Yoka Yoka Nippon

Yoka Yoka Nippon Scopri il Giappone a 360°! Che tu sia un esperto o un semplice curioso, qui troverai uno spazio dedicato alla cultura giapponese in tutte le sue sfaccettature.

Storia, cultura, mondo del lavoro e tradizioni. La mia passione per la storia e la cultura giapponese, nata ai tempi del liceo, mi ha portato a iscrivermi al corso di laurea in Lingue e Istituzioni Economico Giuridiche dell’Asia Orientale presso Ca’ Foscari di Venezia. L’opportunità di studiare in Giappone ha consolidato il mio interesse, sfociando in una tesi sulla legislazione marittima giappone

se. Dopo un’esperienza lavorativa nel settore editoriale, ho colto l’occasione di trasferirmi in Giappone per lavorare nel settore navale. Dal 2013 vivo e lavoro qui, continuando a approfondire lo studio dello Shintoismo e del Buddismo giapponesi. Nel tempo libero, scrivo articoli per divulgare queste affascinanti culture.

Il sussurro che ruppe il silenzioDominava un silenzio denso nella chiesa di Ōura a Nagasaki. Era il 17 marzo del 1865 e ...
08/10/2025

Il sussurro che ruppe il silenzio

Dominava un silenzio denso nella chiesa di Ōura a Nagasaki. Era il 17 marzo del 1865 e l’edificio, eretto da mani straniere, profumava ancora di legno e cera. In quel silenzio, il sacerdote francese Bernard Petitjean stava per diventare testimone di un miracolo. Non poteva saperlo quando vide un piccolo gruppo di contadini di Urakami farsi avanti, i volti segnati dal lavoro dei campi e da un timore reverenziale. Fu una donna, Sugitomo Yuri, che facendosi avanti per prima, ruppe quell’immobilita. Le sue parole non furono che un sussurro, ma portavano il peso di secoli: era fedele “al grande signore” del regno di Roma? Venerava “Santa Maria”? Osservava il celibato, come i maestri di un tempo? Ad ogni "sì" del sacerdote, il velo di duecento anni di storia si squarciava. Quei contadini svelarono finalmente la loro identità, quella di una comunità cristiana sopravvissuta in segreto a oltre duecento anni di spietata persecuzione. Questo evento epocale, noto come “shinto hakken” (信徒発見), letteralmente la “scoperta dei credenti” o meglio “la scoperta dei cristiani”: non fu il ritrovamento di una fede estinta, ma la miracolosa rivelazione che il seme piantato nel XVI secolo non era mai morto.

Quel sussurro a Ōura era l’eco di una fede che aveva imparato a non far rumore. Per cogliere la sua potenza, bisogna immaginare un Giappone sigillato al mondo, dove essere cristiani significava avera una condanna a morte sospesa sul capo. I “senpuku kirish*tan”, i “cristiani latenti”, furono maestri di mimetismo spirituale. Per sopravvivere, la loro fede dovette indossare le vesti dei culti locali: la Vergine Maria prese le sembianze compassionevoli di Kannon, il bodhisattva della misericordia, celando la sua identità dietro un volto familiare. Le preghiere in latino e portoghese, ormai incomprensibili, si cristallizzano in canti, le “orasho”, gusci sonori di una lingua perduta. Non era più solo fede: era un atto di resistenza forgiato nella resilienza, un'eredità sussurrata di generazione in generazione. Tramandata oralmente e incentrata sulla memoria dei martiri e sulla speranza, un giorno, del ritorno dei “padri”. L’ incontro a Ōura rappresentò il compimento di quella secolare attesa.

Ma l’alba della libertà portò con sé un ombra. L'euforia per quella scoperta miracolosa si scontrò presto con la brutalità della storia: prima come un’ultima, feroce persecuzione, poi con una scelta ancora più dolorosa. La notizia della presenza di decine di migliaia di cristiani provocò un’ultima, feroce persecuzione, nota alla storia come “Urakami yoban kuzure”, durante la quale migliaia di fedeli furono arrestati ed esiliati. Ma la conseguenza più duratura fu di natura teologica. Quando il Giappone aprì finalmente le porte alla libertà di culto, la comunità ritrovata si trovò a un bivio. Molti tornarono in seno alla Chiesa di Roma, desiderosi di riconnettersi alla radici. Altri, però, rifiutarono.
È in questa frattura che nasce la figura del “kakure kirish*tan”, il “cristiano nascosto”. Per loro, la fede sincretica ereditata non era una versione imperfetta da “correggere”, ma il sacro testamento dei loro antenati, un credo santificato dal sangue dei martiri.

Abbracciare l’ortodossia dei missionari stranieri non sarebbe stata una riunificazione, ma un tradimento. La loro era diventata una religione profondamente giapponese, in cui il culto degli antenati e le tradizioni sviluppate in isolamento erano diventate centrali tanto quanto la dottrina originale. Scelsero di restare “nascosti”, custodi di una fede che aveva imparato a vivere da sola. Lo shinto hakken, quindi, non solo riportò alla luce il cristinesimo perduto del Giappone, ma segnò anche il punto di divergenza tra due destini: quello di chi si riunì al mondo e quello di chi scelse di rimanere “nascosto”, custode di una fede unica e irripetibile, oggi purtroppo quasi estinta.

Oggi, il loro “nascondersi” non più dettato dalla paura, ma dalla necessità di proteggere ciò che resta di un'eredità inestimabile. Le comunità, un tempo unite e strutturate, si sono perlopiù dissolte a causa dello spopolamento delle aree rurali, abbandonate dai giovani che partono interrompendo la catena della tradizione. La preoccupazione più grande riguarda l’inevitabile perdita delle orasho, preghiere tramandate solo a voce, un patrimonio che rischia di svanire con la memoria dell’ultima generazione. La fede non è più un rito collettivo, ma si è trasformato in un atto intimo, familiare, celebrato in casa davanti a piccoli altari domestici.

Assistere a questa fase finale è come osservare il crepuscolo di una storia di incredibile resilienza. Quella dei kirish*tan non è più una Chiesa, ma una costellazione di famiglie che custodiscono gli ultimi frammenti di un'eredità unica. Sono i testimoni finali di una fede che ha resistito ad una delle più feroci persecuzioni trasformandosi in qualcosa di profondamente giapponese, e che ora affronta il suo ultimo avversario: il silenzio dell’oblio. Ricordare la loro storia non è solo un dovere accademico, ma un omaggio alla straordinaria capacità dello spirito umano di preservare la propria identità contro ogni avversità.

In questi quindici anni di vita nella prefettura di Nagasaki ho avuto la rara e profonda fortuna di poterne parlare direttamente con uno dei loro discendenti. Grazie a un'amicizia comune che ha garantito per il mio sincero e rispettoso interesse, ho potuto ascoltare dalla viva voce di un anziano signore non un racconto storico, ma una testimonianza vivente che mi ha confermato la delicata situazione di questa fede unica e di coloro che scelsero di proseguire da soli. Ho sentito la sua fragilità, la fierezza e la malinconia di chi sa di essere custode di un fuoco che si sta spegnendo. È stata la conferma che questa fede unica, dopo aver sconfitto i suoi persecutori, affronta ora il silenzio dell'oblio.

Nota
Sebbene oggi i due termini, "senpuku kirish*tan" e "kakure kirish*tan" siano spesso usati in modo intercambiabile, gli storici giapponesi, come il professor Miyazaki Kentarō, li usano per marcare una differenza precisa. "Senpuku Kirish*tan"descrive la condizione di tutti i cristiani durante il periodo della persecuzione. "Kakure Kirish*tan", invece, si riferisce specificamente a quei gruppi che, dopo lo Shinto Hakken, decisero di non riunirsi alla Chiesa Cattolica e di continuare a praticare la loro fede sincretica e indipendente.



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Un mare d’oroIn questo preciso istante, mentre il sole d’autunno ammorbidisce i suoi raggi e l’aria si fa più tersa, un’...
06/10/2025

Un mare d’oro

In questo preciso istante, mentre il sole d’autunno ammorbidisce i suoi raggi e l’aria si fa più tersa, un’onda dorata si increspa attraversando le valli e le pianure del Giappone. È un’immagine tanto iconica quanto effimera, il segnale che il respiro del tempo sta per cambiare. È il momento dello inekari, la mietitura del riso. Per un occhio occidentale, potrebbe apparire come la semplice conclusione di un ciclo agricolo, un’attivita rurale come tante altre. Ma per comprendere il Giappone, bisogna guardare oltre la superficie di quel mare dorato e scorgere il gesto, il rito, la profonda connessione spirituale che si cela dietro ogni singolo stelo reciso.

Inekari non indica il semplice gesto del raccolto; è un dialogo silenzioso tra l’uomo, la terra e il divino, che si ripete immutato da millenni. È un atto che ha letteralmente plasmato la geografia fisica e spirituale di questa nazione. Non c'è tecnologia moderna, non c'è grattacielo avveniristico che possa cancellare la memoria ancestrale di questo gesto. Osservare oggi una famiglia in una risaia, con i corpi piegati in un arco di fatica e devozione, è come guardare attraverso una finestra temporale. Il fruscio secco della falce che taglia gli steli è una musica antica, la stessa udita dai loro antenati nel periodo Yayoi, quando la coltivazione del riso iniziò a definire le comunità, a stabilire regole sociali e a creare un legame indissolubile con il ritmo delle stagioni.

Il riso, in Giappone, non è mai stato soltanto cibo. È stato moneta, potere, l'unità di misura della ricchezza. Il valore di un feudo, lo stipendio di un samurai, non si misurava in oro, ma in koku, una quantità di riso sufficiente a nutrire un uomo per un anno. Questo legame economico ha impresso nella coscienza collettiva un senso di sacralità. Il chicco di riso non è un prodotto, ma una vita. Gli studi di folcloristi come Yanagita Kunio ci ricordano che, nella spiritualità popolare giapponese, la pianta di riso possiede un'anima, l’inadama. La mietitura, quindi, non è un'azione violenta, ma un atto di rispettoso accompagnamento. È il momento in cui l’anima della pianta si trasforma per donare sostentamento, per diventare parte del corpo e dello spirito di chi se ne nutre. Offrire una ciotola di riso ai kami in un santuario o sul kamidana non è un'offerta simbolica; è la restituzione di una parte di quella stessa essenza divina che la natura ha concesso.

Quest’atto è anche la più potente manifestazione del musubi, il concetto di connessione, di legame. Durante lo inekari, la comunità si stringe. Le generazioni lavorano fianco a fianco, il nonno insegna al nipote la giusta inclinazione del polso, la nonna prepara i pasti per ristorare i lavoratori. È un’orchestrazione di sforzi condivisi che rafforza i legami sociali in un modo che nessuna interazione virtuale potrà mai replicare. Si condivide la fatica, l’ansia per un tifone improvviso, e infine la gioia e il sollievo del raccolto messo al sicuro. In questo gesto corale, l’individuo si dissolve nel gruppo, la sua identità si fonde con quella della famiglia e della comunità, in un ciclo di mutua dipendenza che è il fondamento della società giapponese.

Tagliare il riso diventa allora un momento di meditazione in movimento sul ciclo della vita e della morte. Per dare nutrimento, la pianta deve “morire”. Il campo, prima rigoglioso e vivo, si spoglia, silenzioso, in attesa del riposo invernale. C'è una velata malinconia in questa trasformazione, l’accettazione serena di una fine che è, in realtà, la promessa di un nuovo inizio. È l’essenza stessa del pensiero buddista del mujō, l’impermanenza di tutte le cose, che si manifesta non in un testo sacro, ma nel fango di una risaia.

Quando si assapora la prima ciotola di shinmai, il riso nuovo, non si sta semplicemente mangiando. Si sta assimilando la luce del sole estivo, la purezza dell’acqua, la fatica dei nostri avi e la benevolenza dei kami. Si sta interiorizzando un anno di attesa, di speranza e gratitudine. Lo inekari è molto più di un’usanza; è l’anima del Giappone che si manifesta, un rito che ogni autunno ricorda a un popolo intero chi è, da dove viene e qual è il suo posto nel grande, ininterrotto, ciclo dell’esistenza.

Per chi volesse approfondire l’importanza della cultura del riso vi lascio qualche testo interessante:

“Rice as Self: Japanese Identities through Time" di Emiko Ohnuki-Tierney

"La rivoluzione del filo di paglia" di Masanobu Fukuoka. Ho letto il suo libro in giapponese ma ho visto che esiste anche la traduzione in italiano

柳田國男『年中行事覚書』(Yanagita Kunio, "Nenjū Gyōji Oboegaki" - Appunti sugli eventi annuali)

アミノ善彦『日本の歴史をよみなおす』(Amino Yoshihiko, "Nihon no Rekishi o Yominaosu" - Rileggere la storia del Giappone). Questo testo lo consiglio a chi sa leggere il giapponese. Amino è stato uno storico rivoluzionario che ha messo in discussione la visione tradizionale di un Giappone unicamente basato sull'agricoltura del riso. Leggere le sue critiche e la sua analisi sulle popolazioni non agricole (mercanti, artigiani, pescatori) mi ha aiutato in un certo senso a comprendere meglio l'effettiva importanza ideologica e politica che la coltivazione del riso ha avuto nella costruzione dello stato giapponese.



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Il Giappone è ancora un paese per salaryman?Quindici anni fa, mentre preparavo le valigie in Italia, annunciare il mio t...
04/10/2025

Il Giappone è ancora un paese per salaryman?

Quindici anni fa, mentre preparavo le valigie in Italia, annunciare il mio trasferimento in Giappone per lavoro innescava un copione ben preciso, che oscillava tra l’amico che, con un’alzata di sopracciglio, mi consigliava di comprare un sacco a pelo per l’ufficio e quello che, con la solennità di un documentario, mi narrava del karōshi: la morte da troppo lavoro.

La luce ambrata del tramonto si allunga tra gli edifici fuori dalla finestra del mio ufficio, e con essa emerge una storia diversa. Più complessa, e forse proprio per questo più vera. La mia azienda è un'oasi in questo panorama: fa parte di quella categoria che qui chiamano "white company", dove non solo ogni straordinario è retribuito al minuto, ma c'è una cultura attiva che ti incoraggia a consumare fino all'ultimo giorno di ferie.

La mia esperienza, sia chiaro, non è ancora la regola. Ma non è più neanche un'eccezione. La vedo piuttosto come il sintomo di una frattura profonda nel sistema. È una faglia che si allarga, uno scontro tra il Giappone di ieri e quello che, con una fatica immane, sta provando a nascere.

L’archetipo del salaryman dell’era Shōwa, quel soldato d’azienda in totale abnegazione, non è un semplice stereotipo. È stato parte del DNA culturale che ha permesso a questo paese di risorgere dalle proprie ceneri e diventare una potenza economica. Ma quel modello, oggi, scricchiola sotto il peso della sua stessa insostenibilità. La prima, vera crepa in questo monolite ha un nome: “hatarakikata kaikaku” (働き方改革), la riforma dello stile di lavoro del 2019. Per la prima volta, la legge ha piantato un paletto. Un limite agli straordinari: 45 ore mensili e 360 annuali, con deroghe molto circoscritte per i picchi di lavoro. È stato il più grande tentativo del Giappone di dire addio a una parte di sé, di affrontare le nuove sfide demografiche ed economiche guardando in faccia la cultura del superlavoro.

E i risultati, stando ai numeri del Ministero del Lavoro, iniziano a vedersi. Ho letto di recente che le ore di lavoro medie mensili nel 2024 si sono attestate intorno alle 136, con una contrazione significativa proprio degli straordinari. Significa che quella che per decenni è stata un’abitudine quasi sacra, il cosiddetto sābisu zangyō (lo straordinario non pagato, “offerto” come servizio al’azienda), sta sta lentamente perdendo la sua aura di normalità.

Ma sarebbe ingenuo e disonesto dipingere un quadro solo a tinte chiare. L'ottimismo dei numeri si scontra con un'oscurità che ha dei nomi precisi: “burakku kigyō” (le “black company”) e le loro cugine più subdole, le “papuro kigyō” (le “aziende viola”). Le prime sono brutali: sfruttano i dipendenti con orari disumani e mobbing, violando la legge apertamente. Le seconde sono forse più subdole: rispettano la forma della legge, ma coltivano una cultura di pressione psicologica così tossica da spingere le persone all’auto-sfruttamento.

I dati sul karōshi sono un pugno nello stomaco. Un report del 2024 mostra un numero record di casi riconosciuti legati a disturbi di salute mentale, superando per la prima volta la soglie dei mille. Questo dato agghiacciante ci svela una verità scomoda: anche se le ore totali di lavoro diminuiscono, la pressione psicologica è il nuovo, silenzioso campo di battaglia.

Spesso ci si chiede perché un lavoratore giapponese finisca nelle grinfie di una di queste aziende. La risposta è un groviglio di culture e struttura. Lo shūkatsu, la ricerca del lavoro per i neolaureati, è un imbuto competitivo che spinge molti giovani ad accettare la prima offerta pur di non sentirsi esclusi. A questo si aggiungono una cultura della perseveranza che rende difficile dire “basta” e la paura profonda di essere stigmatizzati per aver lasciato un lavoro “troppo presto”. È un sistema che lascia ampi margini di manovra ad aziende senza scrupoli.

Eppure, questo sistema non è più incontrastato. Due forze, più di altre, stanno erodendo le sue fondamenta. La prima è una nuova generazione di imprese: start-up, aziende tech, filiali di multinazionali che importano modelli di lavoro basati su flessibilità e meritocrazia. Offrono smart working e ambienti meno gerarchici, attirando i talenti migliori e costringendo anche le vecchie corporazioni a interrogarsi sul loro futuro per non perdere competitività.

La seconda forza è la cicatrice ancora fresca della pandemia. Ha funzionato da acceleratore imprevisto, costringendo l’intero paese a confrontarsi con il lavoro da remoto e a scardinare il dogma quasi religioso della presenza in ufficio.

Il mondo del lavoro giapponese, quindi, non è più un monolite. È un mosaico, dove la mia realtà coesiste con ambienti di sfruttamento. Il cambiamento e innegabile, ma procede con la lentezza di una grande transatlantico che vira. Da un lato, le riforme e una nuova coscienza dei diritti; dall’altro sacche di resistenza culturale e pratiche aziendali tossiche.

La transizione è in atto. La rotta, finalmente, sembra essere tracciata. E tornare indietro, per fortuna, non sembra più un opzione.



Fonte dati: Indagine Mensile sul Lavoro" (毎月勤労統計調査 - Maitsuki Kinrō Tōkei Chōsa) pubblicata dal Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare giapponese (MHLW). https://www.mhlw.go.jp/toukei/list/30-1.html

Di seguito il link al sito del “Japan Institute for Labour Policy and Training (JILPT)” dove potete trovare diversi papers di approfondimento sul mondo del lavoro giapponese

https://www.jil.go.jp/english/index.html

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Dove i mondi si toccanoCi sono geografia dell’anima, e il Giappone è una di queste, luoghi dove il mondo che calpestiamo...
02/10/2025

Dove i mondi si toccano

Ci sono geografia dell’anima, e il Giappone è una di queste, luoghi dove il mondo che calpestiamo non è l'unica realtà presente. Non è folklore da relegare nei libri, ma una percezione che si fa sensazione, la coscienza di una membrana porosa che ci separa da un’altra dimensione, infinitamente più quieta e antica. Questo confine non è tracciato su alcuna mappa; è un increspatura sull’acqua ferma di uno stagno, un’ombra che guizza alla periferia dello sguardo, il silenzio improvviso e denso che cala quando ci si addentra in una foresta di cedri. Se oggi tento di dare forma a questo tremore tra i mondi, è perché un uomo, anche lui venuto da lontano, Lafcadio Hearn, mi ha mostrato la via. E ancora prima di lui, la donna che gli ha dato le parole per comprenderla: sua moglie Setsu. Fu lei a consegnargli le chiavi, a tradurgli non solo la lingua, ma l’anima stessa di un paese dove l'invisibile ha un peso, una volontà e una voce.

Mentre l’Occidente ha passato secoli a erigere muri per separare i vivi dai morti, il sacro dal profano, qui si costruiscono ponti. Un torii non è un confine, ma un invito; un portale che non separa, ma indica una soglia dove la natura stessa si fa più carica, pregna di una presenza che precede l’uomo e che gli sopravviverà. Con il tempo, si impara a leggerli, questi luoghi: un albero secolare avvolto in una corda sacra, un roccia dalla forma anomala, la curva di un sentiero dove la luce del giorno sembra inspiegabilmente affievolirsi. Non sono scenari, ma attori. In essi dimorano i kami, entità che non rispondono a un metro morale umano, non sono né buone né cattive. Semplicemente, sono. Potenti, a volte indifferenti, a volte capricciose, la cui esistenza si intreccia alla nostra in un dialogo muto fatto di offerte, preghiere e, sopra ogni cosa, rispetto.

Eppure, la membrana si assottiglia ulteriormente quando ci si allontana dalla maestà dei kami per avvicinarsi al focolare, alla passioni e ai dolori umani. Qui, ogni cosa possiede il potenziale di un’anima. Un vecchio ombrello dimenticato, un sandalo rotto, un kimono riposto per generazioni possono risvegliarsi dopo cento anni. Non per incutere timore, ma per reclamare un’esistenza, a volte con la grazia di un ringraziamento, altra con la stizza di un dispetto bonario. Allo stesso modo, nessuna emozione intensa muore davvero. Lascia un’eco, un’impronta energetica che si aggrappa ai luoghi e alle persone. Un rancore covato troppo a lungo può sopravvivere al cuore che lo ha nutrito, diventando uno yūrei, uno spettro legato non tanto alla morte, quanto a un’ingiustizia che ancora grida, a un compito rimasto in sospeso nel silenzio.

Vivere così non significa vivere nella paura. Significa, piuttosto, abitare una profonda cautela. Una consapevolezza che invita a camminare con passo leggero, a parlare a bassa voce nei luoghi antichi, a non disturbare la quiete di uno specchio d’acqua al tramonto, perché non si può mai sapere chi, o cosa, stia ascoltando dall’altra parte. La logica moderna può tentare di archiviare tutto questo come superstizione, di sezionarlo e neutralizzarlo. Eppure, ancora oggi, in quell’ora magica e indefinita del crepuscolo, quella che qui chiamiamo tasogare-doki e che a me piace tradurre come “l’ora di chi sei tu?”, quando i contorni delle cose si sfaldano e un volto amico può apparire per un istante quello di un estraneo, si avverte un brivido atavico. È il momento esatto in cui il velo si fa così sottile da poterci guardare attraverso. E ci si ricorda, con un fremito che non è di freddo, di non essere mai, davvero, soli.



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La preghiera sbagliataAncora vibra in me il suo mormorio, eco nel crepuscolo del mio santuario. Non era preghiera, ma ve...
30/09/2025

La preghiera sbagliata

Ancora vibra in me il suo mormorio, eco nel crepuscolo del mio santuario. Non era preghiera, ma veleno distillato dal cuore del dolore. Non implorò giustizia, né mendicò conforto. Mi impose di trasformarla in un demone. Dinanzi a una volontà tanto forte nella sua disperazione, forgiata dal fuoco del tradimento, cosa può un dio, se non chinare il capo? Io, nume tutelare di queste antiche terre, non giudico le passioni dell’animo umano; ne riconosco la potenza. Le svelai dunque un oracolo, non una benedizione: un sentiero che esigeva una metamorfosi nelle acque gelide del fiume Uji, sotta la fiamma di tre candele innestate su una corona di ferro, presagio delle corna che avrebbero segnato la sua nuova, spaventosa natura. Ella sigillò il patto. E la sua disperazione si fece mito.

La memoria di quella notte, della sua terrificante devozione, ha attraversato i secoli. Ma come ogni potente memoria, è stata profanata, svuotata, ridotta a formula volgare per anime rancorose, un rito che oggi chiamano “ushi no koku mairi". È un’eco sbiadita del suo sacrificio, quella che rivive in coloro che, accecati da un odio che non ha la sua statura, osano profanare il sacro. Si muovono nel cuore della notte, nell’ora del bue, quando il velo tra i mondi si assottiglia e le ombre si fanno tangibili. Indossano lo shiroshōzoku, il sudario bianco dei defunti, per segnare la propria morte al mondo dei mortali e la propria nascita a quello degli spiriti vendicativi.

Con il volto svelato solo dalla luce spettrale delle candele che incoronano il loro capo, profanano il goshinboku, il mio corpo, la mia estensione in questo mondo. Li, dove i devoti sussurrano preghiere e gratitudine, essi portano una wara ningyō, un feticcio di paglia che imprigiona un frammento dell’odiato nemico. Armati di martello e lunghi chiodi, conficcano il rancore nella mia carne lignea, illudendosi di poter trasfondere il proprio veleno nell’anima della vittima. Per sette notti ripetono questo sacrilegio, avvinti da un unico, ferreo tabù: nessuno deve vederli. La scoperta non solo annullerebbe il sortilegio, ma rovescerebbe la furia del male su colui che ha osato evocarlo.

Che desolante ironia. Usano il mio santuario, luogo di purezza, come teatro della loro viltà, ignari della stridente contraddizione che li anima. Non implorano il mio nome: lo scimmiottano. Lo sfidano, trascinando il kegare, fino sulla mia soglia. Ma i tempi sono mutati. Oggi i loro gesti non offendono più soltanto i kami. La legge degli uomini, meticolosa e cieca al sacro, ora li osserva. Quelli che essi credono essere una cerimonia arcana, per il mondo moderno è solo una sequela di reati. Si illudono di maneggiare forze cosmiche, e non si accorgono di inciampare nelle più banali trappole umane. Dimenticano che la punizione di un dio, a differenza di un codice di leggi, non ha bisogno di essere scritta per essere eterna. E la sua creatività, nel punire, è sconfinata.

Questo brano trova vita tra le pieghe più oscure del folklore giapponese. In particolare, nasce da una rilettura del rito conosciuto come “Ushi no koku mairi” e dalla sua origine archetipa: la leggenda di Hashihime di Uji. La voce narrante del kami è una mia personale interpretazione immaginaria del nume che, secondo il mito, concesse alla donna disperata il potere di trasformarsi in un demone per compiere la sua vendetta. Nel testo ho tentato di fondere la ricerca storica con la finzione, cercando di dare voce al silenzio enigmatico che avvolge le origini di uno dei più celebri e inquietanti rituali del Giappone.



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Sotto un cielo di filiChiunque si trovi a passeggiare per le strade di una città giapponese, grande o piccola che sia, n...
28/09/2025

Sotto un cielo di fili

Chiunque si trovi a passeggiare per le strade di una città giapponese, grande o piccola che sia, non può fare a meno di notare il paesaggio aereo: un’intricata, quasi artistica, giungla di cavi elettrici che si snoda tra pali di cemento, sovrastando case, negozi e costeggiando templi e santuari. Sorge spontaneo chiedersi perché, in una nazione così tecnologicamente “avanzata” e attenta all’estetica, questa caratteristica di così forte impatto visivo sia ancora la norma. La risposta, tuttavia, non è semplice come si potrebbe pensare e affonda le sue radici nella storia, nell’economia e nelle necessità di una Paese risorto dalle proprie ceneri.

Il motivo principale per cui gran parte dei cavi in Giappone si trova ancora su pali è legato a fattori storici ed economici, piuttosto che a una presunta impossibilità tecnica dovuta ai terremoti. Dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone dovette far fronte all’enorme e urgente necessità di ricostruire rapidamente le infrastrutture essenziali per alimentare il suo “miracolo economico”. In quel contesto, l’installazione di pali in legno e cemento e la semplice posa aerea dei cavi in aria rappresentavano di gran lunga la soluzione più veloce ed economica rispetto ai complessi e costosi lavori di scavo richiesti per una rete sotterranea. Fu una scelta pragmatica, dettata dalla necessità di ripartire il prima possibile con risorse limitate, un simbolo della velocità con cui la nazione si stava rimettendo in piedi.

Oggi, il problema non è più la ricostruzione, ma i costi proibitivi per rimediare a quella scelta storica. L’interramento delle reti elettriche esistenti e un’impresa colossale. Secondo i dati del Ministero del Territorio, delle Infrastrutture, dei Trasporti e del Turismo, il costo supererebbe i 3000 euro per ogni singolo metro di cavo interrato. Ciò richiede scavi estesi in aree densamente popolate, lo spostamento di altri sottoservizi (come le tubature di acqua e gas) e complesse opere di raccordo. A complicare ulteriormente la situazione contribuisce la struttura del mercato elettrico giapponese. Non esiste un operatore unico nazionale, ma diverse compagnie elettriche private che operano su base regionale (come TEPCO a Tōkyō o KEPKO a Ōsaka). La mancanza di un'unica entità coordinatrice e la necessità per ogni azienda di sostenere questi ingenti costi rendono il processo di interramento chiamato in giapponese mu-denchū-ka (無電柱化), estremamente lento e frammentato.

È qui che crolla il mito secondo cui i terremoti impedirebbero la costruzione di infrastrutture sotterranee. Basti pensare che gran parte della rete del gas, così come anche parte di quella delle telecomunicazioni, è interrata. Un esempio è fornito da NTT, uno dei giganti delle telecomunicazioni, che possiede una vasta rete di gallerie sotterranee, le kyōdōkō (共同溝). Questi tunnel, larghi e alti diversi metri, non solo ospitano chilometri di cavi di fibra ottica in un ambiente climatizzato, ma sono progettati per resistere a scosse sismiche shindo 7. Questo dimostra che la tecnologia per costruire infrastrutture interrate in sicurezza esiste ed è ampiamente utilizzata; la questione per la rete elettrica e puramente economica e logistica.

Il governo giapponese, tuttavia, sta spingendo con forza per l’interramento dei cavi, tanto da aver approvato una legge nel 2016 per promuovere attivamente questo processo. Le motivazioni non sono solo estetiche, ma soprattutto legate anche alla resilienza e alla sicurezza. Anche se le riparazioni di cavi aerei sono piu semplice e rapide capita spesso che dopo eventi sismici importanti e tifoni particolarmente forti, che i pali e i cavi caduti rappresentino un grave pericolo, causano interruzioni di corrente prolungate e, cosa ancora più critica, ostruiscono le strade, bloccando il passaggio dei mezzi di soccorso e ostacolando le operazioni di evacuazione.

La direzione per il futuro è già tracciata. Nelle nuove aree urbane e nei quartieri di recente sviluppo, l’infrastruttura elettrica e le altre utenze vengono sistematicamente realizzate sotto terra fin dall'inizio. La predominanza dei cavi aerei, quindi, non è una conseguenza inevitabile della geografia sismica del Giappone, ma una complessa eredità storica, un compromesso dettato dalla necessità economiche del dopoguerra. Il cammino verso un Giappone senza pali elettrici aerei sarà ancora lungo e costoso, ma la meta è chiara: città più belle, sicure e resilienti.

La legge a cui si fa riferimento è la "Legge sulla Promozione della Rimozione dei Pali Elettrici" (無電柱化の推進に関する法律, Mudenchū-ka no Suishin ni Kansuru Hōritsu). Il testo ufficiale (in giapponese) è consultabile sul portale e-Gov, il sito ufficiale della legislazione giapponese, al seguente link: https://laws.e-gov.go.jp/law/428AC1000000112

Note
La scala shindo (震度) è il sistema giapponese per la misurazione dell'intensità di un terremoto in un punto specifico della superficie terrestre. A differenza della magnitudo (es. scala Richter), che quantifica l’energia rilasciata all’epicentro, la scala shindo descrive l’effetto dello scuotimento percepito in un dato luogo.

Si articola in dieci livelli, da 0 (impercettibile) a 7 (il più forte), con i gradi 5 e 6 ulteriormente suddivisi in “debole” (弱, jaku) e “forte” (強, kyō). Basandosi su una capillare rete di sismografi, questa scala è estremamente efficace per la gestione delle emergenze, poiché comunica l’impatto reale del sisma in una determinata area, permettendo un intervento mirato dei soccorsi.

È fondamentale sottolineare che non esiste una corrispondenza diretta con la magnitudo. Il terremoto del Tōhoku del 2011 (magnitudo 9.1), ad esempio, raggiunse shindo 7 solo in un’area ristretta della prefettura di Miyagi, mentre su vaste zone l'intensità registrata fu pari o inferiore a shindo 6+.

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