Yoka Yoka Nippon

Yoka Yoka Nippon Scopri il Giappone a 360°! Che tu sia un esperto o un semplice curioso, qui troverai uno spazio dedicato alla cultura giapponese in tutte le sue sfaccettature.

Storia, cultura, mondo del lavoro e tradizioni. La mia passione per la storia e la cultura giapponese, nata ai tempi del liceo, mi ha portato a iscrivermi al corso di laurea in Lingue e Istituzioni Economico Giuridiche dell’Asia Orientale presso Ca’ Foscari di Venezia. L’opportunità di studiare in Giappone ha consolidato il mio interesse, sfociando in una tesi sulla legislazione marittima giappone

se. Dopo un’esperienza lavorativa nel settore editoriale, ho colto l’occasione di trasferirmi in Giappone per lavorare nel settore navale. Dal 2013 vivo e lavoro qui, continuando a approfondire lo studio dello Shintoismo e del Buddismo giapponesi. Nel tempo libero, scrivo articoli per divulgare queste affascinanti culture.

Non colpa, ma macchia: l’estetica del male in GiapponeQualche tempo fa, un lettore mi ha posto una domanda tanto sinteti...
05/12/2025

Non colpa, ma macchia: l’estetica del male in Giappone

Qualche tempo fa, un lettore mi ha posto una domanda tanto sintetica quanto vertiginosa: come viene concepito il “male” in Giappone? Non mi chiedeva della cosmologia dell'aldilà, né di inferni o paradisi, ma dell’essenza stessa del concetto. È una domanda fondamentale, la cui risposta rivela una frattura profonda rispetto al pensiero occidentale a cui siamo abituati.

Per comprendere il “male” in Giappone, bisogna operare un distacco dalle categorie dualistiche e morali tipiche del pensiero abramitico. Se la tradizione occidentale ha spesso personificato il male in un'entità metafisica agente (Satana) o in una colpa indelebile (il peccato originale), l’approccio giapponese, specialmente quello radicato nello Shintō, si muove su coordinate radicalmente differenti.

La visione autoctona giapponese, prima della massiccia influenza continentale, non articola la sua cosmologia sul classico asse bene-male, bensì sull’opposizione tra la purezza (kiyoshi) e impurità (kegare). Il “male” primigenio non è un atto morale deliberato, quanto uno stato di “contaminazione”. Il kegare è associato a eventi naturali ma disgregativi coma la morte, la malattia, il sangue (soprattutto quello mestruale e del parto). Non è un “peccato” commesso, ma una condizione che interrompe l’armonia vitale e allontana dalla benevolenza dei kami. Di conseguenza, la risposta al kegare non è il pentimento o l’espiazione morale, ma la purificazione attraverso rituali come il misogi.

Anche il concetto di tsumi, spesso tradotto semplicisticamente come “peccato”, tradisce questa complessità. Nell’antica ritualistica Shintō, come l’ “ōharae” (il rito di grande purificazione), il termine tsumi include sì le trasgressioni umane (come l’adulterio), ma anche calamità naturali (disastri, raccolti scarsi) e contaminazioni (come la lebbra). Tsumi è, in senso lato, tutto ciò che disturba l’ordine cosmico e sociale, che sia intenzionale o meno.

Questa visione è cristallizzata nel mito della discesa di Izanagi nello yomi, il regno dei morti. Lo yomi non è un “inferno” di punizione etica; è un luogo di decadimento e contaminazione radicale. Izanagi fugge non perché Izanami sia diventata “malvagia” in senso morale, ma perché è diventata kegare, impura, perché corrotta dalla morte. Significativamente, è proprio dal rituale di purificazione che Izanagi compie al suo ritorno (il misogi) che nascono molti dei principali kami, ma anche i magatsuhi no kami, ovvero i kami delle calamità e dei disastri. Il “male”, in questa ottica, è concepito quasi come il risultato inevitabile del processo di separazione tra la vita (purezza) e la morte (impurità).

Con l’arrivo del Buddismo in Giappone, questo quadro si arricchisce di una dimensione introspettiva. Il Buddismo introduce una concezione più psicologica e interiorizzata del male, identificandolo con i bonnō, le passioni mondane, gli attaccamenti, l’ignoranza e i desideri considerati causa di sofferenza. Il “male” qui non è un'entità esterna da purificare, ma una condizione interna della mente (avidità, rabbia, delusione) da superare attraverso la disciplina e l’illuminazione. La figura di Mara, talvolta assimilata ad un “demonio” tentatore, non è un avversario cosmico di Dio, ma la personificazione di questi stessi ostacoli interni al processo di liberazione.

Studiosi che hanno profondamente analizzato queste dinamiche, come Massimo Raveri, hanno messo in luce come il pensiero giapponese, nel suo sincretismo, tenda a “gestire” il negativo e il caotico piuttosto che a espellerlo seguendo una dualità radicale. Il negativo non viene annichilito, ma viene spesso riassorbito, pacificato e trasformato attraverso il rito. Allo stesso modo, l’antropologa Carmen Blacker, nei sui studi sul folklore e lo sciamanesimo giapponese, riprendendo Mary Douglas, ha evidenziato come il pericolo e il “male” siano spesso associati a ciò che è "fuori posto”: come spiriti inquieti che non sono stati propriamente pacificati, o forze esterne che irrompono senza controllo.

In conclusione, il concetto di male in Giappone non si presenta come una forza monolitica e assoluta. È piuttosto una costellazione complessa di concetti: la contaminazione che richiede purificazione, la trasgressione o la calamita che rompe l’armonia, ed è l’illusione interna che allontana dell’illuminazione. Più che un nemico da annientare, è più una disarmonia da riequilibrare, una contaminazione da detergere o un’illusione da trascendere.

Io sono Yoka Yoka Nippon e qui ti racconto il Giappone in tutte le sue sfumature. Se questi temi ti appassionano, segui la pagina e il nostro blog, Ombrelli Rotti.

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Note

Per chi volesse approfondire le origini e i dettagli storici citati nel post, ecco i riferimenti ai testi e agli archivi giapponesi consultati:

1 Il mito di Izanagi e Izanami e la nascita dei Magatsuhi no kami. Per chi non possiede il testo e volesse consultare il testo originale e tradizioni accademiche in lingua inglese, il sito dell'università di Berkeley e molto utile:
https://jhti.studentorg.berkeley.edu/

2 Concetto di Tsumi e l’Ōharae. Una lettura che ho trovato molto interessante e il libro “Norito: A Translation of the Ancient Japanese Ritual Prayers” di Philippi. Trovate la versione aggiornata in inglese per Kindle.

3 Massimo Raveri, “Il pensiero classico giapponese”. All’interno del libro i capitoli dedicati allo shintō antico e all’arrivo del buddismo offrono una preziosa disamina della dialettica tra kegare e hare.

4 Carmen Blacker e Mary Douglas. Dell Blacker consiglio “The Catalpa Bow: Essays on Shamanistic Practices in Japan”. Aiuta a capire, passatemi il termine, il “lato oscuro” e magico della spiritualità giapponese.

Mary Douglas. Non ha bisogno di presentazioni. “Purity and Danger”.

Premetto che la bibliografia e i testi citati rappresentano una selezione personale, maturata nel corso del mio percorso di studi (ci sono anche testi in lingua giapponese ma non li ho elencati perché non hanno una traduzione) e di ricerca. Dato che il panorama degli studi sul Giappone è vasto e variegato, altri accademici o appassionati potrebbero suggerire percorsi di lettura o riferimenti differenti. Considerate quindi questi titoli come un punto di partenza per l'approfondimento, piuttosto che come un elenco esaustivo e dogmatico.

Il limite della pazienzaVivendo e lavorando in Giappone, ho imparato che le parole sono solo la punta dell’iceberg della...
27/11/2025

Il limite della pazienza

Vivendo e lavorando in Giappone, ho imparato che le parole sono solo la punta dell’iceberg della comunicazione. Per capire davvero questo paese non basta tradurre il vocabolario, bisogna decifrare la cultura. Proprio come quando scrivo di storia, folklore e società giapponese, cerco sempre di andare oltre lo stereotipo: tuttavia, pochi concetti sono così fondamentali, e così spesso fraintesi, come i limiti della pazienza umana.

Chiunque passi molto tempo qui si scontra inevitabilmente con il gaman, l’arte della sopportazione stoica. La società giapponese ha elevato l’autocontrollo a virtù cardinale, visibile nel silenzio composto di un treno affollato o nelle riunioni di lavoro dove il dissenso è impercettibile ma presente. Tutto ruota intorno al non disturbare l’armonia. Ma cosa succede quando la pazienza si esaurisce? Esiste un proverbio che funge da monito sociale: “Hotoke no kao mo sando made” ( 仏の顔も三度まで), letteralemte: “Anche il volto del Buddha, solo fino a tre volte”.

Analizziamolo. Hotoke (仏) è il simbolo della compassione infinita e della serenità, fuso da secoli di sincretismo con la spiritualità nativa dei kami. È l'individuo che, per definizione, non dovrebbe mai arrabbiarsi. Il suo volto, kao (顔), è l’immagine della tranquillità. Eppure, il proverbio pone un limite: sando made (三度まで), “fino a tre volte”. Il numero “tre” non è un semplice conteggio letterale; è una metafora culturale per intendere "ripetutamente", “oltre ogni limite del ragionevole”. Rappresenta una soglia di tolleranza.

Il proverbio, quindi, ci avverte: non importa quanto una persona sia calma o paziente; se continui a provocarla, alla fine anche lei esploderà. È l’equivalente del nostro “la pazienza ha un limite”, ma con un'immagine molto più potente.

Questo concetto è un tassello che ci aiuta a comprendere più in profondità il concetto di armonia sociale giapponese, dove il gruppo viene prima dell’individuo. Per preservare l’armonia, ogni individuo pratica il gaman: sopporta e tace, a volte incassando anche frustrazioni senza lamentarsi. Ciò è intrinsecamente collegato alla dicotomia tra “honne”, i veri sentimenti privati, e “tatemae”, la “facciata” pubblica (trovate un articolo su queste pagine). Il “volto del Buddha” è il tatemae perfetto: il collega che sorride e ti dice “daijōbu” (“va bene”) anche se gli stai creando un problema. Ma attenzione: mentre il tatemae sorride, l’honne sta tenendo il conto. Il proverbio è il sistema di allarme che avvisa che il tatemae sta per crollare e l’honne sta per emergere, spesso in modo esplosivo proprio perché represso a lungo. Per uno straniero che non sa “leggere l’aria”, questa esplosione può sembrare improvvisa e immotivata. Ma per un giapponese, rappresenta il terzo volto del Buddha.

La storia giapponese incarna perfettamente questo dramma nella vicenda dei 47 rōnin (l’incidente di Akō), all’inizio del XVIII secolo. Il giovane daimyō Asano Naganori doveva essere istruito al protocollo di corte dal potente e avido funzionario Kira Yoshinaka, che si aspettava una lauta “donazione”. Asano rifiutò. Kira iniziò allora a umiliarlo pubblicamente. Questa fu la “prima volta” e, Asano, consapevole di essere alla corte dello shōgun, praticando il gaman mantenne il suo “volto del Buddha”.

Kira continuo con provocazioni più crudeli: “seconda volta”. Asano sopportò ancora. Alla terza provocazione, un insulto intollerabile in cui Kira lo definì un contadino, “il volto del Buddha” di Asano si spezzò. In preda alla rabbia, estrasse la spada corta (un atto punibile con la morte) e attaccò Kira, ferendolo prima di essere fermato. La pazienza era finita.

Le conseguenze furono terribili: Asano fu condannato al seppuku quello stesso giorno. La sua casata fu sciolta e i suoi samurai divennero rōnin. La storia di Asano, che mise in moto la vendetta dei suoi 47 seguaci, insegna che la pazienza, anche quella imposta dall’onore, ha un punto di rottura irreversibile.

Vivo questa lezione nel mio lavoro gestendo progetti di costruzione, spesso terreno di scontro tra la mentalità giapponese, dominata dal consenso, e quella occidentale, focalizzata su rigide procedure. Immaginate una riunione su uno standard di sicurezza occidentale che un appaltatore giapponese ritiene eccessivo. L’appaltatore non dirà mai “È inutile”. Mantenendo il “volto di Buddha”, dirà “Capisco” (il suo tatemae). È la “prima volta”.

Se la settimana successiva la stessa richiesta viene ripetuta senza tener conto del loro feedback non verbale, annuiranno di nuovo, ma con un sorriso tirato (“seconda volta”).
Se accade una “terza volta”, la reazione diventa glaciale. L’appaltatore non esploderà in pubblico, ma il giorno dopo potreste ricevere un e-mail formale che elenca “problemi imprevisti” che causeranno ritardi. Il “volto del Buddha” si è rotto. Per la controparte occidentale, la reazione è inspiegabile; per chi vive qui, era un disastro annunciato, frutto del non aver saputo "leggere l’aria”.

In conclusione, Hotoke no kao mo sando made è molto più di un proverbio: è una profonda verità psicologica e una regola sociale. È il contrappeso necessario in una cultura che valorizza immensamente l'autocontrollo. Ci insegna che la pazienza non è infinita, ma una risorsa preziosa, una forma di cortesia da non abusare. Ci ricorda che dietro ogni volto sereno c'è un essere umano che sta contando, e che la vera armonia si basa sul rispetto reciproco di quei limiti non detti.



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Anche le zampe di un gattoC'è un momento preciso, quasi impercettibile, in cui ti rendi conto di essere “dentro” un cult...
14/11/2025

Anche le zampe di un gatto

C'è un momento preciso, quasi impercettibile, in cui ti rendi conto di essere “dentro” un cultura”. Non si tratta di padroneggiare la lingua o di conoscere l’etichetta, ma di sentire un'emozione e vederla tradotta, senza filtri, in un’immagine che non appartiene alla tua lingua madre. Per me, uno di questi momenti è arrivato nel mezzo di una kōtei kaigi, una nostra riunione settimanale fissa, in un martedì che sembrava identico a tutti gli altri. In qualità di manager, stavo scorrendo mentalmente la lista infinita di scadenze, ispezioni e documenti tecnici da preparare. È stato allora che il collega di un’altra sezione, con quel misto di speranza e rassegnazione tipico di chi sta per chiedere un favore, ha domandato se il mio team potesse farsi carico di un piccolo progetto extra. Ho alzato lo sguardo dal mio calendario, ho pensato ai miei ragazzi già al limite e, prima che il mio cervello “italiano” potesse formulare un “impossibile, siamo al collasso”, dalla mia bocca e uscita, con un sospiro, la frase: “Isogashi-sugite, neko no te mo karitai yo”.

Un attimo di silenzio, poi il nostro General Manager è scoppiato a ridere. Dandomi una pacca sulla spalla, ha detto: “Savini-kun, sei più giapponese di un giapponese”.

La frase che mi era venuta così naturalmente significa letteralmente: “ Sono così impegnato che vorrei prendere in prestito anche le zampe di una gatto”.

Questo non è semplicemente un modo di dire; è una piccola, brillante perla della disperazione lavorativa. È l’apice del “sono sommerso di lavoro”. Perché proprio un gatto? Perché l’efficacia di questo proverbio non risiede solo nell’esprimere la frenesia, ma nell’auto ironia di chi la vive. Il gatto è l’antitesi della produttività. È il simbolo vivente nell'indifferenza più assoluta, un campione nell’arte di ignorare le scadenze di noi umani per dedicarsi a un lunghissimo sonno. L’idea di essere così disperati da guardare a quel batuffolo di pelo, le cui uniche “competenze” sono rovesciare penne e camminare sulla tastiera, e pensare “forse quelle zampette potrebbe aiutarmi a finire questa relazione” descrive perfettamente il momento in cui ci si sente con l’acqua alla gola. È un immagine così assurda che non può fare che sorridere, ed è proprio in quel sorriso che si trova un po' di sollievo.

Ma da dove salta fuori questa immagine? Non è un'invenzione moderna da stress d’ufficio. Come molte delle espressioni più radicate, questa frase ha fatto la sua prima comparsa ufficiale nel Giappone di periodo Edo, un’epoca di crescita urbana e commercio frenetico. La prima attestazione scritta si trova in un’opera di Chikamatsu Monzaemon, considerato lo Shakespeare giapponese. Nella sua opera per il jōruri (ho sentito per la prima volta questo detto proprio durante una rappresentazione di questo spettacolo), il teatro dei burattini, dal titolo “Kan hasshū tsunagi-uma”. Descrivendo un periodo di festa e preparativi incredibilmente concitato, Chikamatsu scrive: “Da cime a fondo è tutto un festeggiare, una frenesia tale da voler prendere in prestito anche le zampe di un gatto.” È un aneddoto storico affascinante che ci dice che già 300 anni fa, i mercanti si sentivano esattamente come un manager moderno che guarda il suo calendario su Outlook. La disperazione da lavoro è, a quanto pare, un’esperienza umana universale.

Tornando a quella sala riunioni, la risata del mio General Manager non era solo un complimento sulla mia padronanza della lingua. Era il riconoscimento di qualcosa di più profondo. In un ambiente professionale giapponese, la precisione è tutto. Avrei potuto usare altri termini, ma scegliendo istintivamente quel detto, ho usato uno strumento culturale condiviso. Ho espresso la mia pressione lavorativa non con un dato, ma con un’immagine ironica. È questo, forse, il vero significato di “integrazione”: non solo vivere e lavorare in posto, ma iniziare a sognare e, a quanto pare, a lamentarsi, usando le stesse metafore così poetiche e allo stesso tempo così assurde di chi sti sta accanto. E in quel momento, mentre il mio collega annuiva comprensivo, ritirando la sua richiesta, mi sono sentito, davvero, una minuscola parte di un grande ingranaggio.



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I fiori di EdoRiprendendo il filo del mio precedente articolo sulla “Campagna autunnale di prevenzione degli incendi”, a...
12/11/2025

I fiori di Edo

Riprendendo il filo del mio precedente articolo sulla “Campagna autunnale di prevenzione degli incendi”, abbiamo visto come ancora oggi, nel Giappone moderno, la comunità si mobiliti attivamente per scongiurare il pericolo rappresentato dal fuoco. Abbiamo esplorato il suono secco degli hyōshigi, i bastoni di legno usati durante le ronde notturne, e abbiamo compreso come questa tradizione sia un'eredità diretta di una necessità storica, forgiata nel terrore degli incendi che regolarmente devastavano Edo. Quell’articolo si concentrava sulla prevenzione, una pratica nata da una paura collettiva. Ma per comprendere appieno l’animo giapponese, e in particolare quello della vecchio Edo, dobbiamo esplorare un’altra faccia delle medaglia, racchiusa in celebre detto che, a un orecchio moderno, suona quasi f***e e contraddittorio: “Gli incendi e le risse sono i fiori di Edo”.

Come può un disastro come un incendio, che abbiamo visto essere così temuto, essere paragonato a un “fiore”? E come può una rissa, un atto di violenza e disordine, essere messa sullo stesso piano? Questa frase non è un'ode alla distruzione, ma un distillato purissimo dello spirito dell’epoca. l’essenza del vero Edokko, abitante nativo della capitale shogunale. È una finestra su una mentalità e un’estetica oggi quasi scomparse, in cui il pericolo e la vitalità si fondevano in un unico, grande spettacolo. Per chi, come me, è appassionato di cultura giapponese, capire questa frase significa capire il cuore pulsante dell’uomo comune del periodo Edo.

Per prima cosa, analizziamo il primo “fiore”, il fuoco (kaji). Come abbiamo già accennato, Edo era un incubo infiammabile. Era una delle città più densamente popolate al mondo, costruita quasi interamente con i “tre veleni” della propagazione del fuoco: legno, carta e paglia. Le case, chiamate nagaya (case lunghe), erano strutture di legno addossate le une alle altre, separate da vicoli strettissimi. A peggiorare la situazione, in inverno soffiava il karakaze, un vento secco e gelido proveniente dal nord-ovest, capace di trasformare un singola scintilla, sfuggita da un braciere o a una lanterna, in un inferno ruggente in pochi minuti. Gli incendi, non erano un'eventualità: erano una certezza stagionale, un evento quasi rituale. Interi quartieri della città venivano rasi al suolo e ricostruiti con una frequenza sconcertante. Il Grande incendio del Meireki, che distrusse quasi il 70% della città, fu l’esempio più tragico di questa vulnerabilità, tanto da portare a una completa riprogettazione urbana che includeva la creazione di spazi aperti e barriere tagliafuoco. Ma la minaccia rimaneva.

Se il fuoco era così terrificante, perché il “fiore”? Il “fiore”, lo “spettacolo”, non era la distruzione in sé, ma la risposta umana ad essa: l'attività degli hikeshi, i pompieri. Quando suonavano le campane di allarme, la popolazione non si limitava a fuggire; si preparava allo spettacolo. I pompieri di Edo non erano come quelli moderni. Con i mezzi dell’epoca, spegnere un incendio era quasi impossibile. La loro tecnica principale era la cosiddetta hakai shōbō, la “lotta antincendio distruttiva”: identificavano la direzione del vento e demolivano rapidamente le case sulla traiettoria delle fiamme per creare uno spazio tagliafuoco. Il loro obiettivo non era salvare la casa in fiamme, ma sacrificare le case vicine per salvare il quartiere.

Immaginate la scena: di notte, nel bagliore arancione delle fiamme, uomini agilissimi e spesso con il corpo ricoperto di tatuaggi (a tema acquatico come carpe, draghi o talismani contro il fuoco) si arrampicavano sui tetti, armati di lunghi uncini chiamati tobi-guchi per abbattere travi e pareti. Il tutto mentre uno di loro, il matoi-mochi, piantava coraggiosamente il matoi, lo stendardo della brigata, sul tetto della casa più vicina alle fiamme per segnalare il punto di intervento e infondere coraggio. Era un atto di coraggio estremo, un balletto pericoloso e “splendido”. Questo, per i cittadini di Edo, era il primo “fiore”. 

I frequenti incendi e il temperamento focoso degli hikeshi e degli abitanti di Edo non erano considerati solo dei problemi, ma erano le caratteristiche distintive che definivano l'identità e il ritmo pulsante della città. Era un modo quasi orgoglioso per dire:” Siamo di Edo, la nostra vita è intensa, rumorosa e spettacolare”.

Ma il detto menziona due fiori. Il secondo è la rissa, kenka. E non è un caso che sia messo accanto al fuoco. Ma è una storia che vi racconterò un’altra volta.

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L’antica voce contro il fuocoL’immagine allegata è un poster affisso nel mio ufficio che annuncia la “Campagna autunnale...
09/11/2025

L’antica voce contro il fuoco

L’immagine allegata è un poster affisso nel mio ufficio che annuncia la “Campagna autunnale di prevenzione degli incendi” (秋の火災予防運動, Aki no kasai yobō undō), un evento che quest’anno si svolge dal 9 al 15 novembre.

Questa campagna di sensibilizzazione è un appuntamento fisso in Giappone, e il poster stesso ne spiega il significato. Con l’arrivo dell’autunno, l’aria diventa molto secca. Al contempo, aumenta l’uso di stufe per riscaldare gli ambienti. È una combinazione che aumenta drasticamente il rischio di incendi.

Proprio per questo, in molte città sopravvive una tradizione affascinante: le ronde serali per il “Hi no Yōjin" (火の用心), un’espressione che significa letteralmente “attenti al fuoco!”. Questa usanze non è folklore, ma una misura di sicurezza nata da una necessità storica risalente al periodo Edo. All’epoca, la capitale era costruita quasi interamente in legno, carta di riso, paglia e bambù. Gli incendi, amaramente noti come “i fiori di Edo”, erano così frequenti e distruttivi che plasmano la vita (e la morte) dei cittadini. Anche un piccolo incendio, se alimentato dal vento, poteva trasformarsi in un disastro e distruggere interi quartieri in poche ore.

A cementare questa paura nel profondo della coscienza collettiva fu un evento storico terribile: il grande incendio del Meireki del 1657. La leggenda narra che tutto iniziò quando un monaco tentò di bruciare un furisode (il kimono dalle maniche lunghe) ritenuto maledetto. Il kimono era appartenuto a tre diverse ragazze, morte tutte misteriosamente prima di poterlo indossare. Quando il monaco mise il kimono sulla pira, una folata di vento improvvisa sollevo il kimono in fiamme e lo scagliò contro il tempio. In tre giorni, l’incendio distrusse quasi il 70% della città e uccise oltre 100.000 persone.

Questo disastro rese la prevenzione per gli incendi la priorità assoluta per lo shogunato e per i cittadini. La vigilanza della comunità divenne, letteralmente, una questione di vita o di morte.

È in questo contesto che nacquero le ronde. Sebbene ci fossero già i pompieri professionisti, gli hikeshi (famosi per essere calorosi, rudi e, secondo una rappresentazione del kabuki, per aver ingaggiato una rissa leggendaria con un gruppo di lottatori di sumō), la vera prevenzione era affidata alla gente comune. La sera, i volontari di quartiere pattugliavano le strade. Per farsi sentire, usavano uno strumento chiamato hyōshigi (拍子木): due semplici bastoni di legno, identici a quelli usati nelle rappresentazioni teatrali o in guerra per dare segnali. Battendoli insieme, producono un suono “clac-clac!” secco e acuto, capace di tagliare il silenzio della notte e penetrare nelle case.

Ancora oggi durante questo periodo dell’anno, non è raro sentire in tarda serata questo suono ritmico e secco riecheggiare tra le strade di quartiere. Sono i volontari delle comunità locali, spesso membri delle chōnaikai (le associazioni di quartiere), che pattugliano le zone. Battendo ritmicamente lo hyōshigi, camminano tra le vie ripetendo ad alta voce la frase: “hi no yōjin!”, spesso accompagnata da “Macchi ippon, kaji no moto”, letteralmente “un solo fiammifero è l'origine di un incendio”. Questa usanza serve a ricordare a tutti i residenti di controllare di aver spento i fornelli, le stufe e qualsiasi altra potenziale fonte di pericolo prima di andare a dormire.

Questa antica tradizione oggi si affianca a misure di prevenzione moderne. Lo stesso poster, ad esempio, ricorda ai cittadini di controllare il corretto funzionamento degli allarmi antincendio domestici, ora obbligatori, e di verificare lo stato delle batterie dei sensori. La prevenzione non si ferma alle abitazioni private: anche le aziende e gli uffici, sono tenuti a partecipare attivamente. Durante queste campagne di sensibilizzazione, le aziende oltre ad intensificare i controlli sui loro sistemi antincendio, organizzano esercitazioni per insegnare ai dipendenti il corretto uso degli estintori.

In questo modo, il Giappone unisce l’antica saggezza comunitaria alla tecnologia e alle normative moderne per proteggere vite e le proprietà. Come riassume bene lo slogan del manifesto: “ Anche nei giorni in cui sei di fretta, fermati, spegni il fuoco, preparati!”.

Note

* I fiori di Edo: questo soprannome deriva dal detto “ Gli incendi e le risse sono i fiori di Edo." Un altra storia che vi racconterò in un altro post.

* Furisode: è un tipo specifico di kimono, caratterizzato da maniche molto lunghe che toccano quasi terra. È l’abito formale più prestigioso per le donne nubili. Il fatto che il kimono considerato maledetto fosse un furisode aggiunge un livello di tragedia alla leggenda, legandolo alla gioventù e a destini spezzati.

*Gli hikeshi: erano i pompieri dell’epoca ed erano una classe sociale a sé. Più che spegnere gli incendi (cosa spesso impossibile con i mezzi dell’epoca), il loro compito principale era demolire rapidamente gli edifici circostanti per creare barriere tagliafuoco. Erano famosi per il loro coraggio, i loro tatuaggi elaborati e il loro carattere irruento e rissoso. Anche questa è una storia che vi racconterò in un altro post.

*Chōnaikai: le associazioni di quartiere alla quali siamo quasi tutti iscritti qui in Giappone. Sono un il collante della società giapponese a livello locale. Non si occupano solo di sicurezza: organizzano i matsuri, gestiscono spesso la raccolta differenziata e cercano di mantenere i legami comunitari.



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L’energia ritrovata del GiapponeOggi, 3 Novembre, il Giappone celebra il “bunka no hi”, il “giorno della cultura”. È una...
03/11/2025

L’energia ritrovata del Giappone

Oggi, 3 Novembre, il Giappone celebra il “bunka no hi”, il “giorno della cultura”. È una festa nazionale dedicata alla promozione delle arti, dell’impegno accademico e della cultura. Musei e gallerie aprono gratuitamente e l’imperatore stesso conferisce in questo giorno l’ordine al merito culturale.

Questo articolo, tuttavia, non si concentrerà sulla festività in sé, né sulle cerimonie ufficiali. Esplorerà piuttosto il percorso che ha portato la sensibilità giapponese a identificare proprio l’autunno come il momento d’oro per l’impegno intellettuale e artistico. Per capire perché il giorno della cultura cade ora, perché la scelta di questa data non sia casuale e perché esistano concetti come “autunno delle arti” o “autunno della lettura”, dobbiamo guardare oltre il calendario e indagare un sentimento collettivo, quasi fisico, che definisce questa stagione: un vero e proprio "risveglio" nazionale.

Per capire l’autunno, bisogna essere sopravvissuti all’estate. L’estate in Giappone, specialmente da luglio a settembre, è un'esperienza fisica totalizzante. Non è solo il caldo, ma l’implacabile umidità, che fiacca il corpo e annebbia la mente. È la stagione del natsu-bate, la spossatezza estiva, un periodo in cui la priorità collettiva diventa la semplice sopravvivenza, un letargo forzato in attesa del sollievo.

Quando l’aria finalmente cambia e l'umidità crolla, l'effetto è elettrico. Il clima diventa, sugoshi-yasui, letteralmente “facile da vivere”. I cieli si tingono di un blu terso e profondo, così caratteristico da meritarsi un nome proprio: aki-bare (秋晴れ), il “sereno autunnale”. Questo cambiamento climatico non è solo un sollievo; è una liberazione, un risveglio delle facoltà fisiche e intellettuali.

È in questo momento che la cultura giapponese fiorisce nel detto: “〇〇の秋”, ovvero l’autunno di….”.

Il più celebre è forse il dokusho no aki, ovvero “l’autunno della lettura”. La spiegazione più ovvia è che le notti si allungano e il clima fresco concilia la quiete. Ma la sua vera origine è molto più colta e importante. La frase fu resa popolare da Natsume Sōseki, che nel suo romanzo Sanshirō cita un verso di un poeta cinese Hán Yù (Kanyū in giapponese) della dinastia Tang. Il verso recita:

「灯火親しむべし」 tōka sh*tashimu beshi

Che potremmo tradurre come: “è il momento di familiarizzare con la luce della lampada". Un’immagine che evoca perfettamente le fresche notti autunnali, ideali per dedicarsi allo studio e alla lettura.

Subito dopo troviamo il “geijutsu no aki”, l’autunno delle arti. Questo concetto, diffusosi nell'era Taishō (primi ‘900), si è consolidato per una regione molto pratica: le più importanti e vaste esposizioni d’arte del paese, come la prestigiosa Nittten, aprono tradizionalmente i battenti in questa stagione. L’autunno è diventato così, per consuetudine, il periodo d’elezione per le visite ai musei, e il bunka no hi ne è la consacrazione ufficiale.

Ma il risveglio non è solo mentale, è anche fisico. Dopo la quasi immobilità estiva, l'energia riprende a scorrere, dando vita allo “supōtsu no aki”, l'autunno dello sport. Sebbene gli undōkai (festival sportivi scolastici) si tenessero già da tempo in questa stagione per via del clima ideale, l’espressione è stata impressa a fuoco nella coscienza nazionale da un singolo evento: le Olimpiadi di Tōkyō del 1964. La cerimonia di apertura si tenne il 10 ottobre, una data scelta appositamente per la sua altissima probabilità statistica di aki-bare. Quel trionfo nazionale legò per sempre l’autunno all'attività fisica.

Infine, c'è un'eccezione quasi primordiale, lo shokuyoku no aki, “l’autunno dell'appetito”. Questa è la stagione del shūkaku no aki, il "raccolto". Il clima più fresco rinvigorisce l'appetito proprio mentre i mercati si riempiono di shin-mai (riso nuovo), san-ma (il luccio del Pacifico), castagne, funghi matsutake e patate dolci.

Lungi dall’essere un’espressione confinata alla cultura, la formula “〇〇の秋”, è oggi un potente strumento di marketing stagionale. Non appena il tempo cambia, diventa onnipresente in spot televisivi, manifesti e vetrine. Il suo successo si basa proprio su un’associazione emotiva immediata: non c'è bisogno di spiegare il contesto, poiché ogni consumatore collega istantaneamente quel prodotto a una sensazione di benessere.

Di conseguenza, i supermercati e ristoranti promuovono i menù stagionali sotto lo slogan di “shokuyoku no aki”, mentre le librerie lanciano sconti per il “dokusho no aki”. Allo stesso modo, i negozi di abbigliamento sportivo e le palestre usano lo slogan “supōtsu no aki” per vendere abbigliamento e attirare nuovi clienti; musei e gallerie, specialmente in coincidenza con il giorno della cultura, sfruttano il “geijutsu no aki” per attirare i visitatori.

Il giorno della cultura, quindi, non è un evento isolato. È la celebrazione di un stagione che per il Giappone non rappresenta una fine malinconia, ma un vibrante inizio. È il momento in cui la nazione libera dalla morsa dell’estate, ritrova finalmente l’energia e la lucidità per leggere, creare, muoversi e assaporare la vita.



Note

〇〇の秋: i due cerchietti, che in giapponese si leggono “maru maru”, non sono lettere ma segnaposto e funzionano esattamente come quando in italiano usiamo la lettera “X” o un spazio vuoto (___) in una frase. Quindi quando nel testo ho usato “〇〇の秋”, era un invito a riempire quello spazio vuoto con l'attività che preferite. È un modo per dire “per me, l’autunno è la stagione per ….”

灯火親しむべし
Nel suo celebre romanzo Sanshirō, Sōseki usa questa espressione per descrivere il comportamento di Yojirō quando dopo un periodo di agitazione, trova la calma e si mette a studiare seriamente con l’arrivo dell’autunno.

Per i più curiosi, ecco il passo completo:

そのうち与次郎の尻が次第に落ち付いて来て、灯火親しむべしなどといふ漢語さへ借用して嬉しがる様になった。
“In quel momento, Yojirō iniziò finalmente a calmarsi (letteralmente sarebbe “il suo sedere si posò") e arrivo al punto di rallegrarsi usando persino in prestito espressioni cine come “tōka sh*tashimu beshi”

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