
22/08/2025
Il giorno in cui il Buddha non morì
Stamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul mio calendario digitale, un sussurro ancestrale nel frastuono della routine: Butsumetsu (仏滅). Per chi, come me, vive in Giappone, non è una semplice indicazione temporale, ma un portale su un mondo dove il tempo non era scandito solo da ore e minuti, ma anche dal respiro della fortuna e del presagio.
Il suo significato letterale - “la morte del Buddha” - è un velo drammatico, tanto potente quanto ingannevole. Lungi dall’affondare le radici nei sacri sutra del buddismo, la sua storia è un labirinto di assonanze e credenze popolari che conduce all’antica divinazione cinese. Il kanji 仏 (bustu), che siamo abituati ad associare a Buddha, e qui un semplice prestito fonetico, spogliato di ogni sacralità. E che il parinirvana di Shakyamuni, il quindicesimo giorno del secondo mese lunare, cada talvolta in un giorno di Bustumetsu? Pura coincidenza, un capriccio del calendario senza alcun legame con il rokuyō, il ciclo divinatorio, di sei giorni, che governa il flusso della sorte.
Il Butsumetsu è il nadir di questa danza di sei giorni che scandisce la fortuna: Senshō, Tomobiki, Senbu, Butsumetsu, Taian e Shakkō. Eppure, in questa gerarchia della sventura, non è solo. A conterdegli il primato è shakkō (赤口), un giorno che alcuni temono persino di più, forse perché i suoi kanji evocano immagini crudeli di sangue e fuoco. C'è chi lo considera più nefasto, interpretando il Butsumetsu come un giorno in cui “le cose giungono a termine”, mentre shakkō porterebbe con sé la minaccia di un “annientamento totale”. Nessuna sentenza definitiva: la percezione del peggiore veria, e la scelta è affidata a un equilibrio delicato tra presagio e consuetudine.
Tornando alle origini. Butsumetsu era scritto con kanji diversi: 物滅, “la fine delle cose”. Un concetto forse meno suggestivo della morte di Buddha, ma più fedele alla sua funzione: segnare la fine di un ciclo, rendendolo il giorno più nefasto per qualsiasi nuovo inizio. Nel Giappone del passato, l’influenza del rokuyō non era una semplice credenza, ma una forza invisibile che governava la vita. Nessuno avrebbe osato celebrare un matrimonio, inaugurare un’attivita o traslocare in un giorno di Butsumetsu. Era un imperativo sociale che dettava i ritmi dell’esistenza, decidendo i giorni di festa e quelli di attesa, i momenti per agire e quelli per astenersi da qualsiasi azione.
Oggi, tra l’acciaio e il vetro delle metropoli, il rokuyō è scivolato da dogma a superstizione, una consuetudine culturale più che un obbligo. Eppure, la sua ombra si allunga ancora sulla vita delle persone. Le sale per matrimoni offrono sconti vertiginosi a coppie abbastanza audaci - o razionali - da sfidare la sorte, mentre molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, non prendono decisioni importanti senza prima consultare il calendario.
Per molti di noi, inghiottiti dalla fretta e dalle scadenze, Butsumetsu è poco più di una nota a margine del nostro tempo efficiente e secolarizzato. Ma vederlo scritto lì, accanto ai miei appuntamenti, è stato un promemoria: anche nella più spinta modernità, il passato non svanisce. Resiste come un’iscrizione silenziosa, un invito a ricordare che ogni giorno porta con sé non solo un numero, ma anche un’anima e una storia.
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