17/11/2025
Anche Milano vieta gli smartphone in pista
La nightlife milanese sperimenta il ritorno al passato senza nostalgia: musica analogica, tecnica pura e zero schermi accesi
Il primo novembre è il giorno dei morti. E della fine in una certa nightlife dell’uso smodato degli smartphone perché segna un punto di svolta nella scena clubbing milanese. Allo Spazio_Diaz, in pieno centro storico, debutta 12 Inch, un progetto che non si limita a celebrare il vinile come feticcio vintage ma ne rivendica la centralità estetica e tecnica in un panorama dominato da automazioni digitali e performance algoritmiche.
Otto ore e mezza di musica, dalle 23:30 alle 08:00, costruite esclusivamente su dischi a 33 e 45 giri, senza alcun supporto elettronico di sincronizzazione. Una scelta radicale che interroga il presente della cultura dance e rimette in discussione cosa significhi davvero suonare in un club.
Dietro l’iniziativa ci sono tre nomi che hanno attraversato decenni di club culture italiana ed europea. Ricky Montanari, pioniere della house romagnola cresciuto tra le consolle del Peter Pan di Riccione, dell’Echoes di Misano Adriatico e del Matis di Bologna, con un curriculum che include Tokyo, Miami, Barcellona e Amsterdam. Simon T, dj e producer milanese con oltre dieci anni di attività tra Berlino, Ibiza, Londra e Kiev, co-fondatore della label Dub Musik e riconosciuto per una cifra stilistica che fonde groove ipnotici e ricerca sonora. E poi Flavio Vecchi, icona storica della scena italiana, protagonista dell’Ethos Mama Club e dell’Echoes, ideatore degli after-hour leggendari come Diabolika e Vae Victis, figura che ha contribuito a definire l’identità della house music nel nostro paese.
Il manifesto di 12 Inch non è solo musicale ma anche politico, nel senso più ampio del termine. La rigorosa no phones policy non è un vezzo retrò ma una presa di posizione netta contro la spettacolarizzazione del clubbing contemporaneo, dove la documentazione social prevale sull’esperienza fisica. All’ingresso vengono consegnati bollini sigillanti da applicare sugli smartphone, un gesto simbolico che delimita uno spazio di sottrazione volontaria, un territorio in cui il corpo, il suono e la luce tornano a essere i protagonisti assoluti. Niente Instagram stories, niente riprese, niente distrazioni luminose: solo immersione totale nel flusso musicale.
La scelta del vinile come unico supporto non è nostalgica ma tecnica. Il disco impone tempi di reazione, obbliga alla lettura fisica del solco, costringe a una selezione ponderata e irreversibile. Ogni cambio è un gesto pubblico, ogni mix un equilibrio fragile che si gioca in tempo reale. Non c’è possibilità di correzione automatica, non esistono safety net digitali: il dj è “nudo” di fronte al dancefloor, esposto al rischio dell’errore ma anche alla possibilità dell’irripetibile. È una condizione di vulnerabilità che ribalta completamente il paradigma delle performance contemporanee, dove il controller e il laptop garantiscono controllo assoluto e prevedibilità.
12 Inch si inserisce in un momento storico particolare per la nightlife italiana. Dopo anni di chiusure forzate, restrizioni sanitarie e una progressiva omogeneizzazione dei format, il clubbing sembra cercare nuove strade per recuperare autenticità e senso critico. Questo progetto non propone un semplice ritorno indietro ma una riflessione sul rapporto tra tecnologia, tecnica e narrazione musicale. Il vinile diventa qui uno strumento di resistenza culturale, un modo per riaffermare il valore della competenza, della selezione musicale come arte narrativa e della connessione diretta tra chi suona e chi balla.
I prezzi sono volutamente accessibili: da 10 a 15 euro in prevendita su Ticket Nation, venti euro alla porta. Una scelta che vuole mantenere aperta la serata a un pubblico ampio, non solo ai feticisti del vinile ma a chiunque sia curioso di sperimentare una dimensione del clubbing ormai quasi scomparsa. Resta da capire se 12 Inch sarà un episodio isolato o l’inizio di una tendenza più ampia. Il rischio del feticismo è sempre dietro l’angolo, così come la tentazione di trasformare l’analogico in un marchio di purezza elitaria. Ma se il progetto riuscirà a mantenere fede alle sue premesse, potrebbe davvero rappresentare un punto di riferimento per chi cerca alternative alla standardizzazione della nightlife contemporanea.