09/23/2025
Undici anni fa i miei viaggi erano piccole fughe: pochi giorni, mete vicine, il portafoglio che detta legge e la paura costante di dover rientrare in ufficio, come se il mondo potesse crollare senza di me. Allora pensavo fosse normale: lavorare sempre, concedersi appena qualche briciola di respiro e pure con un vago senso di colpa.
Oggi guardo indietro e non posso che sorridere, quasi con sarcasmo: com’è stato possibile accettare un modello di vita così storto? Un sistema che ci insegna che la dignità sta nel produrre, non nel vivere. Come se la gioia fosse un premio e non un diritto.
La mia svolta è arrivata 11 anni fa, quando ho avuto la possibilità più grande: vivere davvero del frutto del mio lavoro, senza più vergognarmi di desiderare tempo libero, viaggi, esperienze. Ho smesso di collezionare rimpianti e ho iniziato a collezionare tramonti, strade nuove, incontri che restano nella memoria più di qualsiasi giornata passata a correre dietro a un’agenda.
Se potessi tornare indietro, avrei iniziato molto prima. Appena uscita da scuola avrei scelto questa vita più lenta, più intensa, più mia. Chissà quante cose avrei potuto respirare, conoscere, amare. Ma ciò che conta è averlo capito in tempo: io l’ho fatto a quarantadue anni, e da allora ogni giorno ha avuto un colore diverso.
La verità è semplice e rivoluzionaria allo stesso tempo: non siamo nati per correre fino allo sfinimento, ma per abitare il nostro tempo. Viaggiare, rilassarci, conoscere nuove culture, fermarci senza più ansia di dover rientrare. La vita non è fatta di giorni lavorati: è fatta di giorni vissuti. E quando arriverà il momento di congedarmi da questo mondo, potrò dire di aver scelto il modo più bello di indossare il tempo che mi è stato dato.
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