smossa, c’era una fessura nella roccia, sottile e oscura come una bocca socchiusa.

"Ma ch'èni? Si rapiu a muntagna?"

Raffaele disse al fratello: "Talè, ora va taliu, resta qui a vardare le vacche."

Si alzò con un gesto deciso e si scotolò i pantaloni dalla polvere, battendo forte le mani sulle cosce e sul sedere. Poi, senza perdere altro tempo, si incamminò verso il cozzo.

Giovanni, rimasto seduto all'ombra degli eucalipti, lo guardava allontanarsi, stringendo le ginocchia al petto. Sapeva che la curiosità del fratello era come una mosca fastidiosa: una volta che gli si metteva in testa qualcosa, niente lo fermava. Ripensò a quel giorno lungo il torrente, quando Raffaele, invece di stare attento, si mise a rincorrere una guisina nell'acqua, scivolando tra le pietre viscide e rischiando di essere trascinato via dalla corrente. "Sempre a fari u spertu…" mormorò tra sé, con un mezzo sorriso.

Raffaele avanzava con passo sicuro tra le sterpaglie, il sudore gli incollava la camicia alla schiena. Appena arrivato sotto il cozzo, si fermò ad osservare la pietra che si era staccata. Non era come le altre. Le rocce di quella zona erano ruvide, sbrecciate dal vento e dal tempo, ma quella no. Era liscia, levigata , quasi come se qualcuno l'avesse lavorata a mano.

La curiosità lo punse ancora più forte. Si strinse le dita sulle ginocchia e iniziò a scalare il pendio. Il terreno era sdrucciolevole, ma lui sapeva dove mettere i piedi. Era nato in campagna, ci era cresciuto tra serre, pascoli e trazzere, e certe cose gli venivano naturali.

Arrivato in cima, si trovò davanti a qualcosa che gli fece fermare il respiro. Là dove la pietra si era staccata, si apriva un ingresso.

Non era una crepa naturale, né una semplice fessura nella roccia. Era una piccola apertura quadrata, perfetta, larga non più di cinquanta centimetri. Non poteva essere un caso.

Con il cuore che gli batteva forte nel petto, si chinò e infilò la testa dentro.

Appena lo fece, un odore lo investì con violenza. Non era muffa, né terra umida.

Era odore di pane appena sfornato.

E comu può mai esseri sciavuru di pani sciurnatu?" mormorò Raffaele tra sé, mentre il cuore gli batteva nel petto come un martello.

L'odore era forte, inconfondibile. Non sapevamo di terra umida, né di muffa o pietra vecchia. Era pane caldo, appena sfornato, come quello che la nonna tirava fuori dal forno la mattina presto. Ma in una grotta sperduta in mezzo alla campagna, quell'odore non aveva senso.

Si morse il labbro e, preso dalla curiosità, si chinò e infilò il busto nell'apertura. Il buio era denso , gli occhi avevano bisogno di qualche secondo per adattarsi. Mentre avanzava a quattro zampe, con il fiato corto e le mani che sfioravano il terreno freddo, sentì qualcosa che lo fece bloccare di colpo.

Un parrascinu?!?!

Un brusio di voci, soffuso, lontano, come se qualcuno stesso parla da un'altra stanza. Non era vento. Non era il suono della sua immaginazione.

Un brivido gli salì lungo la schiena. Era terrorizzato. Ma anche dannatamente curioso.

E se... se avesse trovato la truvatura ?
Se fosse un tesoro dei saraceni?
O magari qualcosa di ancora più antico, nascosto dai greci?

Deglutì a fatica, chiuse le dita a pugno e strisciò dentro, lentamente, mentre la grotta si stringeva attorno a lui e virava a sinistra. Dopo pochi metri in discesa, lo spazio si aprì improvvisamente in una cavità più ampia.

E lì, davanti ai suoi occhi increduli, si trovò una tavola imbandita con ogni ben di Dio .

Selvaggina, pane, dolci, frutta, formaggi, caraffe di vino che riflettevano la luce tremolante delle candele.
Le candele stesse erano enormi, alte almeno mezzo metro, piazzate in pesanti candelabri di ferro battuto.

Ma quello che lo fece impietrire fu ciò che c'era intorno alla tavola .

Un gruppo di uomini.

Erano tredici. Vestivano con abiti sgargianti, tuniche di velluto, calzoni di seta, cinture decorate d'oro. Se la ridevano tra loro, alzando i bicchieri colmi di vino, come se il tempo non li toccasse. Sembravano usciti da un'altra epoca.

Raffaele si nascose d'istinto dietro una roccia, il cuore che gli martellava nelle orecchie. Chi erano?

Non ebbe il tempo di rispondere.

Dalla porta a destra della tavola comparvero due figure enormi.

Erano due cuochi , alti e massicci, con grembiuli sporchi di farina e mani grandi come pale. Portavano vassoi fumanti, teglie colme di carne arrosto e piatti ricolmi di cibo , che sistemavano con precisione sulla tavola.

Raffaele sentì il sangue gelarsi nelle vene. Quella non era una scena normale.

Si ritrasse, con il respiro mozzato. Pensò a Giovanni, rimasto fuori ad aspettarlo.

Doveva andare. Ora.

Si girò di scatto e, con mani e ginocchia che raschiavano il terreno, gattonò via il più velocemente possibile , senza mai voltarsi indietro.

Appena fuori dalla grotta, inciampò e scivolò lungo la discesa del cozzo.
La polvere gli entrò negli occhi, i rovi gli graffiarono le mani, ma non si fermò.

Corse a perdifiato verso Giovanni.

Fine Prima Parte

Nel cuore della Sicilia del XVII secolo, la vita quotidiana era regolata da severi bandi emanati dalla Corte Giuratoria,...
26/02/2025

Nel cuore della Sicilia del XVII secolo, la vita quotidiana era regolata da severi bandi emanati dalla Corte Giuratoria, l’organo che sovrintendeva all’ordine pubblico e alle attività economiche della città. Tra i documenti più interessanti spiccano alcuni bandi del 23 dicembre 1692, tratti dal libro Terranova, il destino della città federiciana.
Questi decreti, oltre a offrire uno spaccato della società dell’epoca, mostrano quanto fosse rigida la regolamentazione di ogni aspetto della vita urbana.

La gestione della proprietà: niente schiavi erranti e bestiame incustodito

Il primo bando che analizziamo riguarda la proibizione di tenere schiavi erranti e bestiame incustodito. La città di Terranova, come molte altre realtà del tempo, cercava di mantenere l’ordine e la sicurezza vietando che persone ridotte in schiavitù vagassero senza controllo, così come animali da allevamento che potevano creare danni e disagi.

Bando che non si possano teneri schiavi erranti, boi, vacche, jumenti. Bando e comandamento da parte delli Giurati di questa Città di Terranova ad ordinazione del Sr. Governatore di questa Città s’ordina e comanda che di quà innante non si persona alcuna di qualsivoglia stato, grado e condizione si sia tanto cittadina quanto forestera e abitatori di essa Città e suo territorio, che deggia, ne presuma tenere schiavi erranti, boi, vacche, cavalli, giumenti, mule, suini e qualsivoglia specie di bestiame in la detta città e suo territorio che infra tre giorni l’habbiano e deggiano revelare allo baglio di detta Città sotto pena di onze Տօ d’applicarsi all’Erario di questa Città e che lo fisco possa principalmente aggere tante volte quanto controverranno.

L’influenza dell’economia agricola era così forte che persino la gestione del bestiame era sottoposta a rigide normative. Le multe previste per i trasgressori non erano di poco conto: 50 onze erano una cifra altissima per l’epoca.

La qualità della salciccia sotto il controllo della giuratoria

In una società dove il cibo rappresentava un valore fondamentale, non sorprende che anche la preparazione della salsiccia fosse soggetta a regolamenti. Un bando specifico imponeva che la carne fosse ben lavorata e che non contenesse scarti o carne di scrofa, considerata meno pregiata.

Bando per la salcizza.

Bando e comandamento da parte delli Signori Giurati di questa Città di Terranova si ordina e comanda che quella persona che eserciasse e fa la salcizza haggia e deggia fare detta salcizza di maiale, che prima la carne sia bene capoliata e tagliata e che ci sia poco grasso e che sia ben fatta e che se si ritrova in detta salcizza carne di t***a o altro, che sia in pena di onze cinque da applicarsi all’Erario di detta Città e prima che vendano detta salcizza abbiano da pigliare licenza di detti Giurati sotto la predetta pena.

Il controllo delle materie prime e della lavorazione garantiva una qualità minima ai consumatori e proteggeva il mercato locale da frodi e sofisticazioni alimentari. L’imposizione di ottenere una licenza dimostra come le autorità avessero un occhio attento sulle attività dei macellai e norcini dell’epoca.

La vendita della farina e la lotta alle frodi alimentari

Un altro aspetto della vita economica che la Corte Giuratoria regolamentava con grande rigore era la vendita della farina. La macinazione del grano era un’attività essenziale, ma spesso i mugnai e i fornai tentavano di aumentare i profitti con pratiche poco oneste, come mescolare cereali diversi o non ripulire adeguatamente la farina. Per evitare truffe, venne emanato il seguente bando:

Bando per la vendita della farina.

Bando e comandamento da parte delli Signori Giurati di questa Città di Terranova si ordina e comanda che di qua innante non sia alcuna persona cittadina e forestara di qualsivoglia grado e condizione si sia che abbia e deggia ne presuma vendere farina in le loro case eccetto in la bottega della piazza al lo gabelotto, che li farinarj non possano tenere mondelli di rasa alle loro case senza licenza di detto gabelotto e che non possano vendere farina che prima non portano la mostra a detti Giurati e che non si possano imbiscare salme di nascosto né orzo né cosa nessuna immo lo formento che macchineranno l’abbiano a cernere e levarci tutti li bruttizzi e quando misureranno dette farine abbiano da livellare volti cinque per lo mondello e che chi contravverrà sarà incorso nella pena di onze cinque pro quolibet controveniente applicarsi all’Erario di questa Città e chi lo denunzierà e metterà in chiaro habbia onza una della detta pena.

La centralizzazione del commercio della farina nelle mani del gabelotto (un appaltatore incaricato di riscuotere tributi e controllare la vendita) garantiva il rispetto delle norme. Chiunque fosse sorpreso a vendere illegalmente farina rischiava una multa di cinque onze, mentre chi denunciava i trasgressori veniva ricompensato con una parte della sanzione.

Questi bandi offrono uno spaccato affascinante della vita nella Sicilia del XVII secolo. Il controllo esercitato dalla Corte Giuratoria non era solo un mezzo per garantire l’ordine pubblico, ma anche per mantenere una qualità minima nei prodotti e prevenire frodi commerciali. Oggi possono sembrare norme arcaiche, ma all’epoca erano strumenti essenziali per regolare una società ancora profondamente legata all’economia agricola e artigianale.

La storia di Terranova, oggi Gela, continua a raccontare il suo passato attraverso documenti come questi, testimoni silenziosi di un mondo che, seppur distante nel tempo, conserva ancora il suo fascino e la sua importanza nella memoria di chi ancora continua a credere in questa città.

Da chi discendono i gelesi moderni?Dai calabresi!I gelesi si gonfiano il petto pensando di discendere dai nobili Greci, ...
22/02/2025

Da chi discendono i gelesi moderni?
Dai calabresi!

I gelesi si gonfiano il petto pensando di discendere dai nobili Greci, fieri di un passato fatto di colonne doriche e filosofi barbuti che discutevano del senso della vita.

E invece… sorpresa!

Se parliamo della città medievale, le nostre radici affondano in un’altra storia: quella di Heraclea-Terranova, fondata nel 1233 per volontà di Federico II di Svevia. Niente miti e leggende, ma una città nata dentro il grande progetto di riorganizzazione del Regno di Sicilia.

E chi furono i primi abitanti di questa nuova Gela medievale?
Dimenticate i discendenti diretti di Achille e Pericle: le carte d’archivio raccontano una realtà ben diversa.

A differenza di altre città dell’epoca, per Terranova non esiste un diploma ufficiale di fondazione, ma sappiamo che già nel luglio 1231 Federico II aveva iniziato a popolare la zona con coloni cristiani e musulmani convertiti a forza.

Si parte con un gruppetto di pionieri, una sorta di startup urbanistica del XIII secolo. Ma non finisce qui: per far crescere la città si ricorse a un vecchio trucco svevo, il trasferimento forzato di coloni. Molti arrivavano dalla Calabria, spesso non per loro scelta, ma perché il Regno aveva bisogno di consolidare la sua presenza sul territorio.

L’organizzazione amministrativa della città seguiva le Costituzioni di Melfi del 1231, il codice legislativo federiciano. Così, Terranova fu dotata di:

Un baiulo, incaricato di rappresentare l’autorità regia;

Tre giudici, responsabili dell’amministrazione della giustizia, provenienti dal cosentino;

Una comunità con personalità giuridica, che poteva autogovernarsi… entro i limiti imposti dalla monarchia, ovviamente.

Ma se vi immaginavate una città medievale affollata e in fermento, la realtà è un po’ diversa. Nel 1249, un documento notarile rogato a Eraclea e conservato nell’Archivio vescovile di Patti ci dà un’istantanea della popolazione di Terranova nei suoi primi anni di vita.

E che ci dice? Che i primi abitanti si potevano contare sulle dita di due mani (e poco più):

Un sacerdote (perché la città nasce sotto l’occhio vigile della Chiesa, ovviamente);

Tre maestri artigiani (che si spera sapessero fare più di tre mestieri);

Sei lavoratori liberi (liberi di lavorare, ma fino a un certo punto);

Un Calatino proveniente da Caltagirone;

Altri abitanti non meglio identificati, che completavano un totale di meno di venti persone.

Insomma, altro che metropoli medievale! Il centro abitato era ancora un piccolo nucleo, destinato a crescere… anche con qualche spinta non proprio volontaria.

Infatti, il documento rivela che tra i primi coloni c’erano calabresi deportati per favorire il popolamento della città. La migrazione non era sempre spontanea: alcune famiglie furono trasferite per motivi politici o per dare stabilità economica al territorio. Praticamente, un "bonus trasferimento" imposto direttamente dal Regno.

Per gestire la neonata comunità, venne applicato il modello amministrativo previsto dalle Costituzioni di Melfi del 1231, il codice legislativo di Federico II. In base a queste norme, Terranova fu dotata di:

Un baiulo, il rappresentante del potere regio che faceva da controllore e amministratore;

Tre giudici, incaricati di amministrare la giustizia;

Una comunità con personalità giuridica, con una parvenza di autogoverno… nei limiti imposti dalla monarchia, ovviamente.

Terranova non nasceva come una città indipendente, ma come un centro perfettamente incastrato nella struttura amministrativa del Regno. Una realtà piccola, ben controllata, e che avrebbe dovuto crescere secondo le esigenze della Corona. Ma la storia non va sempre secondo i piani… e nei secoli successivi, tra boom demografici e spopolamenti, la città avrebbe vissuto una serie di trasformazioni imprevedibili.

1277: BOOM DEMOGRAFICO!

A quarant’anni dalla fondazione federiciana, Heraclea-Terranova esplode: il numero di abitanti schizza tra i 9.000 e i 20.000 (cifre su cui ancora si discute). La città diventa il secondo centro più popoloso della Sicilia dopo Palermo (22.000 abitanti), con ben 23 chiese. Una ogni 800 abitanti.

Ma cosa causò questa crescita? Probabilmente la costruzione della città, il rafforzamento delle mura e lo sfruttamento delle terre circostanti.

1443: TRACOLLO TOTALE!

Dopo il boom, il disastro. In meno di due secoli, gli abitanti si riducono a meno di 500. Quali furono le cause? Due in particolare:

Pirateria barbaresca, che rendeva la vita impossibile a chiunque vivesse vicino alla costa.

Instabilità politica dopo la morte di Federico III, perché quando il potere centrale vacilla, le città ne pagano il prezzo.

1548: TIMIDA RIPRESA

Dopo il disastro, la città prova a rialzarsi. Gli abitanti risalgono a 5.000, e per più di 150 anni il numero rimane stabile.

1748: NUOVO SLANCIO

La grande svolta arriva con le trasformazioni agricole. L’irrigazione della piana diventa un vero e proprio volano economico e la popolazione schizza a 9.000 abitanti in soli trent’anni. In pratica, il primo boom occupazionale della storia locale.

XIX e XX SECOLO: IL GRANDE SALTO

L’agricoltura continua a trainare la crescita: nel 1940 la popolazione raggiunge le 30.547 unità. Ma il meglio (o il peggio, dipende dai punti di vista) doveva ancora arrivare.

1956-1988: IL MIRACOLO PETROLIFERO

Con la scoperta del petrolio nel 1956 e la costruzione del petrolchimico nel 1960, Gela diventa un caso da manuale: nel giro di trent’anni, il numero di abitanti raddoppia, arrivando nel 1988 a quasi 80.000 unità. Un’espansione impressionante, tanto da attirare l’attenzione degli studiosi europei.

OGGI: IL DECLINO

Ma si sa, le epoche d’oro non durano per sempre. Con la graduale dismissione del petrolchimico, negli ultimi decenni la popolazione ha iniziato a calare, perdendo circa 9.000 abitanti.

Gela ha visto di tutto: da città fantasma a metropoli industriale e viceversa. Ma se la storia insegna qualcosa, è che qui la gente si è sempre adattata. E chissà quale sarà il prossimo capitolo... Speriamo in un risveglio turistico!

Indirizzo

Gela
93012

Sito Web

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