13/12/2025
Nell’ultima intervista a Gabriele Gorelli c’è una frase che mi ha colpito più di tutte: nel vino, a differenza di altri settori, sembra esistere un risentimento verso il consumatore che non dimostra competenza. Una constatazione semplice, ma potentissima, perché arriva da una delle voci più autorevoli del nostro panorama.
Gorelli evidenzia un nodo che il vino non può più ignorare: mentre lusso, moda e automotive hanno imparato a coinvolgere le persone puntando su emozione e immediatezza, noi continuiamo a voler “educare” il pubblico, come se scegliere un vino fosse un test tecnico.
In questo atteggiamento, che lui definisce weaponizing, trasformiamo la conoscenza in un’arma. Carte dei vini intimidatorie, linguaggi criptici, ritualità autoreferenziali: poi ci stupiamo se il consumatore sceglie un cocktail, semplice e privo di giudizio.
Per me questo segna la fine di un modello comunicativo che ha confuso la complessità con il valore e la distanza con l’autorevolezza. Democratizzare non significa banalizzare.
La domanda però resta: quanti nel vino italiano condividono davvero questa visione? Perché vedo ancora troppe aziende che parlano al vino più che del vino, agli addetti ai lavori più che ai consumatori, continuando a ridurre la platea e a indebolire il dialogo.
Se vogliamo che il vino torni a essere un linguaggio universale, dobbiamo smettere di metterci in cattedra e tornare a essere narratori, compagni di viaggio, facilitatori di emozioni. La competenza deve essere un invito, non un filtro.
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