
15/08/2025
La crepa nel tempo
Esistono parole che non sono semplici suoni, ma crepe nel tessuto del tempo.
"Taegataki o tae, shinobigataki o shinobi"
“Sopportare l’insopportabile, tollerare l’intollerabile”
Non è una massima filosofica distillata in un tempio, ma il ronzio che emerge dal fruscio di una radio, la voce di un “dio” che per la prima volta si fa uomo, parlando una lingua quasi straniera al suo stesso popolo. In quell’istante, si consumò un cortocircuito di magnitudo cosmica. Un intero sistema, costruito su un asse di divinità, onore e vittoria certa, viene attraversato da una corrente di voltaggio elevatissimo: la realtà. E il sistema va in frantumi.
L'incomprensione non fu solo un limite tecnico, un difetto della trasmissione o un arcaismo del lessico. Fu lo specchio perfetto del momento. Come poteva una mente, forgiata per anni nel crogiolo dell’eroismo, del sacrificio totale come unico esito onorevole, decifrare un messaggio la cui essenza era la negazione di tutto ciò? La voce parlava di fine, ma le orecchie, abituate solo agli anni di guerra, sentivano un incitamento alla resistenza finale. La lingua stessa, così aulica e distante, proteggeva la psiche collettiva dall’impatto diretto, creando un cuscinetto di confusione e disturbo tra la coscienza individuale e l’abisso. Qualcuno, dall’alto di un trono che tremava, aveva deciso. Ma quella decisione, per poter essere accettata, doveva essere incompresa, metabolizzata lentamente e con i giusti tempi, come un veleno che per salvare deve prima quasi uccidere.
Ecco il cuore del cortocircuito: un ordine di sopravvivenza dato a un popolo programmato per morire. “Tollerare l’intollerabile” non significava semplicemente arrendersi. Significava disinnescare l’istinto all’autodistruzione, l’impulso a trasformare le ceneri in un’ultima, abbagliante fiammata di gloria. Significava guardare in faccia l’umiliazione, la perdita, la fame, la distruzione di ogni certezza, e scegliere di restare. Non per viltà, ma per un atto di resistenza ancora più profondo e straziante: la resistenza contro il nulla. Qualcuno aveva deciso che la nazione doveva sopravvivere, anche a costo di perdere la sua anima mitologica, per poterne forgiare una nuova, umana, fragile, storica.
In quel silenzio carico di domande che segui la trasmissione, in quella quasi paralisi collettiva, inizia la riscrittura. Il primo capitolo della nuova storia non è scritto con l’inchiostro, ma con il respiro trattenuto di chi sopporta. Sopportare l’insopportabile diventa l’atto fondativo, il nuovo codice. È un processo attivo, una fatica immane che trasforma il trauma in fondamento. Il sistema è distrutto, i suoi idoli sono infranti, le sue promesse evaporate. Ciò che resta e solo questo imperativo, queste parole che fluttuano sulle rovine: continuate a esistere anche quando l’esistenza stessa e un’offesa. È da questo paradosso, da questa contraddizione vivente, che un popolo smette di essere la manifestazione di un’idea divina e inizia il lungo, doloroso cammino per diventare, semplicemente, sé stesso.
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