Leggende, storie e curiosità siciliane

Leggende, storie e curiosità siciliane Questa pagina è un viaggio nel cuore della Sicilia, isola incantevole che custodisce una ricca eredità di storie, curiosità e leggende.

Scopri i racconti affascinanti e i luoghi straordinari che fanno della Sicilia una gemma nel Mediterraneo.

C'è un modo di dire che appartiene alla Sicilia più vera, quella delle campagne, dei cortili dove gli adulti parlavano s...
15/11/2025

C'è un modo di dire che appartiene alla Sicilia più vera, quella delle campagne, dei cortili dove gli adulti parlavano sottovoce appena capivano che certi discorsi non erano per tutti. L'espressione è “ci su filìni”. Letteralmente significa “ci sono le ragnatele”, ma il significato è molto più profondo. Nasce da un’immagine concreta: se ci sono ragnatele, vuol dire che la situazione non è limpida per poter parlare liberamente. E quella “situazione”, in quella lingua, erano i bambini, gli estranei, le persone che non dovevano sapere. Bastava che uno degli adulti dicesse “ci su filìni” e il messaggio diventava immediato: cambiate discorso, abbassate la voce, rimandiamo tutto a dopo. Non servivano spiegazioni. Era un codice invisibile che tutti capivano.

Si usava quando si parlava di sesso, di fattucchiere, di tradimenti, di debiti, di malattie serie, di scandali di paese. Tutto ciò che poteva sconvolgere, impressionare o togliere innocenza a chi non era pronto.

E c'era anche un'altra sfumatura che oggi quasi non si conosce più: quando si nominavano malattie gravi, soprattutto la meningite, gli adulti non solo evitavano di pronunciarle davanti ai bambini, ma accompagnavano il silenzio con un gesto scaramantico. Stringevano le labbra “a c**o di gallina” e aspiravano un soffio secco, un piccolo schiocco d’aria tra i denti. Quel suono serviva a scacciare il male, a tenerlo lontano dal bambino che poteva ascoltare per caso. Nell’immaginario popolare certe parole tiravano male, come se la sola voce potesse attirare qualcosa di brutto. In quei casi “ci su filìni” diventava un avviso ancora più urgente.

Questa espressione era un meccanismo sociale perfetto. Discreta, elegante, rapidissima. Nessuno doveva dire apertamente “zitti, ci sono i bambini”: bastava una parola. “Ci su filìni” racconta una Sicilia che non sta nei libri, che esiste solo nella memoria di chi l'ha vissuta davvero. È una di quelle espressioni che rischiano di sparire, e che meritano di essere conservate. Perché ogni volta che le raccontiamo, riportiamo in vita un pezzo di mondo che non si vede più, ma che è ancora lì, appeso come una ragnatela negli angoli della nostra storia.

La salsiccia di Nino D'AstaEbbi la fortuna di trovare, in un vecchio fabbricato abbandonato del centro storico di Gela, ...
11/11/2025

La salsiccia di Nino D'Asta

Ebbi la fortuna di trovare, in un vecchio fabbricato abbandonato del centro storico di Gela, alcuni atti processuali del Seicento. Stavano chiusi in una cassapanca di legno, divorata dal tempo, e tra quelle carte consunte trovai la storia che sto per raccontarvi: una storia assai curiosa, la storia della salsiccia di Nino D'Asta.

Correva l'anno 1650. Terranova era una città viva, rumorosa, stretta fra vicoli e botteghe che odoravano di vino, di pane e di sugna. Presso la chiesa del Carmine, in una piccola macelleria dell'odierna Piazza Roma con l'insegna dipinta a mano, lavorava Nino D'Asta. Era un gigante dalla barba ispida e dalle mani grosse come pale, uno che conosceva il mestiere da quando era ragazzo e sapeva come rendere tenera persino la carne più dura.

Per anni la sua carne era stata la più rinomata della città. La gente giurava che il segreto stesse nel pepe nero arrivato dall'oriente e nel finocchietto selvatico che lui stesso raccoglieva in campagna, il sabato e la domenica, quando le botteghe rimanevano chiuse. Ma un giorno, come accade sempre nelle storie che finiscono male, arrivò la voce che qualcosa turbava gli animi del quartiere.

Una donna, comprando un pezzo di carne, giurò d'aver visto qualcosa di strano dietro il bancone: ossa troppo sottili, troppo fragili per essere di maiale o di agnello. La voce corse veloce per Terranova come il vento di scirocco, e nel giro di tre giorni arrivò fino al Palazzo del Governatore.

Fu ordinata un'ispezione. I birri del Capitano d'armi, entrando nella bottega all'alba, trovarono la prova che bastò a condannarlo: resti di cane scuoiato, ancora freschi, nascosti dietro un sacco di sale.

Nino D'Asta ebbe appena il tempo di balbettare qualche parola confusa. La mattina seguente fu trascinato al carcere vecchio, quello alle mure Federiciane dove i condannati aspettavano la sentenza, e lì subì la fustigazione davanti al popolo radunato. Poi, per ordine del Governatore, fu bandito da Terranova per sempre e mandato in esilio a Ragalbuto, con il divieto assoluto di esercitare ancora il mestiere di "vuccere".

L'ordinanza, che ancora reca i resti del sigillo di cera rossa sbiadito dal tempo, recita così:

"Bando e comandamento da parte delli Signori Giurati di questa Città di Terranova si ordina e comanda che quella persona che eserciasse e fa la salcizza haggia e deggia fare detta salcizza di maiale, che prima la carne sia bene capoliata e tagliata e che ci sia poco grasso e che sia ben fatta e che se si ritrova in detta salcizza anco carne di t***a e nulla altro, che sia in pena di onze cinque da applicarsi all’Erario di detta Città e prima che vendano detta salcizza abbiano da pigliare licenza di detti Giurati, pena la cacciata da Terranova"

La vita quotidiana della Terranova del Seicento, riflessa in queste pagine ingiallite, è uno specchio prezioso di un mondo che oggi fatichiamo persino a immaginare. Ogni mestiere aveva un valore civile, un peso nella bilancia della comunità, e ogni bottega era un piccolo regno con le sue leggi e i suoi segreti. La giustizia era insieme affare di tribunali e teatro pubblico, dove l'onore della città veniva difeso davanti a tutti, dove il castigo doveva essere visto e ricordato. In quelle carte sbiadite c'è il respiro di una comunità che viveva seguendo regole semplici ma ferree, dove persino una salsiccia poteva diventare motivo di scandalo, di vergogna, di leggenda che si tramandava di padre in figlio.

È in questi frammenti di vita comune, in queste miserie quotidiane, che si nasconde la storia di Terranova: nelle grandi battaglie e nei decreti reali certo, ma soprattutto nelle vicende di uomini come Nino D'Asta, che con le loro colpe e la loro miseria hanno dato forma all'anima della città, quella che continuava a vivere quando i grandi se ne andavano e i palazzi crollavano.

Lo so, questo post c’entra poco con le leggende, le storie e le curiosità siciliane.Ma oggi serve arrivare a tutti.In qu...
09/11/2025

Lo so, questo post c’entra poco con le leggende, le storie e le curiosità siciliane.
Ma oggi serve arrivare a tutti.

In questi giorni le scorte stanno calando, soprattutto per i gruppi 0 e A, e ogni sacca può salvare una vita.
Dietro quei tubicini c’è molto più di un gesto: c’è qualcuno che tornerà a casa, qualcuno che potrà respirare ancora.

Donare è un atto di umanità, e la nostra terra è piena di umanità.
Chi può, vada a donare.

03/11/2025
In Sicilia, la tradizione vuole che i pupi di zucchero nacquero per caso, tanto tempo fa, quando la Sicilia parlava anco...
02/11/2025

In Sicilia, la tradizione vuole che i pupi di zucchero nacquero per caso, tanto tempo fa, quando la Sicilia parlava ancora la lingua degli emiri.
Si racconta che un nobile arabo, ʿAbd al-Rahmān ibn al-Qasim, si fosse ridotto in miseria dopo anni di feste e di fasto. Un giorno gli arrivò la notizia che un importante funzionario del califfato sarebbe venuto a trovarlo.
Non aveva più nulla da offrire, solo un po’ di zucchero di canna, acqua e farina. Ma l’onore, in quei tempi, contava più dell’oro.

Così chiamò il suo cuoco, Yūsuf, e gli ordinò di preparare un banchetto degno di un re.
Yūsuf guardò le dispense vuote, poi il sacco di zucchero, e pensò che l’unico modo per stupire gli ospiti fosse fare con lo zucchero ciò che non si poteva più fare con l’oro.
Lo sciolse nel fuoco, lo colò in stampi di terracotta e ne tirò fuori cavalieri, dame e altri personaggi del ciclo carolingio.

Quando gli invitati entrarono nel salone, trovarono la tavola piena di figure candide e profumate.
L’emiro, con la calma di chi sa fingere, disse:
«Questi sono i miei guerrieri».

Naturalmente, è una leggenda.
La storia documentata racconta che le prime sculture di zucchero appaiono in Europa nel 1574, a Venezia, durante un banchetto per Enrico III di Valois.
Da lì l’usanza si diffuse ovunque, e in Sicilia trovò terreno fertile grazie alla vecchia tradizione araba della canna da zucchero.
I pasticcieri palermitani la trasformarono in arte, legando i pupi di zucchero alla Festa dei Morti, quando i bambini ricevevano i doni lasciati dai loro cari nell’aldilà.

Oggi, in Sicilia, i pupi resistono: fragili, colorati, pieni di memoria.
Ogni volta che se ne mordiamo uno, sembra di sentire un po’ di quella storia antica, metà verità e metà leggenda, che profuma ancora di zucchero fuso e d’orgoglio siciliano.

01/11/2025

Per la notte di Ognissanti abbiamo trasformato le vie del centro storico di Gela in un viaggio tra memoria e tradizione.
Con Mariagrazia, Martina, Eleonora e Maria Luisa abbiamo raccontato l’origine dei dolci dei morti, i pupi di zucchero, la storia del pozzo delle anime del purgatorio e tanti altri racconti legati alla nostra cultura.
Un’esperienza sensoriale fatta di profumi, storie e sapori antichi, per ricordare che tramandare le tradizioni è un atto d’amore verso la nostra terra.

C’era un tempo in cui la notte siciliana non faceva sconti a nessuno.Le trazzère erano lunghe, tortuose, e illuminate so...
29/10/2025

C’era un tempo in cui la notte siciliana non faceva sconti a nessuno.
Le trazzère erano lunghe, tortuose, e illuminate solo dal lume d’olio che ogni viandante portava con sé. Il lume serviva a fendere il buio, ma anche a scacciare la paura. Bastava un soffio di vento o un’ombra improvvisa di un selvatico per far tremare il cuore, e allora arrivava la raccomandazione dei vecchi: «Occhio o lumi e manu e vertili!»

Era un modo per dire “stai attento, figghiu miu”.
Tieni l’occhio sul lume per vedere nell'oscurità, e le mani sulle bisacce, dove si conservava il pane, il formaggio e il companatico. Non solo per i ladri di strada, ma per la vita stessa, che spesso ti ruba ciò che ami appena giri lo sguardo.

In quelle parole si nascondeva tutta la filosofia del popolo siciliano: prudente, diffidente, ma lucido come il lume che illumina la strada.
Perché la notte, in fondo, è lunga per chi non sa guardare e difficile per chi non protegge ciò che ha.

E così, tra il passo lento della bestia da soma e il cigolio del lume, il viandante continuava a camminare con quella formula antica come un rosario:
«Occhio o lumi e manu e vertili.»
Un modo di dire, sì, ma anche un modo di vivere.

E ancora oggi, anche se i lumi si sono spenti e le bisacce non esistono più, quella frase si sente ripetere — magari con un sorriso, magari come avvertimento.
Perché alle porte del 2026, tra smartphone, illusioni e parole che abbagliano, il consiglio è sempre lo stesso:
stai attento, guarda lontano e proteggi ciò che è tuo.

27/10/2025

Il banditore era la voce pubblica del paese.
Con il tamburo richiamava l’attenzione e poi leggeva il bando: un ordine, una tassa, un divieto, ma anche la ricerca di un bambino smarrito, la notizia di una festa o addirittura vanniare il nome dei moribondi che non potevano trovare pace.
Girava per le vie, dava parola agli avvenimenti e volto al potere.
In Sicilia, la sua voce oltre ad essere informazione, era vita che si proclamava in piazza.

Scena tratta dal film : SALVATORE GIULIANO

22/10/2025

Il 31 ottobre alle ore 21:00 Halloween e il Giorno dei Morti – un viaggio tra storia, tradizioni e legami che uniscono queste due ricorrenze.
Un evento dedicato alla cultura siciliana e al modo in cui l’isola celebra la memoria dei propri defunti.

📍 Gela – Venerdì 31 ottobre, ore 21:00
A cura di Maria Grazia Attanasi e Daniele Maganuco

💬 Per info e prenotazioni scrivimi su WhatsApp: 379 148 0551

Un tempo i rìfeti si facevano da dentro casa. Bastava una finestra aperta, un panno da scuotere e una voce abbastanza al...
21/10/2025

Un tempo i rìfeti si facevano da dentro casa. Bastava una finestra aperta, un panno da scuotere e una voce abbastanza alta perché tutto il vicinato sentisse senza che nessuno fosse “realmente” chiamato in causa. Era un linguaggio sociale, un modo per regolare i conti senza mai sporcarsi le mani.
Si parlava “alla figlia” ma si intendeva “alla vicina”, si fingeva di insultare qualcuno per colpire qualcun altro. Era una forma d’arte, sottile e velenosa, che viveva nei cortili e nei balconi, tra i panni stesi e i muri scrostati.

Oggi i rìfeti non si gridano più: si scrivono.
Le finestre sono diventate profili social, i balconi sono le bacheche, e le frasi “senza tag” sono i nuovi colpi di lingua.
La logica è la stessa di allora: non ti nomino, ma sai che parlo di te.
Solo che, invece di scivolare via con la sera, adesso restano scritte.

A RIFITERA

Erano gli anni Ottanta, in un quartiere qualunque di un paese siciliano,
dove ogni balcone era una postazione da cui osservare la vita degli altri.

Pauliddra era magra, scheletrica e sempre inacidita, una di quelle che sembrano campare a sarde salate.

Cettina invece era il suo contrario: in carne, pacata,
con la faccia tonda e rassicurante di una panettiera.
Viveva con il marito, un pastore di campagna,
uomo semplice e onesto, che tornava la sera con l’odore del gregge addosso.

Un giorno, quell’uomo arrivò con un regalo.
Una pelliccia. Vera.

Un lusso che nel vicinato nessuno si sarebbe aspettato da un pastore.
Cettina la indossò per gioco, felice come una bambina.
Non era vanità, era gratitudine.

Ma bastò quell’immagine — la donna con la porta del balcone aperta e la pelliccia sulle spalle —
per accendere la mminnicazione di Pauliddra,
che si trovava in quel momento affacciata fuori:
quella forma d’invidia rabbiosa che nasce dal pensiero minnicaturi “se non posso farlo io, non devi farlo nemmeno tu”.

Da quel giorno, Pauliddra non la guardò più con gli stessi occhi.
Iniziò con le occhiate, poi con i sorrisi falsi.

Finché, parlando con un’altra vicina,
lasciò cadere parole velenose: che quella pelliccia, forse, non veniva proprio dal marito.

Quando la voce arrivò a Cettina, lei non rispose subito.
Aspettò.

Poi, una mattina, si mise la pelliccia,
si affacciò al balcone
e chiamò a gran voce la dirimpettaia:

— Cummà! Vi piaci? —

Lo fece apposta, per vedere il verdume salire sulla faccia di Pauliddra, perché come si dice in questi casi: “O cavaddru astimiatu ci luci u pilu.”

Pauliddra fingeva indifferenza, ma moriva d’invidia e di mminnicazione.

Poi Cettina aggiunse:

— Io ma potti permettere. Vui, unnu sacciu. —

Da lì scoppiò il 48.
Una raffica di parole, mezz’ora di balconi aperti,
e gente che si fermava in strada a guardare.

Ma non era finita. Era solo cominciata.

Nei giorni successivi Pauliddra cominciò con i rìfeti.
Non parlava mai direttamente a Cettina:
li faceva da dentro casa, mentre spolverava o scuoteva la pezza.

Diceva cose come:
“Eh, fanno le signore, a che su scurdaru quannu si mmucciavano sutta i carretta cu l'omini!”

Oppure, mentre passava il marito di Cettina,
diceva con tono da tragedia da dentro casa:

“Eh, buttana ca scocca russa!”

Sembravano frasi fra sé e sé,
ma ogni parola era una pietra lanciata con mira precisa.

Il palazzo rideva, commentava, aspettava u prossimo rìfetu come una puntata nuova di una soap opera argentina.

I mariti, invece, non ridevano affatto.
Si stimavano, si conoscevano da sempre.

Uno, la sera, incontrandosi sulla strada, disse all’altro:

— Cumbà, Noi siamo cresciuti insieme, dobbiamo chiudere sta discussione. —

E così, qualche giorno dopo, di domenica sera, decisero di chiuderla lì.

Si misero d’accordo e le chiamarono giù:
una da un balcone, l’altra dall’altro.

— Calate, vi dobbiamo parlare. —

Le due donne si trovarono davanti,
con le braccia incrociate e la bocca serrata.

— Vi stringete la mano e finisce qui, — disse uno dei mariti.

Si guardarono, fissarono negli occhi i rispettivi mariti, sospirarono e si toccarono appena le dita.

La pace era fatta.

Ma appena si voltarono,
Cettina sussurrò piano, senza guardarla:

— A scocca russa vui l'aviti. —

Pauliddra non rispose, ma il sopracciglio le tremò.

E in quella smorfia c’era la certezza
che il rìfetu, come certi rancori di paese, non muore mai.

🤔🤔🤔
17/10/2025

🤔🤔🤔

Secondo i proprietari dei locali, il Ghost Tour spaventa la clientela. Per gli organizzatori è solo folklore e tradizione

Indirizzo

Gela
93012

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