07/11/2025
Mio marito mi ha lasciata sul ciglio della strada con queste parole: «Non vali niente per nessuno.» Ma un’ora dopo, davanti a me si fermò una limousine che lui aveva visto solo nei film…
«Vendi. E per favore, Clara, senza i tuoi sospiri drammatici», la voce di Alberto, mio marito, tagliò l’aria mentre guardavo dalla finestra i vecchi castagni. Gli stessi sotto i quali, da bambina, nascondevo bigliettini con i segreti.
«Alberto, te l’ho detto… avevamo concordato di non riaprire questo argomento.»
«Concordato? Io non ho concordato con nessuno. Ti ho solo dato il tempo di accettare l’inevitabile.»
Attraversai l’appartamento che avevo ereditato da mia nonna, facendo scorrere il dito sul coperchio impolverato del pianoforte, come se stessi valutando merce pronta per la vendita.
«Per me questo posto non è solo un appartamento. È memoria.»
«Di memoria non si vive. Ho bisogno di capitale. O preferisci che restiamo per sempre intrappolati con uno stipendio da impiegato?»
Sapeva colpire dove faceva più male: il senso di colpa. La paura di non essere una buona moglie, di frenare il suo futuro.
«Ma ho promesso a mia nonna che non avrei mai venduto…»
Alberto rise freddamente:
«Le promesse ai morti non mi pagano le bollette. Io ho promesso a me stesso che avrei avuto successo. E questo significa liberarmi da questa gabbia che odora di naftalina e di passato.»
Il suo sguardo mi schiacciò alla sedia come un peso di ferro.
«Capisci, Clara? È l’unica decisione giusta per la nostra famiglia.»
«La nostra famiglia.» Usava sempre quella frase quando voleva qualcosa: quando gli serviva un prestito per l’auto, quando mi fece rinunciare a un viaggio con le amiche.
«Non posso, Alberto», dissi piano, ma lui lo sentì.
«Non puoi? Non capisci che senza di me sei uno zero? Nessuno! Chi ti vorrebbe con i tuoi principi assurdi e le tue promesse ai fantasmi?»
Non urlò. Lo disse con calma, come emettendo una sentenza. E questo lo rese ancora più spaventoso.
Nei giorni seguenti recitò la parte del marito perfetto. Mi portava succhi freschi, mi mandava messaggi teneri. Ma io lo sapevo: era la sua vecchia tattica. Prima, colpire. Poi, cullarmi con false prove d’affetto.
L’apice arrivò quando entrò in casa con un uomo vestito con eleganza: Riccardo Bianchi, un perito immobiliare. «Solo un amico», disse con il suo sorriso finto. Ma gli occhi di Riccardo brillavano di smania.
«Ottima posizione, vecchio quartiere viennese. Vendita rapida. Ma naturalmente va demolito tutto», disse Riccardo, senza nemmeno guardarmi.
Mi sembrò di salutare ogni angolo della mia vita, mentre uno sconosciuto trasformava la mia casa in numeri su un foglio.
Fu allora che ricordai le parole di mia nonna: «Questa non è solo una casa, è la tua fortezza. Gli uomini vanno e vengono, ma la fortezza resta.»
Quando Alberto e sua madre, la signora Lucía, iniziarono a infilare fotografie, lettere e vecchi libri nei sacchi, qualcosa si ruppe dentro di me. Ma non verso la distruzione. Verso la chiarezza.
Un altro ricordo riaffiorò: un biglietto da visita dimenticato in un cassetto, appartenente a un fedele amico di mia nonna, Alexander Weiss. «Se mai i demolitori entreranno in casa tua e non riuscirai a farcela da sola, chiamalo», mi aveva detto.
In quel momento capii: la partita vera cominciava. Sorrisi per la prima volta dopo tanto tempo e dissi ad Alberto ciò che voleva sentire: «Hai ragione.»
Lui credette di avermi battuta. In realtà, fu allora che iniziai a vincere.
Qualche giorno dopo, su una strada deserta vicino a Barcellona, dopo una telefonata che annunciava che la vendita era stata bloccata dal mio avvocato, Alberto mi spinse fuori dall’auto urlando come saluto finale:
«Nessuno ti ama!»
La polvere sollevata dalle ruote fluttuava ancora nell’aria quando tirai fuori il telefono dalla borsa. Avevo già composto il numero di Weiss.
«Signor Alexander? Sono Clara. È arrivato il momento.»
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