History Car

History Car Storie, emozioni e motori d’altri tempi. History Car racconta le auto che hanno fatto la storia, tra ricordi, curiosità e passione pura. Restauro auto d'epoca

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26/07/2025

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Da History CarRóża – la bambina col bracciale rossoVarsavia, estate del 1944. I vetri erano già rotti, le strade non ave...
25/07/2025

Da History Car

Róża – la bambina col bracciale rosso

Varsavia, estate del 1944. I vetri erano già rotti, le strade non avevano più nomi, solo numeri dipinti in fretta sui muri scrostati. L’odore della guerra non era più solo quello della polvere da sparo. Era il tanfo dei mattoni bruciati, delle divise lacerate, della carne e della paura. E in mezzo a tutto questo, camminava a piccoli passi una bambina con due trecce, un vestitino troppo grande e un bracciale con una croce rossa cucito a mano.

Si chiamava Róża Maria Goździewska. Aveva otto anni. E non giocava più da tempo.

Suo padre era stato arrestato dai tedeschi nel 1943, portato via una mattina fredda senza un saluto. Nessuna spiegazione. Solo stivali che battevano forte e una porta che non si sarebbe più aperta. La madre non pianse davanti a lei, ma Róża la sentì urlare nel cuscino ogni notte per settimane. Da allora, Róża smise di chiedere “quando torna papà”.

Nel 1944, Varsavia esplose. Non per bombe, ma per coraggio. I giovani dell’Armia Krajowa, studenti, operai, donne e ragazzini, decisero che era ora di ribellarsi. I quartieri si trasformarono in barricate, i sottoscala in ospedali. La città intera divenne una ferita aperta, che però non voleva morire.

Róża non aveva più scuola, né bambole, né giochi. Aveva un grembiule bianco e un compito: aiutare.

Non era un’infermiera per addestramento. Ma per necessità. Portava acqua, puliva le bende, teneva la mano a chi tremava. Qualche volta teneva il secchio mentre altri tagliavano via un arto. Qualche volta sussurrava canzoni polacche ai feriti per non farli pensare al dolore. Era piccola, troppo piccola. Ma nessuno la cacciò mai via.

Un giorno un fotografo la notò nel corridoio di un ospedale improvvisato, con il volto serio e lo sguardo fermo. Scattò una foto. Ancora oggi, quella foto esiste: una bimba con un elmetto che le copre le orecchie, e un’espressione che non dovrebbe appartenere a nessun bambino. È diventata il volto dell’Insurrezione: la purezza nell’inferno, la speranza dentro le macerie.

Ma Róża non voleva essere un simbolo. Lei voleva solo vivere.

Eppure, anche se era una bambina, capiva. Capiva che ogni gesto contava. Che ogni benda stretta, ogni bicchiere d’acqua, ogni carezza fatta a un moribondo era una forma di resistenza. Era un modo per dire: “Non ci avete ancora spenti.”

L’insurrezione durò 63 giorni. E finì nel peggiore dei modi. Varsavia fu rasa al suolo. I combattenti deportati. I civili massacrati. Eppure, chi sopravvisse, non dimenticò mai. Perché c’erano storie come quella di Róża, così piccole e silenziose da sembrare incredibili, ma così forti da sopravvivere a tutto.

Dopo la guerra, Róża crebbe. Non parlava spesso di quegli anni. Ma conservava il bracciale con la croce rossa, piegato in un cassetto insieme a una foto sbiadita. Studiò, lavorò, visse. Non cercò mai fama, non si vantò mai di nulla. Solo, ogni tanto, quando passava davanti a un ospedale, rallentava il passo.

Morì nel 1989, lo stesso anno in cui la Polonia tornava finalmente libera. Come se avesse atteso, pazientemente, la fine vera di quella guerra iniziata quando lei aveva otto anni.

Oggi, di Róża restano poche cose: una foto, un nome, una storia.

Ma in ogni bambino che cresce in una città ricostruita, in ogni donna che sceglie di aiutare invece di fuggire, in ogni persona che decide di restare umana anche nei giorni più bui, Róża è ancora viva.

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in collaborazione con NOI figli del 1900

Questo gioco si chiama : TROVATE LE NON DIFFERENZE ... :-)Seguite la nostra pagina se anche voi siete appassionati di st...
25/07/2025

Questo gioco si chiama : TROVATE LE NON DIFFERENZE ... :-)

Seguite la nostra pagina se anche voi siete appassionati di storia di motori e storie con motori

La vita che torna — Berlino, estate 1946Berlino, 1946. La guerra era finita, almeno sui libri e nei trattati firmati tra...
25/07/2025

La vita che torna — Berlino, estate 1946

Berlino, 1946. La guerra era finita, almeno sui libri e nei trattati firmati tra le potenze. Ma nelle strade, nei muri, nei corpi e nei volti, la guerra continuava a vivere, come un’eco che non voleva andarsene. Le rovine erano dappertutto: case crollate, palazzi sventrati, finestre senza vetri, bambini che giocavano con mattoni e ferri contorti come fossero giocattoli. Eppure, in quella città ridotta a un fantasma, accadde una cosa semplice e profonda: la vita ricominciò.

Non ci fu un segnale. Nessuna tromba suonò la rinascita. Fu qualcosa di più silenzioso. Il pane tornò nelle mani delle donne. Le biciclette riaffiorarono dalle cantine. Gli uomini rasati, le donne con i capelli raccolti. Qualcuno mise su una radio a valvole e ballò. E poi venne l’estate, la prima vera estate senza bombardamenti.

Quell’anno, a Berlino, si tornò al fiume Havel. Non era solo un corso d’acqua: era un confine tra la morte e il ricordo, tra ciò che era stato e ciò che, forse, poteva tornare a essere. Lungo le sue rive, le famiglie si riunirono con stuoie e cestini, si tolsero le scarpe, sentirono di nuovo l’erba sotto i piedi. I bambini si tuffavano, le ragazze ridacchiavano mentre si sistemavano i costumi rattoppati con pezze colorate. Era una scena che, in un’altra epoca, sarebbe stata banale.

Ma in quella fotografia — che oggi ci guarda dritta nell’anima — c'è qualcosa che spezza il fiato.

Tre elmetti arrugginiti, infilati su una croce bianca di ferro. Una tomba. Improvvisata, forse dimenticata, forse solo rispettata in silenzio. Tre soldati tedeschi. Forse ragazzi. Forse padri. Morti lì, a un passo da dove ora le ragazze si bagnano, si asciugano, si baciano. La morte, ancora così presente, eppure messa di lato. Non per mancanza di rispetto, ma per un bisogno umano, primitivo e inarrestabile: il bisogno di tornare vivi.

Come si convive con la morte appena passata? Come si fa il bagno accanto a una tomba?

La risposta è che non c'è alternativa. Dopo anni di sangue, privazioni e sirene d’allarme, la gente non cercava il lusso, né la festa. Cercava solo un momento di tregua. Una riva dove potersi sedere e chiudere gli occhi. Anche se accanto c’era il ricordo della guerra. Anche se il vento portava ancora odore di polvere. Era come vivere con una cicatrice: la si sente, la si vede, ma non impedisce più di camminare.

In quella foto non c’è indifferenza. C’è coabitazione. C’è la vita che si accomoda accanto alla morte, senza negarla. C’è il passato che non può essere cancellato, ma nemmeno lasciato governare il presente. Le ragazze ridono, e lo fanno forse anche per loro, per quei tre soldati che non rideranno più. Perché il più grande gesto di rispetto per i morti è quello di non lasciar morire anche ciò che resta.

Chi viveva a Berlino nel '46 aveva negli occhi la paura, ma nel cuore un’ostinazione tenera. Avevano conosciuto l’inferno, e per questo sapevano riconoscere ogni piccola forma di paradiso: un gelato improvvisato, una risata al tramonto, un tuffo in acqua, una camminata a piedi nudi sull’erba calda. Tutto questo accadeva accanto ai ricordi, alle lapidi, agli elmetti.

E forse, è proprio questo che rende l’umanità così straordinaria: la capacità di tornare a vivere, nonostante tutto. Non dimenticando, ma decidendo comunque di ridere. Non ignorando, ma imparando a convivere.

Oggi quella foto ci guarda e ci racconta una verità silenziosa: la guerra è finita davvero solo quando qualcuno, pur con le lacrime agli occhi, torna a fare il bagno in un fiume accanto a una tomba.

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24/07/2025
La vedova di Elk CreekBeartooth Mountains, Territorio del Montana — Inverno del 1886-1887Quando Elizabeth “Elsie” Mackli...
24/07/2025

La vedova di Elk Creek

Beartooth Mountains, Territorio del Montana — Inverno del 1886-1887

Quando Elizabeth “Elsie” Macklin lasciò il Kansas a ventiquattro anni, lo fece per amore. Non per avventura, né per ricchezza, né per sfuggire a una vita difficile. Lo fece per John. Un uomo con le mani forti e lo sguardo che non abbassava mai, neanche davanti alla neve. Era un trapper, uno di quelli veri, che sapeva leggere le tracce tra gli alberi e costruire una capanna con solo un'accetta e un sogno.

Insieme, si stabilirono alla foce di Elk Creek, nel cuore selvaggio del Montana, sotto le ombre gelide del Beartooth Range. Una capanna con due stanze, fatta di tronchi e ostinazione, piantata a 9.000 piedi sopra il livello del mare. Lontano settimane dalla città più vicina, lontano da tutto ciò che poteva dirsi umano, salvo le mani che si stringevano la sera davanti al fuoco.

Per due anni sopravvissero. E più che sopravvivere, impararono a vivere. Scambiavano le pelli per farina, proiettili e chicchi di caffè. Bollivano ossa per far brodo, accatastavano legna come si fa con le preghiere d’inverno. Ogni rumore nel bosco era una possibilità o una minaccia. Lì non c’erano le regole della civiltà. Solo quelle della fame, del freddo e della forza.

Poi, nell’ottobre del 1886, John partì lungo il fiume. Disse che avrebbe seguito le tracce dei castori più a nord, che sarebbe tornato prima della prima neve. Ma la neve arrivò prima. E John non tornò mai più.

Nessun pianto. Nessun telegramma. Nessuna tomba.

Solo il silenzio.

Elsie non se ne andò. Non crollò. Non invocò aiuto. Restò. E l’inverno scese con tutta la sua crudeltà. I grizzly, in ritardo per il letargo, scesero fino ai ruscelli. I lupi ululavano nel buio, annusando la solitudine. I sacchi di farina si svuotarono. Le candele finirono. Eppure, giorno dopo giorno, lei caricava il fucile, bolliva le ossa e manteneva acceso il fuoco.

Faceva il pane con la neve fusa, cuciva pellicce con ago e filo recuperati da vecchi sacchi da zucchero. Dormiva con una mano sulla carabina. Ogni tanto parlava da sola. Ogni tanto, solo per ricordarsi di avere una voce.

Quando l’aria si fece così sottile da tagliare i polmoni, quando i vetri delle finestre si coprirono di ghiaccio anche dall’interno, Elsie resistette. Perché la morte, lì sopra, era sempre pronta. Ma lei non le diede soddisfazione.

Sopravvisse per dispetto.

Sopravvisse per raccontarlo, anche se non avrebbe mai avuto nessuno a cui raccontarlo.

Quando la primavera finalmente sciolse la neve e gli uccelli ritornarono a farsi sentire tra gli alberi, la gente del prossimo accampamento — giorni a piedi — trovò la capanna ancora fumante. Dentro, una donna dai capelli intrecciati, la schiena dritta e gli occhi che non si abbassavano mai. Come quelli di John.

Elsie non parlava volentieri di quel che accadde quell’inverno. Non raccontò mai cosa vide nei boschi. Ma quando, anni dopo, si sedette a raccontare ai nipoti quella volta che “il papà non tornò”, usò solo tre parole:

“Ho scelto di restare.”

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Citroen 1 cv
23/07/2025

Citroen 1 cv




















I nostri.. Sembravano uomini ma erano eroi...Articolo di History CarTra le dune e le sabbie fredde di Cortellazzo, nel p...
23/07/2025

I nostri.. Sembravano uomini ma erano eroi...

Articolo di History Car

Tra le dune e le sabbie fredde di Cortellazzo, nel pieno della Grande Guerra, c'era un piccolo avamposto italiano che sembrava più un villaggio di uomini e speranze che un fronte di battaglia. In quel luogo di legno e sacchi di sabbia, battuto dal vento e impregnato di silenzio, viveva un gruppo di soldati uniti da qualcosa che andava ben oltre la divisa. Erano uomini venuti da tutta Italia, figli di storie diverse, portatori di dialetti e sogni lontani, legati da una fratellanza che solo il pericolo vero sa creare.

C'era Giulio, bergamasco, muratore nella vita civile, robusto e silenzioso. Parlava poco ma quando lo faceva, tutti si fermavano. Era il tipo che, se ti vedeva tremare per il freddo, toglieva la propria coperta senza dire una parola. Nessuno gli aveva mai visto una lacrima, ma la notte, ogni tanto, lo si sentiva sussurrare il nome di sua moglie e dei suoi due figli. Gli altri facevano finta di dormire, per rispetto.

Poi c’era Alfio, di Catania, figlio di pescatori. Sempre allegro, con una battuta pronta anche nei momenti più duri. Portava con sé un fazzoletto rosso che diceva essere della madre, e ogni volta che uscivano in pattuglia, lo legava al polso "perché il mare non si dimentica mai di me". Una volta, durante una notte gelida, riuscì a cucinare con una gavetta un piatto che somigliava vagamente a una pasta con le sarde. Era immangiabile, ma tutti risero fino alle lacrime.

Nino, invece, era di Parma. Ex studente di lettere, il più istruito del gruppo. Aveva un quaderno nascosto sotto la giubba e annotava ogni cosa: il cielo, i discorsi, le paure. Diceva che un giorno, se fosse tornato, avrebbe scritto un libro. Era lui a leggere ad alta voce la sera, scegliendo pezzi di Dante o Manzoni, mentre i compagni fumavano e il fumo si mischiava alla nebbia. Una volta scrisse un poema per onorare un mulo caduto durante un bombardamento, e lo lessero tutti in piedi, in silenzio, come se fosse stato un commilitone.

Tonio veniva da Bari. Corporatura minuta, voce forte. Si occupava delle biciclette da ricognizione e, anche se nessuno capiva come facesse, riusciva sempre a farle funzionare. Diceva: "La guerra si vince sui pedali, non solo coi fucili." Un giorno pedalò per dodici chilometri sotto il fuoco nemico solo per riportare una lettera del comandante. Tornò con una scheggia nel braccio e il sorriso di chi sapeva di aver fatto qualcosa di giusto.

Ermes, di Trento, era il più giovane. Non aveva ancora vent'anni. Era stato arruolato come portaordini e lo prendevano un po’ in giro all’inizio, ma in pochi mesi si era fatto rispettare. Durante una ritirata disordinata, fu lui a restare indietro per aiutare un compagno ferito. Lo portarono via entrambi su una carriola trovata chissà dove. Da allora, nessuno lo chiamò più "il piccolo".

Infine c’era Piero, di Arezzo. Un falegname, mani grosse e voce calma. Aveva costruito una piccola croce con due pezzi di legno trovati nelle retrovie, e l’aveva piantata fuori dalla baracca principale. Diceva: "Non serve sapere chi siamo stati, basta che qualcuno sappia che c’eravamo." Era il primo a svegliarsi e l’ultimo a coricarsi, e quando uno dei ragazzi cadeva, era lui a chiudergli gli occhi.

A Cortellazzo non c’erano medaglie da mostrare, né fanfare. C’erano scarponi infangati, mani callose e occhi che avevano visto troppo. Ma c’era anche una bicicletta appoggiata a una parete, una baracca fatta di legno storto, e risate improvvise che scoppiavano come fuochi fatui, spezzando il grigiore.

Quegli uomini, ognuno con la propria storia, con il proprio accento e le proprie paure, formarono una famiglia. Una famiglia che la guerra non riuscì a spezzare. E se oggi ci si ferma in silenzio davanti a una vecchia foto sbiadita scattata tra i sacchi e le tavole, con un gruppo di soldati e una bicicletta nel mezzo, forse li si può ancora sentire ridere, parlare, vivere.

Perché gli eroi di Cortellazzo non erano giganti, ma uomini semplici che, senza chiederlo, hanno scritto una delle pagine più vere dell’anima italiana.

Sempre piu' spesso capita che alla morte del nonno , la sua auto passa al nipote che la conserva e la usa nel ricordo de...
23/07/2025

Sempre piu' spesso capita che alla morte del nonno , la sua auto passa al nipote che la conserva e la usa nel ricordo del nonno.. Mio nonno era tedesco , perchè anche io non posso tenermi il mezzo che aveva da giovane ?

Nel 1955, quando l’Italia respirava il profumo della rinascita e le strade cominciavano a riempirsi di sogni a due tempi...
23/07/2025

Nel 1955, quando l’Italia respirava il profumo della rinascita e le strade cominciavano a riempirsi di sogni a due tempi, due giovani di venticinque anni sfidarono il tempo e le convenzioni. Lui si chiamava Giulio, lavorava in una piccola officina meccanica a Lecco. Lei, Anna, dava lezioni di pianoforte ai bambini benestanti sul lungolago. Non si conobbero in una festa, né durante un ballo. Si incrociarono una mattina di pioggia davanti a una vetrina di spartiti. Lui le sorrise, lei lo ignorò. Ma il giorno dopo, lui tornò con una rosa infilata tra le corde di una Lambretta bianca parcheggiata proprio davanti a quella vetrina.

Fu l’inizio di qualcosa che nessuno dei due osava ancora chiamare amore. Si incontravano di nascosto: le famiglie erano in disaccordo. Il padre di Giulio era un semplice fabbro, e quello di Anna un medico austero, convinto che sua figlia meritasse un futuro „all'altezza del suo talento“. Eppure ogni ostacolo si scioglieva quando lui la portava a fare un giro in Lambretta lungo i tornanti di Bellagio, o quando si fermavano sotto un portico a condividere un panino e guardare la pioggia cadere.

Con la scusa di accordare un pianoforte o sistemare un motorino, riuscivano a ritagliarsi istanti di intimità. Sguardi che valevano lettere, mani sfiorate in mezzo alla folla, il rombo lieve della Lambretta che diventava la colonna sonora del loro sentimento. E poi c'erano le sere sul lago, con la nebbia che avvolgeva tutto e sembrava proteggerli dal mondo. Si stringevano sotto un solo impermeabile, la Lambretta parcheggiata poco distante, come un complice silenzioso.

Una volta, durante una tempesta improvvisa, si rifugiarono sotto un grande albero sul lungolago. Anna, tremante e bagnata, guardò Giulio negli occhi e disse: “Tu sei la mia fuga.” Lui non rispose. Le prese il viso tra le mani e la baciò. Fu il primo bacio. Il più semplice. Il più vero.

Passarono mesi. Le famiglie continuarono a opporsi, cercando di separare ciò che la strada aveva unito. Un giorno, Anna fu mandata a Milano da una zia, per “mettere ordine nei pensieri”. Giulio, invece, rimase con la sua Lambretta e un cuore spezzato. Ma non smise mai di andare ogni domenica pomeriggio sul lungolago, sotto quell’albero, con una rosa infilata nel manubrio, come il primo giorno.

Finché una mattina di marzo del 1956, tra la nebbia f***a, vide una figura familiare camminare verso di lui. Era Anna, con un piccolo borsone e gli occhi lucidi. “Non ce la faccio più a vivere senza di te,” disse. Si abbracciarono. Salirono sulla Lambretta. Non sapevano dove andare, ma sapevano che sarebbero andati insieme.

Si sposarono in una piccola chiesa di campagna, con due testimoni, una margherita al posto del bouquet e il rombo leggero della Lambretta a fare da marcia nuziale. Non ebbero ricchezze, ma ogni curva del lago, ogni angolo di strada condivisa, raccontava la loro storia.

Ancora oggi, quella stessa Lambretta è parcheggiata nel garage della loro casa, con il manubrio che profuma ancora di rose e pioggia. La foto di loro due, abbracciati sotto l’albero, con il lago sullo sfondo, è incorniciata nel salotto. E ogni volta che la nebbia scende sull’acqua, Giulio (ormai solo, ma con il cuore pieno) guarda fuori dalla finestra e sorride: “Lei arriva sempre con la nebbia.”

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#1955








Un sogno in cabrioletEra l’autunno del 1969, e il tempo sembrava essersi fermato in una piccola casa in pietra alle port...
23/07/2025

Un sogno in cabriolet

Era l’autunno del 1969, e il tempo sembrava essersi fermato in una piccola casa in pietra alle porte di Tours, nella tranquilla campagna francese. Henri e Madeleine Lefèvre avevano appena compiuto 75 anni, portati con eleganza e una grazia d’altri tempi. Dopo una vita intera dedicata al lavoro – lui ferroviere, lei insegnante in una scuola elementare – i due avevano da poco chiuso la porta ai doveri quotidiani e aperto un capitolo silenzioso, ma desiderato, fatto di mattine lente e pomeriggi di tè sul balcone.

Ma Madeleine, che non aveva mai dimenticato il vento tra i capelli durante le rare gite in moto degli anni '30, e Henri, che aveva sempre avuto un occhio per le linee sinuose delle automobili d’eccezione, sapevano che quel momento della vita poteva e doveva essere vissuto con un pizzico di follia.

Un pomeriggio, davanti a un bicchiere di vino rosso e con le ombre lunghe dell’autunno che si allungavano sul tavolo da cucina, Madeleine lanciò uno sguardo complice:
“Henri, e se ce lo togliessimo quel vecchio sfizio?”

Lui la guardò per un momento. Non serviva aggiungere altro. Lo avevano sempre chiamato “lo sfizio”, come fosse un ospite silenzioso che li aveva accompagnati per decenni. Non erano mai stati persone ricche, ma avevano risparmiato con cura, e da tempo accarezzavano l’idea – apparentemente assurda per due anziani – di possedere un’auto fuori dal comune.

Non una macchina qualunque. Ma una Citroën DS 21 Cabriolet.

L’avevano vista per la prima volta nel 1961, durante una gita a Biarritz. Era di un diplomatico o forse di un regista – chi lo sa – ma aveva lasciato entrambi senza fiato. Lunga, elegante, futuristica, quasi un'astronave su ruote. Madeleine aveva detto che sembrava «una ballerina che fluttua sul palcoscenico». Henri non l’aveva mai dimenticata.

E così, pochi giorni dopo, con un abito elegante lui e un cappottino color crema lei, andarono in concessionaria. Il venditore li guardò con sorpresa: non erano i clienti tipici per una decappottabile sportiva. Ma quando Henri tirò fuori la cartellina con i risparmi accumulati con meticolosa pazienza e Madeleine disse, sorridendo: “Ci basta che sia color champagne”, nessuno osò più mettere in dubbio la determinazione dei due vecchi innamorati.

La vettura arrivò a dicembre. Una DS 21 Cabriolet color avorio chiaro, con interni in pelle beige e una capote nera che sembrava seta. Non era solo un’automobile: era il compimento silenzioso di una promessa, una dichiarazione d’amore ai sogni lasciati in sospeso.

Le settimane che seguirono furono piene di viaggi brevi, ma intensi. La costa atlantica, i villaggi della Loira, le piccole locande immerse nei vigneti. Ogni sosta era un ricordo condiviso, un sorriso, una mano che cercava l’altra nel vento. Henri guidava con calma, godendosi il rombo garbato del motore e lo sguardo fiero dei passanti. Madeleine teneva un foulard color lavanda legato sotto il mento e annotava su un piccolo diario le emozioni di ogni tragitto.

Una sera d’estate del 1970, parcheggiati sotto un cielo trapunto di stelle nei pressi del Mont Saint-Michel, Madeleine appoggiò la testa sulla spalla di Henri.
“Non avrei mai pensato di vivere qualcosa di così bello a questa età.”
Henri sorrise, accarezzandole piano i capelli: “Non è mai troppo tardi per il primo amore. Né per l’ultimo sogno.”

La DS, nel tempo, divenne la loro firma. La gente del paese la riconosceva da lontano e salutava con rispetto quel duo elegante e fuori dal tempo. Quando la salute cominciò a rallentarli, decisero di non venderla mai. La lasciavano lucida nel garage, come un oggetto sacro, e ogni tanto Henri le dava una passata di cera ascoltando Edith Piaf alla radio.

Quando entrambi vennero a mancare, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altra nel 1981, fu il nipote Étienne a trovare il diario di viaggio di Madeleine, ancora profumato di carta e lavanda. In fondo all’ultima pagina, una frase scritta con la sua calligrafia sottile:
“La giovinezza non è un tempo della vita. È uno stato d’animo. Noi, nella nostra DS, siamo stati giovani per sempre.”

La Citroën DS 21 Cabriolet venne lasciata intatta, custodita in un granaio tra bottiglie di vino, fotografie in bianco e nero, e il silenzio gentile di una storia d’amore fuori dal tempo.










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History Car nasce nel 1974 quando Rodolfo Ruberti fece della sua passione il suo lavoro , facendo prima compra-vendita di ricambi Porsche e poi curando restauri prevalentemente dei modelli 911 e 356 .

Avvalendosi di competentissimi collaboratori e artigiani specializzati ha riportato " in vita" tantissime vetture per oltre 30 anni , dal 2016 History Car ha aperto le porte a tutte le marche e modelli ma sempre e solo vetture storiche .

Dal 2018 il figlio Carlo ha proseguito sulle orme del padre e ad oggi History Car è un azienda moderna che con la meticolosità dei migliori artigiani , carrozzieri , meccanici e tecnici porta avanti la tradizione del restauro.

History Car senza venir meno alla qualità dei lavori riesce a garantire prezzi assolutamente concorrenziali grazie alla lavorazione contemporanea di molte vetture e richiedendo al cliente pazienza.