15/09/2025
Il Conte Ruggero e Betta la Traditrice
Gli anni correvano tra il 1058 e il 1070. Ruggero d’Altavilla, ultimo figlio di Tancredi, raggiunse la Sicilia dopo i fratelli Roberto il Guiscardo e Guglielmo Braccio di Ferro. Il giovane Normanno portava con sé il coraggio, l’ambizione e la forza di un uomo deciso a lasciare un segno nella storia. Le cronache lo avrebbero poi chiamato Gran Conte.
Dopo le vittorie ottenute in Calabria, Ruggero guardò all’isola come a una nuova sfida. Le sue truppe marciarono per valli e contrade, incendiarono villaggi, saccheggiarono campagne, imposero il terrore con la spada e il fuoco. Ogni passo segnava l’avanzata di un esercito deciso a piegare i centri più forti della Sicilia.
Un giorno il conte giunse sotto le mura di Enna, città posta in cima a un altopiano aspro e difeso da precipizi. Quella rocca sembrava sospesa tra cielo e terra, protetta da mura solide e da un popolo fiero. Ruggero pose gli accampamenti e diede ordine ai suoi di stringere l’assedio.
Gli ennesi compresero subito il destino che li attendeva. Uomini e donne, giovani e vecchi, si mossero come un solo corpo. Le strade si riempirono di voci, di mani pronte a sollevare pietre, di braccia tese a riparare bastioni.
Ogni famiglia offrì ciò che possedeva, ogni artigiano mise la propria arte al servizio della città.
Passarono i mesi. Il gelo dell’inverno scese sulle campagne, le giornate divennero corte, i venti tagliavano le vesti e il freddo rodeva le ossa. Dentro le mura la fame cominciò a mordere, ma il popolo di Enna non cedette. Al contrario, rispose all’assedio con ingegno e coraggio.
Quando i messaggeri di Ruggero furono accolti in città, rimasero sorpresi da uno spettacolo che non lasciava spazio a dubbi: enormi mucchi di grano, ammassati come montagne, riempivano piazze e cortili. I Normanni credettero di trovarsi davanti a riserve inesauribili. L’aria poi diffondeva un profumo irresistibile di arrosti che uscivano dalle cucine. Quel segnale bastò a convincere gli ambasciatori che la città galleggiava nell’abbondanza e che poteva resistere all’infinito.
In realtà i mucchi di frumento nascondevano sabbia, coperta solo da un velo sottile di chicchi dorati. E il profumo di carne arrostita saliva da fuochi accesi apposta, dove bruciavano animali che nessuno avrebbe mai pensato di cucinare. Tutto serviva a ingannare l’occhio e l’olfatto del nemico, a mostrare forza e ricchezza laddove rimanevano soltanto stenti.
Gli assediati non si fermarono. Munsero gli animali fino all’ultima goccia, raccolsero quel latte e lo gettarono davanti al nemico, come a dire che la città straripava di provviste. Anche i bambini e le donne partecipavano alla messinscena. Ogni gesto diventava segno di resistenza e orgoglio.
Il Conte Ruggero osservava da lontano. Ogni giorno che passava, la sua convinzione cresceva: Enna si alzava come una fortezza inviolabile, capace di respingere qualsiasi forza.
I mesi scorrevano lenti, segnati dal suono dei corni normanni e dal silenzio carico dentro le mura. Ogni giorno Ruggero attendeva il cedimento della città, e ogni giorno Enna rispondeva con fierezza.
Il tempo, però, lasciava i suoi segni. Nei vicoli la fame diventava una compagna crudele. I più deboli cadevano, i bambini cercavano pane, gli anziani resistevano stringendo i denti. Le madri dividevano l’ultima manciata di legumi, i padri si spezzavano la schiena per mantenere viva la speranza.
Eppure, agli occhi degli assedianti, la città continuava a sembrare florida. L’inganno funzionava: quei mucchi di sabbia coperti da chicchi di grano brillavano al sole come montagne di frumento, i profumi di carni arrostite si diffondevano nell’aria e illudevano chi stava fuori. Ruggero stesso, informato dai suoi ambasciatori, cominciava a credere che Enna possedesse riserve inesauribili.
Una volta i Normanni entrarono per trattare. Furono condotti in giro come ospiti d’onore e videro i finti depositi di grano, ascoltarono il vociare allegro delle cucine, sentirono nell’aria l’aroma degli arrosti. I messaggeri tornarono all’accampamento scoraggiati, convinti che la città reggesse senza timore.
Ruggero iniziò a nutrire dubbi sulla possibilità di conquistare quella rocca. La sua mente calcolava i rischi: un assedio lungo stremava i soldati, logorava le risorse, esponeva l’esercito agli agguati delle campagne. Tutto portava a un’unica decisione: alzare le tende e abbandonare l’impresa.
Dentro Enna, intanto, gli abitanti stringevano le cinture. Le pietre diventavano più pesanti, i giorni più duri, le notti più fredde. La città resisteva, ma il limite si avvicinava.
Ruggero osservava la fortezza dall’altura del suo accampamento e pensava che nessuna forza avrebbe piegato quella resistenza. Il suo animo di guerriero rispettava quel coraggio. Già progettava il ritiro, convinto che Enna fosse destinata a rimanere un baluardo imbattuto.
Ma mentre il Conte meditava di andarsene, il destino preparava un colpo di scena che avrebbe cambiato tutto.
Tra le mura di Enna viveva Betta, giovane dai capelli corvini e dagli occhi scuri, promessa sposa di un soldato normanno. Un amore nato nei mesi precedenti, quando gli scontri si alternavano a tregue e scambi di parole tra nemici e cittadini. In lei bruciava un sentimento ardente, capace di spegnere ogni altro pensiero.
Il tempo dell’assedio, però, trasformò quell’amore in tormento. Betta guardava la città soffrire: le case vuote di pane, le strade silenziose, i bambini che cercavano un tozzo di cibo. Dentro di sé, però, la paura più grande era un’altra: il ritiro dei Normanni. Se Ruggero avesse alzato l’assedio, il suo amato sarebbe tornato lontano, e il destino li avrebbe separati per sempre.
La notte in cui prese la decisione, Betta tremava. Uscì di casa, cercò il contatto con il soldato che amava e gli rivelò il segreto custodito dagli ennesi: le scorte erano finite, la città cedeva alla fame, e nel giro di pochi giorni le mura sarebbero cadute senza colpo di spada.
Quelle parole, portate alle orecchie di Ruggero, cambiarono il corso della guerra. Il conte, già deciso a lasciare il campo, trattenne i suoi uomini e ordinò di stringere ancora l’assedio. I Normanni, incoraggiati dalla notizia, serrarono i ranghi. Dentro la città, la fame dilagava come un fuoco.
Pochi giorni dopo, le porte cedettero. Ruggero entrò vittorioso in Enna. I suoi stendardi sventolavano sulle torri, i cavalieri normanni riempivano le strade, e la città che aveva resistito per mesi cadde in un istante.
Betta guardava tutto dall’alto del castello. Il cuore non trovava pace: l’amore l’aveva guidata, ma la sua voce aveva consegnato Enna al nemico.
Quando le insegne normanne sventolavano già sulle torri, Betta salì sul punto più alto del castello. Da lassù osservava la città piegata: le strade percorse dai cavalieri, le case violate, il silenzio dei suoi concittadini. Ogni sguardo le ricordava il peso delle sue parole.
Il rimorso le divorava il cuore. Aveva scelto l’amore per un uomo e, con quella scelta, aveva spezzato il destino della sua gente. Le grida lontane non erano più voci di vittoria, ma un canto di condanna che risuonava solo per lei.
Betta si fermò davanti al precipizio. Il vento le sollevava i capelli e portava con sé l’eco dei tamburi normanni. Per un attimo chiuse gli occhi, e nel buio vide il volto dell’uomo che amava. Un sorriso breve le attraversò le labbra. Poi il passo. Il corpo si staccò dalla rocca e si frantumò contro le pietre della valle.
La notizia raggiunse Ruggero. Il Gran Conte ascoltò in silenzio, senza giudizio né rabbia. L’animo del guerriero, temprato da mille battaglie, si piegò davanti alla tragedia di quella giovane. Ordinò che la sua memoria non si disperdesse.
Sul monte di fronte a Enna fece costruire un nuovo centro, e gli diede il nome di Calascibetta, il castello di Betta. Così il ricordo della fanciulla, segnata dall’amore e dal rimorso, rimase inciso nella pietra e nella storia.
Ancora oggi, chi pronuncia quel nome evoca la leggenda di una ragazza che sacrificò la città per seguire il cuore, e che nel cuore trovò la sua fine.