
18/06/2025
RECENSIONE — 28 ANNI DOPO
È difficile non partire dalla grande attesa che circondava questo terzo capitolo di una delle saghe horror post-apocalittiche più iconiche degli ultimi decenni. 28 anni dopo, che vede il ritorno di Danny Boyle alla regia e di Alex Garland alla sceneggiatura, riprende le redini di una vicenda lasciata in sospeso dal 2007, portandola a una dimensione più matura, intima e al contempo universale.
È passato tanto tempo dalla diffusione del “virus della rabbia” che aveva messo in ginocchio l’Inghilterra. La società sembra aver preso una nuova forma, una comunità di sopravvissuti si è stabilita a Lindisfarne, al riparo dal contagio. Ma quando uno di loro lascia l'isola per una missione sulla terraferma, scopre una società stravolta, dove le persone e le creature infette si sono evolute in modo inaspettato. La sua decisione di partire — informato dal progresso, dalla scienza, dalla voglia di futuro — diventa una metafora di come ogni civiltà debba confrontarsi con il passato per avanzare.
È lo stesso Danny Boyle a sottolineare come questo film nasca dalla necessità di "tirar fuori idee dal passato per dar loro una forma più ampia", come se la saga dovesse rinascere per affrontare una società completamente mutata. “È un po’ come partire per un viaggio da ragazzini, sulle orme di un padre”, ha detto il regista, alludendo tanto alla sua esperienza quanto al destino del protagonista.
È una delle sfaccettature più affascinanti di 28 anni dopo: ogni capitolo può essere autonomo, quasi una teologia a sé, una riflessione sulle paure universali — dalla malattia alla solitudine, dalla società post-Brexit alla sfida di una nuova generazione di non ripetere gli errori di quella che l’ha preceduta.
È interessante come Boyle e Garland diano molta importanza al ruolo delle donne, che, come afferma il regista, “chi più delle donne conosce le sofferenze e i dolori?”. Le figure femminili in questo film non sono delle vittime, ma delle protagoniste che affrontano l’orrore con una determinazione che proviene dalla loro esperienza intima del mondo.
È, in fondo, questo il filo rosso di 28 anni dopo: confrontarsi con le paure per superarle, perché l’horror — come dice Boyle — “piace perché è una ragione per affrontarle a viso aperto”.
È un film che tiene viva la fiamma di una saga di culto, aggiornandola a una società post-Brexit, dove le persone non sono più al centro di ogni cosa. La tecnologia può farci sentire fondamentali, ma alla fine “andiamo tutti a finire nello stesso luogo”.
È una pellicola ambiziosa, che non ha paura di osare dal punto di vista narrativo, di confrontare passato e futuro, di restituire una dimensione intima all’epidemia. 28 anni dopo non è solo un seguito, è una rinascita. Un film che, come i personaggi che racconta, trova la forza di partire per un nuovo inizio
Silvia Frezza