Yoka Yoka Nippon

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Yoka Yoka Nippon Scopri il Giappone a 360°! Che tu sia un esperto o un semplice curioso, qui troverai uno spazio dedicato alla cultura giapponese in tutte le sue sfaccettature.

Storia, cultura, mondo del lavoro e tradizioni. La mia passione per la storia e la cultura giapponese, nata ai tempi del liceo, mi ha portato a iscrivermi al corso di laurea in Lingue e Istituzioni Economico Giuridiche dell’Asia Orientale presso Ca’ Foscari di Venezia. L’opportunità di studiare in Giappone ha consolidato il mio interesse, sfociando in una tesi sulla legislazione marittima giappone

se. Dopo un’esperienza lavorativa nel settore editoriale, ho colto l’occasione di trasferirmi in Giappone per lavorare nel settore navale. Dal 2013 vivo e lavoro qui, continuando a approfondire lo studio dello Shintoismo e del Buddismo giapponesi. Nel tempo libero, scrivo articoli per divulgare queste affascinanti culture.

Il mare prima dei kamiQuesto post si lega al precedente “Dove il mare è destino”.Sono trascorsi molti anni da quando ho ...
23/07/2025

Il mare prima dei kami

Questo post si lega al precedente “Dove il mare è destino”.

Sono trascorsi molti anni da quando ho messo piede per la prima volta in Giappone, e in tutto questo tempo credevo di aver compreso il profondo vincolo che lega questo popolo alle sue acque. Lo associavo istintivamente allo Shintō, a una cornice spirituale affascinante e onnipresente. Eppure, solo di recente ho iniziato a interrogarmi più a fondo, a sentire che quella spiegazione, per quanto corretta, non era completa. Mi sono reso conto che ridurre questa relazione ancestrale alla sola fede sarebbe come ammirare la Grande Onda di Hokusai e notare solo la schiuma in superficie, ignorando la massa immensa e la potenza abissale che la genera. Ho capito che lo Shintō non è la causa di questo legame, ma il sublime linguaggio spirituale attraverso cui esso prende voce. La relazione stessa è un tessuto esistenziale molto più antico, i cui fili sono l'ineluttabilità della geografia, la necessità economica, il terrore primordiale e, solo alla fine, la sacralità.

Il mio primo passo, in questa riflessione, è stato spogliarmi di ogni sovrastruttura per tornare all’evidenza più lampante: il Giappone è un arcipelago, una shima-guni (nazione insulare). Una definizione che per anni ho usato quasi meccanicamente, senza coglierne appieno il peso. Vivere qui significa che nessun punto della nazione dista più di centocinquanta chilometri dalla costa. Il mare non è un'opzione, un panorama da scegliere per le vacanze, ma un vicino costante, a volte ingombrante. È il confine che definisce e la via che chiama. È solo ora che inizio a comprendere come questa prossimità abbia forgiato una mentalità unica, intrisa di un senso di vulnerabilità e, allo stesso tempo, di un splendido isolamento che ha permesso a questa cultura di chiudersi al mondo e di riaprirsi ad esso, sempre e solo attraverso le sue porte d’acqua.

Vivere così, costantemente abbracciati dal mare, ha installato nell'anima collettiva qualche cosa che ho impiegato anni a decifrare: un ambivalenza profonda, un equilibrio perenne tra la più devota gratitudine e la più atavica paura. Il mare è innanzitutto sostentatore, la fonte della megumi, la benedizione. La dieta stessa è un inno ai suoi doni, che qui chiamano con un’espressione meravigliosa: umi no sachi, i “tesori del mare”. Questi tesori, che includono alghe e molluschi oltre al pesce, hanno garantito per millenni la sopravvivenza in una terra montuosa e avara di suolo. Ma questo stesso mare, ho imparato a mie spese, e anche la più grande minaccia collettiva, kyōi. La parola tsunami è un termine che il Giappone ha tragicamente donato al mondo. La Grande Onda di Kanagawa, che prima vedevo come un’icona estetica, ora la percepisco per quello che forse è: la rappresentazione sublime della fragilità umana. Quei pescatori, rannicchiati nelle loro barche, non sono eroi, ma esseri minuscoli in balia di una forza cosmica e indifferente.

Ed è qui, in questa fessura tra amore e paura, che ho finalmente capito il ruolo autentico dello Shintō. In quanto fede animista, nata dal paesaggio stesso del Giappone, non ha creato il vincolo con il mare, ma lo ha elevato a sacro, gli ha dato un ordine e una grammatica. Ha offerto gli strumenti per dialogare con l’inconciliabile dualità di megumi e kyōi. Il pantheon si è popolato di divinità marine come watatsumi, che governa gli abissi, e i Sumiyoshi sanjin, protettore dei marinai. Venerare questi kami è diventato il modo per ringraziare i "tesori del mare” e, al contempo, un tentativo disperato di placarne la furia. L’acqua salata stessa è diventata un agente di purificazione, il misogi un rito per lavare le impurità. I maestosi torii che sorgono dall’acqua, come quello immortale di Itsukushima, non sono solo un artificio scenico; ho imparato a vederli come la soglia visibile tra il nostro mondo e un mondo in cui il mare non è sfondo, ma protagonista divino.

Ma la mia riflessione non poteva fermarsi qui. Se il legame fosse solo religioso, si sarebbe affievolito con il passare del tempo. Invece, la sua eco risuona, potente e trasformata, anche nella cultura moderna. In Mishima, il mare non è più un dio, ma diventa simbolo di un ordine trascendente, di una purezza assoluta e crudele, indifferente alle piccole vicende umane. E rileggendo le parole di un altro straniero che ha amato profondamente questo paese, Donald Richie, ho trovato un’altra conferma: “L’acqua è sempre stata la vera strada maestra del Giappone. È ancora il legame tra le sue parti…Questo senso di connessione attraverso l’acqua e qualcosa che la terraferma non può dare”. Il mare quindi non è ciò che separa le isole che formano il Giappone, ma il tessuto connettivo che le unisce.

Alla fine, questo viaggio mi ha portato a una conclusione quasi disarmante nella sua semplicità. La relazione tra i giapponesi e il loro mare è una simbiosi nata da una necessità geografica e forgiata nel fuoco di un’eterna contraddizione tra vita e morte. Lo shintoismo offre una grammatica spirituale per articolarla, un vocabolario fatto di riverenza e paura. Ma il legame stesso è più antico e viscerale di qualunque dottrina: è la consapevolezza, che sento ora più vicina, incisa nell’anima di un popolo, di vivere perennemente sull’orlo di un abisso magnifico e terribile.



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La foto l'ho scattata delle rovine del castello di Hara e riprende il mare di Ariake che con le sue acque poco profonde bagna quattro prefetture: Fukuoka, Saga, Nagasaki e Kumamoto.

Ieri, approfittando della bella giornata di festa per lo Umi no Hi (海の日), abbiamo deciso di farci un regalo in famiglia....
22/07/2025

Ieri, approfittando della bella giornata di festa per lo Umi no Hi (海の日), abbiamo deciso di farci un regalo in famiglia... e che regalo! Siamo andati da Aikawa, una macelleria molto famosa, che per fortuna è proprio qui vicino a casa, per mangiare uno dei suoi famosi Sasebo Burger! 🍔😍

Ho deciso di esagerare e ho provato la loro specialità: il panino con hamburger e bistecca di manzo A5 "Wagyū" di Nagasaki. Ragazzi, che ve lo dico a fare... una bontà assoluta! Certo, non è proprio economico, costa 2700 yen, ma ogni singolo yen è speso bene per una qualità del genere. La carne si scioglieva in bocca, saporita e succosissima. 🤤

Sono gli unici nella zone a usare solo carne di manzo A5 "Wagyū" di Nagasaki al 100% certificato "Niku no Aikawa", e anche la pancetta è prodotta da loro con maiale locale. La differenza si sente eccome!

Quindi, se mai capitate da queste parti per turismo, segnatevi questo nome: Aikawa. È una tappa assolutamente obbligata per assaggiare il vero Sasebo Burger! 😉

Dove il mare è destinoNonostante l’enorme volume di lavoro di quest'ultimo periodo, tra nuovi contratti, nuovi progetti ...
21/07/2025

Dove il mare è destino

Nonostante l’enorme volume di lavoro di quest'ultimo periodo, tra nuovi contratti, nuovi progetti e lo studio continuo per non rimanere avvinto dalle pieghe del tempo, ho scelto di concedere a me e alla mia famiglia la quiete di questi giorni a casa. Pur continuando a compulsare documenti da quella che era nata come una gaming room ma si è ormai trasformata nel mio ufficio casalingo, l’atmosfera che si respira è quella di una festività, una pausa nel ritmo sincopato della quotidianità. La ragione di questa tregua risiede in una celebrazione profondamente radicata nell’anima di questa nazione: l’umi no hi, la giornata del mare.

Questa ricorrenza, che cade il terzo lunedì di luglio, non è un mero pretesto per un fine settimana allungato, bensì un momento di sentita gratitudine verso l’oceano per i suoi doni e un auspicio di prosperità per il Giappone. Per comprendere appieno la portata di tale celebrazione, è necessario spogliarsi della nostra concezione mediterranea del mare, spesso legata alla villeggiatura, al divertimento estivo, a un orizzonte di svago. Qui il mare è vita, nutrimento, via di comunicazione, ma anche forza temibile e indomita. È un'entità con cui il popolo giapponese ha stretto un patto millenario, un legame viscerale che ne ha plasmato la cultura, l’economia e la stessa identità. Essendo il Giappone una nazione insulare, la cui esistenza stessa è intrinsecamente legata alle acque che la cingono, il mare è il fulcro di un retaggio storico e spirituale che pervade ogni aspetto della vita. Io stesso, proveniente da una zona più prossima alle alte vette dolomitiche che alle rive del mare, non ho mai coltivato un simile legame, e forse proprio per questa distanza riesco a cogliere con maggior stupore la profondità della riverenza nipponica.

Le origini di questa festività ci riportano indietro nel tempo, al 1876. Fu in quell’anno che l’imperatore Meiji, figura cardine della modernizzazione del paese, fece ritorno al porto di Yokohama il 20 Luglio, al termine di un lungo viaggio che lo aveva impegnato nella visita delle regioni settentrionali del Tōhoku e dell’Hokkaidō. L’imbarcazione che lo ricondusse a casa non era una nave qualsiasi, ma la Meiji Maru, un piroscafo di costruzione scozzese che incarnava il progresso tecnologico e la nuova apertura del Giappone al mondo. Quel ritorno divenne il simbolo di un viaggio non solo fisico, ma anche metaforico, verso un futuro prospero guidato dall’innovazione.

Per commemorare un evento di tale portata simbolica, nel 1941 venne istituita la “Giornata commemorativa del mare”, umi no kinenbi, fissata proprio il 20 luglio. Tuttavia, fu necessario attendere fino al 1996 perché questa giornata assumesse lo status di festa nazionale, specchio di una società in cambiamento, dal 2003 la festività è stata spostata al terzo lunedì del mese di luglio, in accordo con la politica governativa conosciuta come “Happy Monday System”, volta a creare più fine settimana di tre giorni per favorire il riposo e il turismo interno.

Ed è così, che dalla mia stanza, tra una pila di documenti e l’altra, osservo questa giornata dipanarsi. Il mare poco distante riflette i raggi del sole e credo che sia un’occasione perfetta per riflettere non solo sulla dipendenza di un’intera nazione dall'oceano, ma anche sull’urgenza di preservare l’equilibrio. È un momento in cui il fragore delle onde sembra riecheggiare la storia, la cultura e le speranze di un popolo che, nel mare, ha sempre trovato il proprio destino.



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Tra cicale e fuochi d'artificio: vivere l'estate giapponeseLe conversazioni serali sull'arredamento e sulla tipologia di...
20/07/2025

Tra cicale e fuochi d'artificio: vivere l'estate giapponese

Le conversazioni serali sull'arredamento e sulla tipologia di climatizzazione della nostra nuova cassa, un tema ricorrente tra me e mia moglie, ci hanno condotti, non si come, a una riflessione più profonda: quale sia la vera essere dell’estate in Giappone. Contrariamente alla percezione occidentale, dove l’estate sovente si traduce in lunghe interruzioni della routine e nella quiete delle vacanze, qui l’esperienza del periodo estivo è ben più stratificata e complessa. È un mosaico di sensazioni, riti e sinfonie naturali che affonda le proprie radici in un passato remoto e vibrante.

Per cogliere appieno l’anima dell'estate nipponica, è d’obbligo un’immersione nel tempo in lui la percezione dell’anno era dettata dal calendario lunare. L’estate, o natsu, non era una mera porzione dell’anno, bensì un intervallo cruciale, approssimativamente da maggio a luglio, di vitale importanza per la coltivazione del riso. L’avvento della pioggia, lo tsuyu, che inonda il paese tra giugno e luglio, non era percepito come un inconveniente, bensì come una benedizione celeste, linfa vitale per i campi e garanzia di un raccolto prospero. Questa profonda connessione con la terra, con la crescita rigogliosa e con la gratitudine verso la natura, è un filo ininterrotto che lega il passato al presente.

Nonostante il passaggio al calendario gregoriano abbia alterato la successione dei mesi, l’anima di questa stagione persiste. Oggi, l’estate è indissolubilmente legata a un calore spesso opprimente e a un'umidità pervasiva, sapientemente descritta dai giapponesi con il termine mushi-atsui. È la stagione del canto assordante e incessante delle cicale, che funge da colonna sonora onnipresente dall’alba al tramonto. Un periodo che mette a dura prova la nostra tempra fisica, tanto da aver generato un’espressione specifica, natsubate, per denotare la spossatezza e la fatica indotte dal rigore estivo.

Eppure, l’estate giapponese e anche l’attesa febbrile dei fuochi d'artificio, gli hanabi. Lungi dall’essere semplici esibizioni pirotecniche, le hanabi taikai sono sovente eventi grandiosi, vere e proprie competizioni tra maestri artigiani che dipingono il cielo notturno con creazioni effimere di una bellezza mozzafiato. Famiglie, amici, innamorati si radunano lungo le rive dei fiumi o sulle spiagge, stendono un telo e condividono cibi e bevande, con lo sguardo rivolto al cielo, in un silenzio quasi reverenziale, interrotto solo da esclamazioni di meraviglia.

Il palato estivo è plasmato dai dettami della stagione. Si prediligono spesso piatti rinfrescanti come i sōmen, sottili spaghetti di grano serviti freddi, o l’anguilla (unagi), che secondo la tradizione aiuta a rinvigorire il corpo e a combattere gli effetti del caldo. È il sapore dolce e succoso dell’anguria, spesso consumata in compagnia, magari partecipando al suikawari, un gioco in cui si tenta di rompere il cocomero con un bastone, bendati.

Vivere l’estate in Giappone significa dunque abbracciare i suoi intrinsechi contrasti. È sopportare un clima difficile, ma trovare immediato sollievo nella maestosità di un fuoco d’artificio che esplode nel cielo. È sentire il peso della fatica fisica ma riscoprire l’energia nella gioia contagiosa di un matsuri di quartiere. È un’esperienza che coinvolge tutti i sensi: il ronzio persistente delle cicale, l’aroma sacro dell’incenso durante l’obon, il sapore rinfrescante di un granita, la visione incantevole di una lanterna di carta che si illumina al crepuscolo. Non è una semplice pausa della vita quotidiana, bensì un periodo in cui la vita stessa si manifesta con un'intensità maggiore, legando indissolubilmente il presente a un passato che non cessa mai di permeare ogni istante.



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Il gracchiare degli deiNel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna ...
15/07/2025

Il gracchiare degli dei

Nel cielo del Sol Levante, un’ombra nera danza instancabile, un ritornello visivo che accompagna l’alba e il tramonto. È il corvo, l’onnipresente signore dei cieli urbani, un sovrano pennuto che osserva dall’alto le nostre vite indaffarate con un’intelligenza che a tratti inquieta, a tratti affascina. Non si può sfuggire al suo richiamo roco, “ka-ka-” che è divenuto la colonna sonora non ufficiale delle metropoli giapponesi, un suono così familiare da confondersi con il brusio del traffico e le melodie delle stazioni dei treni.

Questo volatile, vestito di un piumaggio che ruba la luce, è un maestro di adattamento, un genio incompreso del mondo animale. Lo si osserva con un misto di ammirazione e fastidio mentre risolve complessi problemi per procurarsi il cibo. Lo si vede far cadere noci sulle strisce pedonali, attendendo pazientemente che il semaforo diventi verde e le auto, ignare complici, le schiaccino per lui. Un’astuzia che strappa un sorriso, se non fosse che la sua ingegnosità si applica con la medesima perizia a un’altra, meno nobile, attività.

Ed è qui che l’ammirazione cede il passo all’esasperazione, trasformando il nostro astuto corvo in un vera e propria piaga sociale. All’alba, prima ancora che la città si desti del tutto, orde di questi becchi affilati si avventano sui punti di raccolta dei rifiuti. Con una precisione chirurgica, lacerano i sacchetti, spargendo in un tripudio di caos i resti della nostra opulenza. L’immondizia, meticolosamente separata la sera prima, diventa un banchetto a cielo aperto, un mosaico desolante di avanzi e confezioni sparse sul selciato. E così, quasi ogni mattina, si rinnova la silenziosa battaglia tra cittadini armati di reti protettive e i corvi, imperterriti e sempre un passo avanti.

Eppure in questo paese che oggi lo combatte a colpi di reti e dissuasori, il corvo non è sempre stato un paria. È un animale profondamente ambivalente, un essere che cammina sul filo sottile che separa il sacro dal profano. Se da un lato è considerato un “kami no tsukai”, un messaggero divino, dall’altro la sua ombra si allunga su aspetti più oscuri, legandosi a volte all’idea di maledizione. Basta scalfire la superficie del quotidiano per scoprire un’anima antica, un rispetto ancestrale che affonda le radici nella notte dei tempi. Se si lascia la giungla d’asfalto e ci si addentra nel silenzio ovattato di un santuario shintoista, l’immagine del corvo trasfigura.

Qui, esso abbandona le sue spoglie di razziatore di rifiuti seriale per indossare quelle sacre dello yatagarasu, il corvo a tre zampe, guida celeste e araldo divino. La leggenda narra che fu proprio questo essere mitologico, inviato dalla dea del sole Amaterasu, a guidare il primo imperatore del Giappone, Jimmu, attraverso le impervie montagne, assicurando la fondazione di una nazione. Le sue tre zampe, si dice, rappresentano il cielo, la terra e l'umanità, un simbolo potente di unione e armonia.

Questa dualità si riflette in usanza popolari quasi sussurrate, come i karasu kanjō (烏勧請), antichi rituali in cui l’uomo cerca di ingraziarsi questa creatura ambigua. Si offrono piccoli doni, come mochi o dango, non per scacciarla, ma per invitarla, per pregarla di farsi tramite con il divino, come suggerisce lo stesso termine kanjō. Si credeva, e in alcune comunità rurali si crede ancora, che dal modo in cui il corvo becca l’offerta si possano trarre presagi, decifrare il futuro, propiziarsi la fortuna. Un gesto di pace, un tentativo di dialogo con l’uc***lo che è tanto detestato quanto venerato.
Purtroppo, come molte tradizioni che richiedono tempo e silenzio, anche i karasu kanjō stanno lentamente scomparendo, inghiottiti dalla fretta del mondo moderno. Sopravvivono tenacemente nelle campagne, ultimo baluardo di un passato ricco di significato, un legame con un tempo in cui l’uomo sapeva ancora ascoltare la voce degli dei attraverso il gracchiare di un corvo.

E così, il Giappone, vive questa sua curiosa dicotomia. Alza gli occhi al cielo con un sospiro di rassegnazione nel vedere l’ennesimo stormo dirigersi verso i cassonetti, ma poi si inchina con riverenza davanti a un’immagine dello stesso uc***lo incisa su un amuleto. Un ladro sfacciato e un messaggero divino, un fastidio quotidiano e un oracolo alato. In questa duplice natura, forse, risiede il vero fascino del corvo giapponese: un promemoria costante che la bellezza e la seccatura, il sacro e il profano, spesso volano con le stesse ali.

kanjō

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Nelle pieghe più recondite della tradizione giapponese, lontano dal clamore delle metropoli, sopravvivono usanze che ris...
13/07/2025

Nelle pieghe più recondite della tradizione giapponese, lontano dal clamore delle metropoli, sopravvivono usanze che risuonano come echi di un tempo antico, sussurri di fede nati dal più profondo dei terrori.Tra queste, forse nessuna è così straziante e solenne come il meikon (冥婚), il "matrimonio delle tenebre". Non è una tradizione per le masse, ma un rito intimo e raro, custodito nel cuore di alcune comunità, un estremo atto d’amore che fiorisce dove le dottrine ufficiali del buddismo e dello shintoismo lasciano spazio al silenzio. È un cerimoniale per offrire le nozze a chi la vita ha strappato via prima che potesse conoscere l’unione con un’altra persona.

Per discendere i meandri di questa pratica, occorre prima soffermarsi su un oggetto umile e onnipresente nei luoghi sacri del Giappone: le tavolette ema (絵馬). Appese in rastrelliere silenziose di speranze, queste piccole tavolette di legno sono il veicolo di preghiere e desideri. Il loro nome, “immagine di cavallo”, ci riporta a un’epoca in cui i nobili destrieri, considerati messaggeri divini, venivano offerti ai santuari per guadagnare il favore dei kami. Con il tempo, il cavallo in carne e ossa, dono per pochi, lasciò lo spazio alla sua effige, evolvendosi infine in queste tavolette su cui chiunque può incidere una speranza da affidare al cielo.

Ma cosa accade quando la preghiera non è più per una gioia futura, ma per chiudere una ferita insanabile del passato? È qui che il sentiero si fa più oscuro, conducendo nel mondo del meikon. Una morte prematura, prima del matrimonio, è come una lacerazione nell’ordine cosmico. Si annida la terribile credenza che l’anima del defunto, privata del compimento coniugale e della promessa di una discendenza, sia condannata a un’eterna irrequietezza. Questi spiriti, frustati e incompleti, diventano muenbotoke (無縁仏), “anime senza legami”, spettri freddi e soli, incapaci di trovare pace e il cui tormento si crede, possa angosciare anche il mondo dei vivi. Il meikon nasce da questo terrore, dal peso insopportabile di immaginare il proprio figlio vagare nel gelo dell'aldilà. È un rito per offrire, oltre la soglia della morte, quella felicità negata, affidandosi non a spoglie mortali, ma alla potenza evocativa di simboli carichi d’amore.

Nella prefettura di Yamagata, questo gesto assume la forma del mukasari ema. “Mukasari”, nel dialetto locale, significa proprio “matrimonio”. Le famiglie spezzate dal lutto commissionano una tavoletta ema che non chiede, ma dona. Su di essa non si scrive un desiderio, ma si dipinge un sogno; la scena nuziale del proprio caro, un passato che non è mai stato. L’immagine, spesso dai colori vivaci quasi a voler sfidare il buio della morte, ritrae il defunto in abiti da cerimonia accanto a un consorte immaginario, sereno e finalmente completo. Una regola sacra e inviolabile preserva il confine tra i mondi: la sposa o lo sposo dipinto sull’ema non può mai essere una persona viva.
Questo dipinto è più di un omaggio; è un kūyō, un servizio commemorativo, disperato e potentissimo. La storia di una donna di Shizuoka ne trasmette la forza. Tormentata da un’inquietudine che non le dava pace dopo la morte improvvisa del fratello diciottenne, una notte lo sognò. La sua voce era un lamento freddo: “Voglio andare in un luogo più luminoso. Qui fa freddo. Il rito non è stato svolto nel modo adeguato”. Stremata dal dolore, la donna scoprì i mukasari ema e, tramite il tempio Wakamatsu, fece dipingere il fratello sorridente, accanto a una sposa radiosa. Dopo la consacrazione della tavoletta, il fratello le apparve un'ultima volta in sogno: non più un’anima gelida, ma il ragazzo che era, che la ringraziò con un sorriso prima di offrirle un congedo sereno e svanire nella pace.

Risalendo ancora più a nord, nella prefettura di Aomori, il peso del lutto si manifesta nelle hanayome ningyō (花嫁人形), il “rituale della bambola sposa". Anche questa usanza nacque dall’eco di un dolore collettivo, quello dei genitori che avevano perso i figli sui campi di battaglia. Una coppia, annientata dal dolore, si rivolse a una miko, una sciamana, per udire una parola dal figlio caduto. Il messaggio che giunse nell'oltretomba fu un sussurro che squarciò il loro cuore: “Avrei voluto sposarmi” (kekkon-sh*takatta). In risposta a quel desiderio non esaudito, la madre fece creare una bambola vestita da sposa e la consacrò alla memoria del figlio. Oggi, in una sala del tempio Kōbōji, un silenzioso gruppo di quasi mille bambole testimonia questo rito. Per un uomo, si pone una bambola sposa accanto alla sua fotografia; per una donna, un'effige maschile in abiti scuri prende il posto della sua immagine. A volte, il dolore e l’amore dei genitori sono così grandi da spingere ad aggiungere una bambola di un bambino, nel tentativo di costruire per il proprio caro un’intera famiglia felice nell'eternità.

Sia i dipinti di Yamagata che le bambole di Aomori sono rituali nati da una tragedia, me perpetrati da un bisogno umano universale e fortemente radicato in Giappone: quello di prendersi cura dei propri amati oltre ogni confine.
Rappresentano un ponte fragile, costruito con le lacrime e la devozione dei sopravvissuti, un modo per completare una vita spezzata, alleviando il proprio fardello e offrendo, con un ultimo, tenerissimo gesto, la pace. In questi atti intimi e potenti, il velo tra il visibile e l’invisibile di assottiglia, e ci ricorda che, anche quando il corpo svanisce, l’anima, e l’amore che la circonda, continuano a vibrare nell’infinito.



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Dove riposano i morti senza paceIl fragore dell’acqua che tutto inghiotte non fa distinzioni. Non si arresta davanti all...
08/07/2025

Dove riposano i morti senza pace

Il fragore dell’acqua che tutto inghiotte non fa distinzioni. Non si arresta davanti alle case dei vivi, né alle dimore silenziose dei morti. È un'onda nera che cancella la memoria, strappando le fotografie dagli album e i nomi dalla lapidi con la stessa indifferente ferocia. Quando, l’11 marzo 2011, il grande tsunami del Tōhoku si è ritirato, ha lasciato dietro di sé un paesaggio di annientamento che andava ben oltre la rovina materiale. Ha spalancato un abisso non solo nelle vite di chi è sopravvissuto, ma anche nell’ordine sacro del mondo degli spiriti, gettando nel caos il delicato equilibrio tra chi cammina sulla terra e chi vi riposa.

In occidente, il nostro sguardo si ferma spesso sulla conta dei corpi, al dolore tangibile di chi ha perso un figlio, un coniuge, un genitore o la famiglia intera. La nostra empatia si concentra sulla tragedia dei vivi. Ma in Giappone quella tragedia si è sdoppiata, riflessa in uno specchio invisibile, ma non meno reale: il mondo dei defunti. L’acqua ha spazzato via migliaia di tombe di famiglia, le haka, piccoli monumenti di pietra che per generazioni avevano custodito le ceneri degli antenati, fungendo da ponte tra passato e presente. Interi cimiteri, affacciati lungo le coste colpite dallo tsunami, luoghi di pace e preghiera, sono stati profanati, le loro lapidi divelte e trascinate via come fuscelli, disperdendo le ceneri e cancellando l'identità fisica dell’eterno riposo. Per i sopravvissuti, per i vivi, ciò non ha significato solo perdere un luogo di commemorazione, ma subire la recisione di un legame vitale, la violazione di un dovere filiale che si estende dopo la morte. Come onorare gli antenati, se il loro santuario è stato distrutto? Come parlare con loro, se il punto di contatto e stato inghiottito dal fango?

A questo si aggiunge l’angoscia più profonda, quella che non trova pace, quella per le anime che vagano senza un corpo. Migliaia di persone sono state dichiarate disperse, mai restituite dalle acque. Per la sensibilità buddista giapponese, questa è una ferita insanabile. Un defunto, per trovare la pace e iniziare il suo viaggio nell'aldilà, necessità di riti precisi: il suo corpo deve essere ritrovato, cremato, e le sue ceneri raccolte con devozione e poste nell’urna funeraria, all’interno della tomba di famiglia. I suoi cari devono poter pregare per lui bruciando l'incenso davanti al butsudan, l’altare domestico, scandendo il nome postumo. Ma come si può pregare per un ombra? Come si può onorare chi non ha un tomba, chi è rimasto prigioniero del mare? Questa assenza non è un vuoto, ma una presenza costante e dolorosa. È uno scompiglio che tormenta i sogni di chi resta, un senso di colpa che attanaglia il cuore: il fallimento nel compiere l’ultimo, fondamentale atto d’amore e di rispetto. I vivi si sentono responsabili per l’inquietudine dei loro morti, immaginandoli persi, confusi, incapaci di attraversare il ponte verso la Terra Pura.

In questo paesaggio di desolazione fisica e spirituale, sono nate storie di una tenacia straziante, di una devozione che sfida la disperazione. Uomini e donne che per anni hanno continuato a cercare, a camminare lungo spiagge devastate, a setacciare i detriti, aggrappati alla speranza di trovare un frammento, un resto, qualcosa che potesse dare un nome a un’assenza e un luogo alla memoria. Come Takamatsu Yasuo, un uomo che, dopo aver perso la moglie nello tsunami, ha imparato a fare immersioni subacquee. Ogni settimana, per anni, si è immerso nelle acque gelide al largo della costa di Onagawa, cercando il suo corpo. Non cercava la morte, ma un modo per far continuare la vita, quella spirituale di sua moglie. “Sento che potrebbe essere da qualche parte qui vicino”, diceva con una calma carica di dolore. La sua ricerca non era solo un atto personale, ma il simbolo della lotta di un’intera comunità contro l’oblio imposto dalla catastrofe. Era il tentativo di restituire un ordine al caos, di compiere un rito funebre che la natura gli aveva negato.

In questo abisso, la religione buddista non ha offerto risposte semplici, ma ha fornito strumenti per convivere con un dolore incommensurabile. I monaci buddisti sono diventati figure centrali, non solo come guide spirituali, ma come operatori di un primo soccorso dell’anima. Hanno camminato tra le rovine, ascoltato storie di perdita senza fine, e hanno adattato spesso riti secolari a una tragedia senza precedenti. Sono stata organizzate cerimonie collettive per i “dispersi”, riti funebri senza un corpo presente, dove le preghiere non erano rivolte a un singolo defunto in una bara, ma a migliaia di anime perdute nel mare. Hanno insegnato che, anche in assenza di un corpo, la memoria e l’intenzione del cuore potevano creare un ponte. Hanno consacrato nuovi spazi, eretto monumenti comuni dove i nomi dei dispersi sono incisi sulla pietra, offrendo ai sopravvissuti un luogo fisico dove dirigere il loro lutto, le loro preghiere, le loro lacrime. Hanno aiutato le persone a capire che il legame con i defunti non risiede esclusivamente nelle ceneri o nelle pietra tombale, ma nell’amore incrollabile di chi ricorda.

La catastrofe del Tōhoku ci ha insegnato che quando la terra trema e il mare si solleva, non distrugge solo il presente, ma minaccia di cancellare anche il passato e di ipotecare il futuro spirituale. Ha mostrato al mondo intero la profondità di una cultura in cui i morti non sono relegati in un lontano passato, ma continuano a vivere accanto ai loro discendenti, in un dialogo silenzioso e costante. I sopravvissuti, con la loro disperata e dignitosa ricerca, con la loro fede tenace, non hanno cercato solo di ricomporre le proprie vite. Hanno combattuto una battaglia più grande: quella di ricomporre il mondo invisibile, per dare la pace ai loro cari e per riaffermare che nemmeno la furia più devastante del mare può spezzare il filo sacro che unisce il mondo dei vivi da quello dei morti.

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