
23/07/2025
Il mare prima dei kami
Questo post si lega al precedente “Dove il mare è destino”.
Sono trascorsi molti anni da quando ho messo piede per la prima volta in Giappone, e in tutto questo tempo credevo di aver compreso il profondo vincolo che lega questo popolo alle sue acque. Lo associavo istintivamente allo Shintō, a una cornice spirituale affascinante e onnipresente. Eppure, solo di recente ho iniziato a interrogarmi più a fondo, a sentire che quella spiegazione, per quanto corretta, non era completa. Mi sono reso conto che ridurre questa relazione ancestrale alla sola fede sarebbe come ammirare la Grande Onda di Hokusai e notare solo la schiuma in superficie, ignorando la massa immensa e la potenza abissale che la genera. Ho capito che lo Shintō non è la causa di questo legame, ma il sublime linguaggio spirituale attraverso cui esso prende voce. La relazione stessa è un tessuto esistenziale molto più antico, i cui fili sono l'ineluttabilità della geografia, la necessità economica, il terrore primordiale e, solo alla fine, la sacralità.
Il mio primo passo, in questa riflessione, è stato spogliarmi di ogni sovrastruttura per tornare all’evidenza più lampante: il Giappone è un arcipelago, una shima-guni (nazione insulare). Una definizione che per anni ho usato quasi meccanicamente, senza coglierne appieno il peso. Vivere qui significa che nessun punto della nazione dista più di centocinquanta chilometri dalla costa. Il mare non è un'opzione, un panorama da scegliere per le vacanze, ma un vicino costante, a volte ingombrante. È il confine che definisce e la via che chiama. È solo ora che inizio a comprendere come questa prossimità abbia forgiato una mentalità unica, intrisa di un senso di vulnerabilità e, allo stesso tempo, di un splendido isolamento che ha permesso a questa cultura di chiudersi al mondo e di riaprirsi ad esso, sempre e solo attraverso le sue porte d’acqua.
Vivere così, costantemente abbracciati dal mare, ha installato nell'anima collettiva qualche cosa che ho impiegato anni a decifrare: un ambivalenza profonda, un equilibrio perenne tra la più devota gratitudine e la più atavica paura. Il mare è innanzitutto sostentatore, la fonte della megumi, la benedizione. La dieta stessa è un inno ai suoi doni, che qui chiamano con un’espressione meravigliosa: umi no sachi, i “tesori del mare”. Questi tesori, che includono alghe e molluschi oltre al pesce, hanno garantito per millenni la sopravvivenza in una terra montuosa e avara di suolo. Ma questo stesso mare, ho imparato a mie spese, e anche la più grande minaccia collettiva, kyōi. La parola tsunami è un termine che il Giappone ha tragicamente donato al mondo. La Grande Onda di Kanagawa, che prima vedevo come un’icona estetica, ora la percepisco per quello che forse è: la rappresentazione sublime della fragilità umana. Quei pescatori, rannicchiati nelle loro barche, non sono eroi, ma esseri minuscoli in balia di una forza cosmica e indifferente.
Ed è qui, in questa fessura tra amore e paura, che ho finalmente capito il ruolo autentico dello Shintō. In quanto fede animista, nata dal paesaggio stesso del Giappone, non ha creato il vincolo con il mare, ma lo ha elevato a sacro, gli ha dato un ordine e una grammatica. Ha offerto gli strumenti per dialogare con l’inconciliabile dualità di megumi e kyōi. Il pantheon si è popolato di divinità marine come watatsumi, che governa gli abissi, e i Sumiyoshi sanjin, protettore dei marinai. Venerare questi kami è diventato il modo per ringraziare i "tesori del mare” e, al contempo, un tentativo disperato di placarne la furia. L’acqua salata stessa è diventata un agente di purificazione, il misogi un rito per lavare le impurità. I maestosi torii che sorgono dall’acqua, come quello immortale di Itsukushima, non sono solo un artificio scenico; ho imparato a vederli come la soglia visibile tra il nostro mondo e un mondo in cui il mare non è sfondo, ma protagonista divino.
Ma la mia riflessione non poteva fermarsi qui. Se il legame fosse solo religioso, si sarebbe affievolito con il passare del tempo. Invece, la sua eco risuona, potente e trasformata, anche nella cultura moderna. In Mishima, il mare non è più un dio, ma diventa simbolo di un ordine trascendente, di una purezza assoluta e crudele, indifferente alle piccole vicende umane. E rileggendo le parole di un altro straniero che ha amato profondamente questo paese, Donald Richie, ho trovato un’altra conferma: “L’acqua è sempre stata la vera strada maestra del Giappone. È ancora il legame tra le sue parti…Questo senso di connessione attraverso l’acqua e qualcosa che la terraferma non può dare”. Il mare quindi non è ciò che separa le isole che formano il Giappone, ma il tessuto connettivo che le unisce.
Alla fine, questo viaggio mi ha portato a una conclusione quasi disarmante nella sua semplicità. La relazione tra i giapponesi e il loro mare è una simbiosi nata da una necessità geografica e forgiata nel fuoco di un’eterna contraddizione tra vita e morte. Lo shintoismo offre una grammatica spirituale per articolarla, un vocabolario fatto di riverenza e paura. Ma il legame stesso è più antico e viscerale di qualunque dottrina: è la consapevolezza, che sento ora più vicina, incisa nell’anima di un popolo, di vivere perennemente sull’orlo di un abisso magnifico e terribile.
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La foto l'ho scattata delle rovine del castello di Hara e riprende il mare di Ariake che con le sue acque poco profonde bagna quattro prefetture: Fukuoka, Saga, Nagasaki e Kumamoto.