
22/08/2025
Olive alla Conza: il rito contadino che sfidava la calce viva
In Puglia, quando l’autunno accorciava le giornate e i rami degli ulivi si piegavano sotto il peso dei frutti, iniziava un rituale antico che univa necessità, ingegno e un pizzico di rischio. Era il tempo delle “Olive alla Conza”, chiamate anche olive alla calce: un metodo arcaico di trasformazione che oggi sopravvive quasi come memoria orale, tramandato di nonno in nipote, ma che un tempo rappresentava la normalità.
La pratica affonda le sue radici nella civiltà contadina, quando nulla andava sprecato e l’esperienza quotidiana valeva più di qualsiasi manuale. I contadini conoscevano bene l’amaro e la durezza delle olive appena raccolte: per renderle edibili, bisognava domare la loro naturale resistenza. E così ricorrevano a un alleato insolito e potente: la calce viva, mescolata alla cenere di quercia.
Il procedimento aveva quasi il sapore di un rito alchemico. Per ogni chilo di olive servivano 450 grammi di calce viva e 750 grammi di cenere, sciolti in grandi tinozze di legno ricolme d’acqua. Le olive vi restavano immerse per un giorno intero, assorbendo la forza corrosiva della miscela. Non mancava una dose di attenzione, perché la calce non perdonava: bastava un contatto maldestro per procurare ustioni. Ma la saggezza contadina sapeva come maneggiare anche il pericolo.
L’indomani, il gesto si ripeteva: via il liquido, lavaggi continui, cambi d’acqua ripetuti per due o tre giorni, quasi fosse una purificazione. Solo allora arrivava la fase più rassicurante: la salamoia, preparata con 100 grammi di sale per ogni chilo di olive. A completare l’opera, un velo di foglie di fi*****io selvatico, capace di donare quella nota balsamica che faceva da contrappunto alla sapidità.
Ne nasceva una conserva unica, croccante e saporita, che portava in tavola l’essenza della civiltà agricola pugliese. Non era soltanto un modo per prolungare la vita del raccolto, ma un atto culturale, un tassello della dieta quotidiana nelle masserie.
Molti anziani ricordano ancora le giornate passate ad aiutare i genitori o i nonni attorno alle tinozze. C’era chi raccontava di mani arrossate, chi della pazienza infinita nel cambiare l’acqua, chi di quell’odore acre che restava nell’aria. E c’era l’attesa: le olive alla Conza non erano immediate, chiedevano tempo e cura, ma regalavano un piacere che valeva ogni sforzo.
Oggi, sebbene il metodo sia in gran parte abbandonato – sia per la pericolosità della calce viva, sia per l’arrivo di tecniche più sicure – resiste in qualche casa di campagna, come testimonianza di un sapere che appartiene più alla memoria che alla quotidianità. Per chi ha avuto la fortuna di assaggiarle, restano un piccolo miracolo della tradizione pugliese: una storia di resilienza, ingegno e sapori che rischiano di perdersi.