15/11/2025
C'è un modo di dire che appartiene alla Sicilia più vera, quella delle campagne, dei cortili dove gli adulti parlavano sottovoce appena capivano che certi discorsi non erano per tutti. L'espressione è “ci su filìni”. Letteralmente significa “ci sono le ragnatele”, ma il significato è molto più profondo. Nasce da un’immagine concreta: se ci sono ragnatele, vuol dire che la situazione non è limpida per poter parlare liberamente. E quella “situazione”, in quella lingua, erano i bambini, gli estranei, le persone che non dovevano sapere. Bastava che uno degli adulti dicesse “ci su filìni” e il messaggio diventava immediato: cambiate discorso, abbassate la voce, rimandiamo tutto a dopo. Non servivano spiegazioni. Era un codice invisibile che tutti capivano.
Si usava quando si parlava di sesso, di fattucchiere, di tradimenti, di debiti, di malattie serie, di scandali di paese. Tutto ciò che poteva sconvolgere, impressionare o togliere innocenza a chi non era pronto.
E c'era anche un'altra sfumatura che oggi quasi non si conosce più: quando si nominavano malattie gravi, soprattutto la meningite, gli adulti non solo evitavano di pronunciarle davanti ai bambini, ma accompagnavano il silenzio con un gesto scaramantico. Stringevano le labbra “a c**o di gallina” e aspiravano un soffio secco, un piccolo schiocco d’aria tra i denti. Quel suono serviva a scacciare il male, a tenerlo lontano dal bambino che poteva ascoltare per caso. Nell’immaginario popolare certe parole tiravano male, come se la sola voce potesse attirare qualcosa di brutto. In quei casi “ci su filìni” diventava un avviso ancora più urgente.
Questa espressione era un meccanismo sociale perfetto. Discreta, elegante, rapidissima. Nessuno doveva dire apertamente “zitti, ci sono i bambini”: bastava una parola. “Ci su filìni” racconta una Sicilia che non sta nei libri, che esiste solo nella memoria di chi l'ha vissuta davvero. È una di quelle espressioni che rischiano di sparire, e che meritano di essere conservate. Perché ogni volta che le raccontiamo, riportiamo in vita un pezzo di mondo che non si vede più, ma che è ancora lì, appeso come una ragnatela negli angoli della nostra storia.