Yoka Yoka Nippon

Yoka Yoka Nippon Scopri il Giappone a 360°! Che tu sia un esperto o un semplice curioso, qui troverai uno spazio dedicato alla cultura giapponese in tutte le sue sfaccettature.

Storia, cultura, mondo del lavoro e tradizioni. La mia passione per la storia e la cultura giapponese, nata ai tempi del liceo, mi ha portato a iscrivermi al corso di laurea in Lingue e Istituzioni Economico Giuridiche dell’Asia Orientale presso Ca’ Foscari di Venezia. L’opportunità di studiare in Giappone ha consolidato il mio interesse, sfociando in una tesi sulla legislazione marittima giappone

se. Dopo un’esperienza lavorativa nel settore editoriale, ho colto l’occasione di trasferirmi in Giappone per lavorare nel settore navale. Dal 2013 vivo e lavoro qui, continuando a approfondire lo studio dello Shintoismo e del Buddismo giapponesi. Nel tempo libero, scrivo articoli per divulgare queste affascinanti culture.

Il giorno in cui il Buddha non morìStamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul...
22/08/2025

Il giorno in cui il Buddha non morì

Stamattina, tra le righe asettiche degli impegni di lavoro, una parola è balenata sul mio calendario digitale, un sussurro ancestrale nel frastuono della routine: Butsumetsu (仏滅). Per chi, come me, vive in Giappone, non è una semplice indicazione temporale, ma un portale su un mondo dove il tempo non era scandito solo da ore e minuti, ma anche dal respiro della fortuna e del presagio.

Il suo significato letterale - “la morte del Buddha” - è un velo drammatico, tanto potente quanto ingannevole. Lungi dall’affondare le radici nei sacri sutra del buddismo, la sua storia è un labirinto di assonanze e credenze popolari che conduce all’antica divinazione cinese. Il kanji 仏 (bustu), che siamo abituati ad associare a Buddha, e qui un semplice prestito fonetico, spogliato di ogni sacralità. E che il parinirvana di Shakyamuni, il quindicesimo giorno del secondo mese lunare, cada talvolta in un giorno di Bustumetsu? Pura coincidenza, un capriccio del calendario senza alcun legame con il rokuyō, il ciclo divinatorio, di sei giorni, che governa il flusso della sorte.

Il Butsumetsu è il nadir di questa danza di sei giorni che scandisce la fortuna: Senshō, Tomobiki, Senbu, Butsumetsu, Taian e Shakkō. Eppure, in questa gerarchia della sventura, non è solo. A conterdegli il primato è shakkō (赤口), un giorno che alcuni temono persino di più, forse perché i suoi kanji evocano immagini crudeli di sangue e fuoco. C'è chi lo considera più nefasto, interpretando il Butsumetsu come un giorno in cui “le cose giungono a termine”, mentre shakkō porterebbe con sé la minaccia di un “annientamento totale”. Nessuna sentenza definitiva: la percezione del peggiore veria, e la scelta è affidata a un equilibrio delicato tra presagio e consuetudine.

Tornando alle origini. Butsumetsu era scritto con kanji diversi: 物滅, “la fine delle cose”. Un concetto forse meno suggestivo della morte di Buddha, ma più fedele alla sua funzione: segnare la fine di un ciclo, rendendolo il giorno più nefasto per qualsiasi nuovo inizio. Nel Giappone del passato, l’influenza del rokuyō non era una semplice credenza, ma una forza invisibile che governava la vita. Nessuno avrebbe osato celebrare un matrimonio, inaugurare un’attivita o traslocare in un giorno di Butsumetsu. Era un imperativo sociale che dettava i ritmi dell’esistenza, decidendo i giorni di festa e quelli di attesa, i momenti per agire e quelli per astenersi da qualsiasi azione.

Oggi, tra l’acciaio e il vetro delle metropoli, il rokuyō è scivolato da dogma a superstizione, una consuetudine culturale più che un obbligo. Eppure, la sua ombra si allunga ancora sulla vita delle persone. Le sale per matrimoni offrono sconti vertiginosi a coppie abbastanza audaci - o razionali - da sfidare la sorte, mentre molti, soprattutto tra le generazioni più anziane, non prendono decisioni importanti senza prima consultare il calendario.

Per molti di noi, inghiottiti dalla fretta e dalle scadenze, Butsumetsu è poco più di una nota a margine del nostro tempo efficiente e secolarizzato. Ma vederlo scritto lì, accanto ai miei appuntamenti, è stato un promemoria: anche nella più spinta modernità, il passato non svanisce. Resiste come un’iscrizione silenziosa, un invito a ricordare che ogni giorno porta con sé non solo un numero, ma anche un’anima e una storia.



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Dov'è finita la nostra giovinezza?C'è una domanda che ha aleggiato come un fantasma tra le macerie del Giappone post-bel...
21/08/2025

Dov'è finita la nostra giovinezza?

C'è una domanda che ha aleggiato come un fantasma tra le macerie del Giappone post-bellico. Un sussurro diventato un grido sordo, carico di rabbia e smarrimento, che appartiene a un’intera generazione:

「うちの青春どこにいった!」

“Dov’e finita la nostra giovinezza?”

Immagina di avere quindici anni. I tuoi sogni non sono fatti di amori, musica o feste con gli amici. I tuoi sogni sono stati cancellati. Per i ragazzi e le ragazze cresciuti nel Giappone degli anni ‘30 e ‘40, l'adolescenza fu un furto. I banchi di scuola vennero sostituiti con i torni delle fabbriche di munizioni, i campi vennero arati da mani adolescenti al posto di quelle di padri e dei fratelli, inghiottiti dal fronte. Alle ragazze, a cui si insegnava l’ideale ryōsai kenbo, ovvero della “buona moglie, madre saggia”, fu chiesto di diventare operaie o, nel peggiore dei casi, con l’inganno di sacrificare il proprio corpo come “donne di conforto”. La gioventù divenne semplicemente un’altra risorsa da consumare per la guerra.

L’ideale per cui tutti si stavano sacrificando - un Giappone divino, invincibile e guidato da un Imperatore-dio - si frantumò nel modo più crudele e assordante. La colonna sonora delle loro notti non era musica, ma la nenia metallica dei bombardieri B-29. Le loro città non erano luoghi di incontro, ma inferni di fuoco. Poi, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki scavarono un solco incancellabile nella loro anima, mostrando la vulnerabilità terrificante di tutto ciò in cui erano stati costretti a credere. La resa del 15 agosto 1945 non portò la pace. Porto un silenzio assordante, e un vuoto.

Il disorientamento fu totale. Le loro guide, i loro valori, i loro idoli: tutto era crollato, rivelandosi un castello di menzogne. Scrittori come Dazai Osamu diventarono lo specchio di un’anima collettiva in frantumi, dando voce a una gioventù che si sentiva profondamente tradita. Il ritorno dei soldati, spesso mutilati nel corpo e nello spirito, non fece che confermare la catastrofe. Chi erano adesso? Orfani non solo dei genitori, ma di un’intera nazione. Molti si ritrovarono a vagare per le strade di un paese in rovina, lottando per una ciotola di riso al mercato nero, con l’unica certezza di aver perso tutto.

La loro domanda, “Dov’e finita la nostra giovinezza?”, non era semplice nostalgia. Era un’accusa gridata con la gola secca contro il mondo degli adulti che li aveva ingannati. Al posto dei ricordi del primo amore, c’erano le immagini delle città in fiamme. Al posto delle gite scolastiche, il ricordo della fame. Al posto delle fotografie felici, il volto dei morti.

Eppure, cosa fai quando hai toccato il fondo? O ti lasci affogare, o usi quel fondo per darti la spinta per risalire. Da quell’abisso di disperazione nacque una rabbiosa, disperata voglia di rivalsa. Non una vendetta militare, ma una spinta incontenibile a creare. Se la guerra aveva distrutto la loro giovinezza, loro avrebbero usato la loro vita adulta per costruire un futuro dalle ceneri.

Questa determinazione divenne il motore del miracolo economico giapponese. La stessa disciplina ferrea e lo stesso spirito di sacrificio, prima incanalati verso la distruzione, furono riconvertiti in una forza costruttiva senza precedenti. Quella generazione lavorò fino allo sfinimento, riversando nelle fabbriche, negli uffici e nelle università tutta l'energia che non aveva potuto esprimere. Ricostruirono le città, ma soprattutto l’orgoglio di una nazione.

La loro rivalsa fu anche culturale. Rigettando con forza il militarismo che li aveva traditi, si aggrapparono ai nuovi ideali di pace e democrazia. Registi come Kurosawa iniziarono a esplorare le cicatrici delle guerra, cercando un barlume di umanità tra le rovine. La letteratura si fece più intima, mettendo al centro l’individuo e il suo smarrimento.

La giovinezza rubata non venne mai restituita. Rimase un’ombra lunga, un dolore sordo che li accompagnò per tutta la vita. Ma nella fatica della ricostruzione, nel successo di un’economia che sbalordì il mondo e nella creazione di una società pacifica, quella generazione trovo il proprio riscatto.

Dov'è finita la loro giovinezza? Non è mai più tornata. Ma al suo posto, mattone dopo mattone, hanno costruito il Giappone moderno. E questa fu la loro, silenziosa e grandiosa, risposta.



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La crepa nel tempoEsistono parole che non sono semplici suoni, ma crepe nel tessuto del tempo. "Taegataki o tae, shinobi...
15/08/2025

La crepa nel tempo

Esistono parole che non sono semplici suoni, ma crepe nel tessuto del tempo.

"Taegataki o tae, shinobigataki o shinobi"

“Sopportare l’insopportabile, tollerare l’intollerabile”

Non è una massima filosofica distillata in un tempio, ma il ronzio che emerge dal fruscio di una radio, la voce di un “dio” che per la prima volta si fa uomo, parlando una lingua quasi straniera al suo stesso popolo. In quell’istante, si consumò un cortocircuito di magnitudo cosmica. Un intero sistema, costruito su un asse di divinità, onore e vittoria certa, viene attraversato da una corrente di voltaggio elevatissimo: la realtà. E il sistema va in frantumi.

L'incomprensione non fu solo un limite tecnico, un difetto della trasmissione o un arcaismo del lessico. Fu lo specchio perfetto del momento. Come poteva una mente, forgiata per anni nel crogiolo dell’eroismo, del sacrificio totale come unico esito onorevole, decifrare un messaggio la cui essenza era la negazione di tutto ciò? La voce parlava di fine, ma le orecchie, abituate solo agli anni di guerra, sentivano un incitamento alla resistenza finale. La lingua stessa, così aulica e distante, proteggeva la psiche collettiva dall’impatto diretto, creando un cuscinetto di confusione e disturbo tra la coscienza individuale e l’abisso. Qualcuno, dall’alto di un trono che tremava, aveva deciso. Ma quella decisione, per poter essere accettata, doveva essere incompresa, metabolizzata lentamente e con i giusti tempi, come un veleno che per salvare deve prima quasi uccidere.

Ecco il cuore del cortocircuito: un ordine di sopravvivenza dato a un popolo programmato per morire. “Tollerare l’intollerabile” non significava semplicemente arrendersi. Significava disinnescare l’istinto all’autodistruzione, l’impulso a trasformare le ceneri in un’ultima, abbagliante fiammata di gloria. Significava guardare in faccia l’umiliazione, la perdita, la fame, la distruzione di ogni certezza, e scegliere di restare. Non per viltà, ma per un atto di resistenza ancora più profondo e straziante: la resistenza contro il nulla. Qualcuno aveva deciso che la nazione doveva sopravvivere, anche a costo di perdere la sua anima mitologica, per poterne forgiare una nuova, umana, fragile, storica.

In quel silenzio carico di domande che segui la trasmissione, in quella quasi paralisi collettiva, inizia la riscrittura. Il primo capitolo della nuova storia non è scritto con l’inchiostro, ma con il respiro trattenuto di chi sopporta. Sopportare l’insopportabile diventa l’atto fondativo, il nuovo codice. È un processo attivo, una fatica immane che trasforma il trauma in fondamento. Il sistema è distrutto, i suoi idoli sono infranti, le sue promesse evaporate. Ciò che resta e solo questo imperativo, queste parole che fluttuano sulle rovine: continuate a esistere anche quando l’esistenza stessa e un’offesa. È da questo paradosso, da questa contraddizione vivente, che un popolo smette di essere la manifestazione di un’idea divina e inizia il lungo, doloroso cammino per diventare, semplicemente, sé stesso.



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La casa attendeOgni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile ...
13/08/2025

La casa attende

Ogni volta che sento qualcuno definire l’Obon come la “festa dei morti” giapponese, un’ondata di sottile irritazione si mescola al ricordo del mio stesso imbarazzo. Perché quell’errore, quella superficiale etichetta, un tempo era anche la mia. Appena giunto in Giappone, archiviai la questione con la medesima superficialità, adagiandosi in un parallelo comodo e rassicurante. Pensavo: “Certo, un momento per onorare i defunti. Come da noi”. Ma la verità è che non avevo compreso nulla. Stavo guardando la luna, ma vedevo solo il dito che la indicava.

Fu solo partecipando al mio primo Obon nel furusato, il paese di origine della famiglia di un collega, che l’impalcatura della mia certezza iniziò a vacillare. L’aria non era greve di lutto, né impregnata di quella solennità malinconica che la mia cultura mi aveva insegnato ad associare alla morte. Certo, aleggiava un rispetto profondo, un pensiero commosso, ma l’emozione dominante era un’altra: un’attesa vibrante, una letizia serena, quasi elettrica. Era l’atmosfera di chi si prepara a riabbracciare una persona cara dopo un lungo, lunghissimo viaggio.

Ho capito allora che l’equivoco fondamentale risiede nel nostro stesso concetto di “morte”, che è quasi sempre una cesura, un punto di non ritorno. I defunti appartengono al passato; sono presenza da commemorare, figure da compiangere. Qui, durante l’Obon, non si commemorano i “morti”. Si accolgono a braccia aperte i sorei, gli spiriti venerati degli antenati, che non sono entità incorporee o spettri inquieti del folklore, ma sono a tutti gli effetti membri della famiglia, temporaneamente residenti altrove.

L’intera ritualità non è un atto di commemorazione, bensì una preparazione attiva e gioiosa al ricongiungimento. Quando accendiamo il mukaebi, il piccolo fuoco di benvenuto, non stiamo eseguendo un rito scaramantico per placare chissà quali entità. Stiamo accendendo la luce del portico per i nostri nonni e bisnonni, un gesto d’amore puro che sussurra: “La strada di casa è questa. Vi stiamo aspettando”. L’altare domestico, il butsudan, smette di essere un sacrario funebre per trasformarsi nel cuore pulsante della casa, la tavola ideale attorno alla quale tutti siedono, vivi e antenati, condividendo lo stesso sacro spazio.

E poi c'è il Bon Odori. La prima volta che vidi centinaia di persone danzare al ritmo febbrile dei taiko, la mia logica occidentale andò in cortocircuito. Una danza? In una “festa dei morti”? Eppure, nessuno danzava con mestizia. I volti erano sorridenti, i gesti carichi di energia, la gioia era un’onda contagiosa. È una coreografia di gratitudine, un omaggio danzato per intrattenere gli ospiti d’onore, per celebrare il miracolo di essere di nuovo tutti insieme, sotto lo stesso cielo estivo.

Definire l’Obon “festa dei morti” significa appiattire questa realtà complessa e meravigliosa, svuotandola del suo significato più profondo. Significa ignorare il concetto cardine della continuità della famiglia. La famiglia non è la somma degli individui presenti, ma un lignaggio ininterrotto, un fiume di cui gli antenati sono la sorgente e noi il corso attuale. L’Obon e la celebrazione di questo fiume, il momento in cui percepiamo più forte la corrente che ci unisce a chi ci ha preceduto. Non è un volgersi indietro verso ciò che è concluso, ma un percepire, qui e ora, la presenza di ciò che non ha mai fine.

Oggi quando sento quella definizione, non avverto più solo irritazione, ma una sincera compassione per l’orizzonte che a quella persona rimane precluso. Sta riducendo una profondo modo di vivere la vita a una semplice data di calendario. No, questa non è una “festa dei morti”. È la festa della famiglia. È il celebrare la vita che prosegue, imperterrita e coesa, al di là di ogni mondo.

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L’anima delle vetteOggi, qui in Giappone, si celebra lo yama no ho, il “giorno della montagna”. Questa ricorrenza istitu...
11/08/2025

L’anima delle vette

Oggi, qui in Giappone, si celebra lo yama no ho, il “giorno della montagna”. Questa ricorrenza istituita ufficialmente solo nel 2016, e in realtà l’eco di un legame millenario, un dialogo silenzioso e costante tra un popolo e le vette che ne definiscono l’orizzonte. Non è una semplice festa sul calendario, ma il riconoscimento di una presenza che è al contempo fisica e spirituale, un pilastro dell'identità giapponese.

In Giappone, le montagne non sono mai state semplici ammassi di roccia e terra. Da sempre, sono state percepite come una soglia verticale, una scala verso il cielo dove il mondo umano sfiora quello divino. Nello shintoismo, le cime più imponenti sono considerate shintai, il corpo stesso delle divinità, o kannabi, luoghi sacri dove dimorano i kami. L’ascesa alla vetta non è mai stata un mero atto sportivo, quanto un pellegrinaggio, un percorso di purificazione. Ogni passo verso l’alto e un passo verso il sacro, un modo per lasciare alle spalle l'impurità del mondo terreno e avvicinarsi all’essenza divina. Il Fuji-san, con la sua perfezione conica, non è solo un vulcano: è un'icona sacra, un mandala naturale che ha ispirato innumerevoli artisti, poeti e mistici.

Questo senso del sacro si è poi fuso con il buddismo, che ha trovato sulle montagne il luogo ideale per la meditazione e l'ascetismo. I templi si annidano tra le foreste di cedri secolari, i sentieri si snodano verso pagode nascoste, disegnando un paesaggio dove natura e spiritualità sono inseparabili. Le montagne sono diventate il terreno di prova per gli yamabushi, i monaci asceti che, attraverso pratiche rigorose, cercano l’illuminazione attingendo forza e saggezza direttamente dalla potenza della natura selvaggia.

Tuttavia, l’importanza delle montagne non si esaurisce nella loro dimensione spirituale. È una presenza che plasma la vita quotidiana. Per secoli, sono state fonte di ogni risorse: legname per costruire case, templi e santuari, carbone per i focolari, acqua pura che sgorga per irrigare le risaie a valle. Interi paesaggi, i satoyama, sono sorti in simbiosi con le pendici dei monti, in un delicato equilibrio di utilizzo e rispetto. La montagna è madre e custode, una risorsa vitale che insegna i valori della gratitudine e della parsimonia.

Ancora oggi, questo legame profondo pulsa nella vita dei giapponesi. Fuggire dall’afa delle città per cercare il fresco delle alture, immergersi in un onsen vulcanico, ammirare il mutare delle foglie in autunno: sono tutte esperienze che riconnettono l’uomo moderno a questo ritmo ancestrale. Lo yama no hi è quindi soltanto un’occasione per un’escursione, ma un invito a fermarsi e ad ascoltare. A sentire il respiro della foresta, a percepire la stabilità della roccia sotto i piedi e a riconoscere, in quella maestosa immobilità, una parte fondamentale della propria anima. È un giorno per ricorda che, in un mondo che corre veloce, le montagne restano. Silenziose, potenti, eterne custodi di ciò che è veramente essenziale.



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La lama e il gattoNel silenzio ovattato di una veglia funebre giapponese, l’aria è densa del profumo dell’incenso e dell...
10/08/2025

La lama e il gatto

Nel silenzio ovattato di una veglia funebre giapponese, l’aria è densa del profumo dell’incenso e della sommessa recitazione dei sutra. Tutto parla di pace, di un distacco solenne. Eppure, in questo arazzo di gesti composti, un singolo oggetto, a occhi poco esperti, stona, quasi un paradosso: una lama. Posta sul petto del defunto, il cui capo è spesso rivolto a nord secondo un’usanza antica, essa brilla di una luce fredda in un ambiente di calde memorie. E lì tra la serenità della cerimonia si celano usanze antiche, nate da un sincretismo di credenze il cui esatto confine è ormai sfumato nel tempo.
Perché un’arma in un momento di resa? La risposta si nasconde in un nome, mamori - katana: la “lama protettrice”.

La sua funzione però non è marziale, ma spirituale, un ultimo scudo per l’anima in quel delicato passaggio che è la morte. Nel pensiero giappone la morte è una transizione, un passaggio durante il quale lo spirito del defunto è vulnerabile. La lama rappresenta una barriera contro l’invisibile, contro gli akuryō, spiriti maligni che la credenza vuole si affollino ai confini della vita, pronti a ghermire uno spirito divenuto vulnerabile. Ma il suo compito non si esaurisce qui. Come un eco delle antiche tradizioni samurai, in cui la spada purificava e proteggeva, questa lama diventa un’estensione della cura dei vivi, un guardiano che veglia non solo all'anima del defunto, ma anche sui familiari, difendendoli, secondo la tradizione shintoista dall’aura impura, recidendo il kegare, l'impurità spirituale che la morte porta con sé. Per la fede buddista, la lama si trasforma in un amuleto per il sacro viaggio di quarantanove giorni che l’anima percorre prima di raggiungere la terra promessa. È come il bastone di un pellegrino per un sentiero che si percorre da soli, una promessa che il cammino sarà sicuro. Un guardiano silenzioso, una barriera incorruttibile tra il mondo dei vivi e le ombre che si annidano al confine con la morte.

Ma da cosa, esattamente, la mamori - gatana deve proteggere il defunto? È qui che tra tutte le paure senza nome e le ombre teologiche, che la minaccia più temuta prende una forma sorprendentemente familiare. Qui entra in scena il gatto.Nell’immaginario giapponese il gatto è una creatura ambivalente. Amata e venerata come portafortuna, il maneki-neko che invita la buona sorte, viene guardata con sospetto e timore quando la morte è vicina. Un’antica paura, radicata nel folklore, sussurra che se un gatto dovesse saltare sul corpo del defunto, potrebbe rubarne l’anima o, peggio, rianimarlo in una creatura mostruosa. Ed ecco che la lama lucente della mamori - gatana assume un ruolo ancora più specifico, diventando un neko - yoke, uno “scaccia gatti”. Sfruttando la credenza che i felini detestino gli oggetti scintillanti. Il bagliore metallico della lame, freddo e così alieno alla morbidezza della vita, si crede tenga a distanza l’animale, considerato in questo contesto un tramite per le forze oscure.

Questa non è una semplice superstizione, ma il riflesso di un terrore più profondo, quello per il kasha, un demone del folklore dalle sembianze di un gatto gigante avvolto dalla fiamme. Si narra che discenda dai cieli su un carro infuocato per rapire i cadaveri dei peccatori, negando loro persino il rito della cremazione. Il gatto che sonnecchia accanto al focolare diventa così la potenziale incarnazione di questo orrore cosmico. Il nesso a questo punto, si svela in tutta la sua drammaticità: la vulnerabilità della morte, la minaccia incarnata dal gatto e la lama come unica, estrema difesa.

La veglia giapponese si rivela così non solo una cerimonia di commiato, ma un rituale attivo di protezione. E in quel singolo gesto, nel posare la lama sul petto di una persona amata, convergono la fede, la storia e la superstizione. Che la si veda come un amuleto, purificatore o scudo, nella mamori - gatana risiede un unico, potente desiderio che unisce ogni credenza: la volontà di proteggere. La lama non è più un simbolo di violenza, ma l’ultimo disperato atto di cura, un sigillo contro antiche paure, per garantire che il viaggio finale sia sereno e indisturbato, lontano dall’ombra ambigua di un felino e dai demoni che esso potrebbe evocare.

Disclaimer

Una significativa eccezione a questa usanza è rappresentata dalla setta Jōdo Shinshū (la setta più diffusa in Giappone), o Buddismo della Terra Pura, che non prevede l’uso della mamori - gatana. La ragione risiede nel cuore della teologia stessa della setta, secondo cui il defunto non affronta un viaggio incerto, ma rinasce istantaneamente nella Terra Pura grazie al voto compassionevole di Amida Nyorai. Maestro di tutti i Buddha, ha infatti giurato di un raggiungere la propria illuminazione definitiva finché anche l’ultimo degli esseri senzienti non sarà stato salvato. Poiché si crede che la sua salvezza sia già compiuta, la fede in lui garantisce a tutti il raggiungimento dello stato di Buddha.
Di conseguenza concetti come l'impurità o la necessità di riti a sostegno dell’anima del defunto (i tsuizen kuyō) perdono di significato. L’assenza della lama non e dunque un divieto assoluto, ma una logica conseguenza: in un cammino già assicurato dalla promessa di Amida, una protezione terrena diventa semplicemente superflua, un gesto d’amore rispettato ma non necessario.

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Il vocabolario invisibile dell’affettoChi osserva le coppie muoversi nel paesaggio giapponese, percepisce quasi subito u...
08/08/2025

Il vocabolario invisibile dell’affetto

Chi osserva le coppie muoversi nel paesaggio giapponese, percepisce quasi subito un velo di riserbo, un’economia di gesti che all'occhio straniero può apparire come un’impressione di algida distanza. I corpi camminano in prossimità, ma raramente si toccano; le conversazioni fioriscono, ma senza i picchi e le valli emotive a cui altre culture sono avvezze. Si è spesso tentati di interpretare questo quadro con un alfabeto che non gli appartiene, di vedere assenza là dove invece risiede una diversa, e forse più profonda, presenza.

È come pretendere di udire una melodia composta per altri sensi. Perché l’amore, qui, spesso si spoglia della parola per indossare il silenzio. E la parola stessa, quando viene usata, possiede un peso specifico differente. L’espressione occidentale “ti amo” è come una moneta corrente, a volte troppo leggera, che suggella l’istante. La sua eco giapponese, “aish*teru”, è invece una soglia sacra, una vertigine. Non è una dichiarazione, ma un evento, carico di una gravità quasi testamentaria. Pronunciare significa indicare una promessa nell'eternità, e per questo la ci custodisce nel profondo, riservando a momenti che forse non arriveranno mai.

La vita affettiva usa un altro lessico, quello del “suki desu”, un “mi piaci” che è in realtà un calmo riconoscimento, un porto sicuro che afferma il legame senza scatenare la tempesta. Poiché la parola è così densa, la vera comunicazione trasmigra altrove, in un regno quasi telepatico descritto dal concetto di “ishin-denshin”: “da un cuore, a un altro”. È l’ideale sublime di una connessione così pura da rendere la parola superflua; l’amore non si dichiara, ma si anticipa.

Così, una dichiarazione può assumere la forma di un ofuro, un bagno caldo, il cui vapore accoglie la stanchezza della sera prima ancora che essa venga confessata. Può avere il sapore di un tè o di un caffè preferito, apparso come per magia mentre stai controllando le ultime carte per la riunione del giorno seguente seduto sul divano. Può essere il peso confortante del silenzio, condiviso su un treno affollato, dove la sola presenza diviene l’unico linguaggio necessario. Questi non sono solo semplici gesti, ma manifestazioni di una specifica lettura dell’anima. Chiedere, esplicitare il bisogno, romperebbe l’incantesimo, ammettendo un fallimento di quella connessione che è alla fine la prova stessa del legame.

E in questo spazio di fiducia quasi assoluta, fiorisce un altro fiore enigmatico: amae, una forma di indulgente dipendenza. È il permesso tacito di mostrare una vulnerabilità quasi infantile, un capriccio, non come un segno di debolezza, ma come la sonda gettata nella sconfinata profondità della fiducia reciproca. L’atto di lamentarsi per un’inezia o di mostrarsi momentaneamente inetti diventa quasi rituale. La risposta, sempre indulgente e quasi protettiva, non è sottomissione, ma la più potente delle rassicurazioni come a voler dire:” il nostro legame e un rifugio così sicuro da poter accogliere anche questa tua fragilità".

L’occhio frettoloso non scorgerà che la superficie di questa danza. Vedrà solo due figure che non si cercano la mano in pubblico. Ma sotto quella quiete si cela un romanticismo che non ha bisogno di fuochi d’artificio, un fuoco che non necessita delle fiamme per testimoniare il proprio calore. È un'intimità intrecciata in migliaia di silenzi carichi di significato, di cure e di una complessa armonia tra protezione e abbandono. L’apice del sentimento, forse, non è trovare le parole giuste, ma raggiungere insieme quel luogo dove le parole non sono piu necessarie.



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Sasebo-shi, Nagasaki

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