10/12/2025
UN CALICE PER CLAUDIO SAPORETTI di Mauro Bonanno
Ci sono uomini che attraversano il mondo come se fossero chiamati da un’antica voce, e che rispondono a quel richiamo con il passo lento e sicuro di chi sa che la conoscenza non è una meta, ma un respiro che si rinnova. Claudio è stato uno di questi uomini rari, un viandante dello spirito che portava con sé il silenzio delle biblioteche, il vento caldo del Vicino Oriente, il sorriso disarmante di chi ha visto la grandezza e non se ne è mai vantato. Da quando se n’è andato, il 10 novembre, ho l’impressione che una parte del mondo abbia improvvisamente taciuto: come se una luce si fosse spenta, lasciando tuttavia nell’aria la sua scia luminosa, un chiarore che non smette di guidare chi rimane.
Ripenso spesso alle telefonate, ai manoscritti inviati nell’ora più improbabile, alle correzioni fatte con quell’ironia colta che era il suo marchio segreto. C’era sempre un sorriso dietro le parole, anche quando il tema era arduo o quando la stanchezza si percepiva fra le righe. Il suo modo di stare al mondo mi è sempre sembrato una forma di equilibrio: tra l’uomo e il Maestro, tra lo studioso e il fratello, tra chi raccoglie le polveri della storia e chi le soffia via per rivelare ciò che conta davvero. È in quell’interstizio, in quel gesto lieve – quasi una carezza intellettuale – che si giocava la sua grandezza.
La sua vita è stata un pellegrinaggio di studio e passione: dall’onomastica assiro-babilonese, che per molti rimane una lingua di confine, quasi un paesaggio di pietre scritte da decifrare, fino alle avventure di scavo, alle campagne in Iraq, ai progetti pionieristici di digitalizzazione del cuneiforme. In lui convivevano rigore e audacia, come se ogni tavoletta fosse un messaggero del passato che Claudio accoglieva non da archeologo distante, ma da uomo che conversa con i fantasmi del tempo. Eppure, accanto a questo, c’era il Claudio che conoscevo io: il Claudio che rideva dei paroloni, che sapeva scherzare sull’accadico come se fosse un vecchio amico, che sapeva stupirsi ancora — e questo lo rendeva giovane, nonostante il peso nobile degli anni e delle opere.
Non dimenticherò mai il modo in cui parlava dei suoi libri, sempre come se li avesse solo accompagnati fino alla soglia, sapendo che una volta pubblicati non gli appartenessero più. Per Tipheret ha dato un contributo che non è solo bibliografico ma affettivo: ogni suo volume — da Abramo a Genesi, dai Sogni degli antichi alla Carriera di Inanna — porta con sé un pezzo del suo mondo interiore, quella mescolanza di curiosità bambina e disciplina sapiente che rendeva ogni sua pagina un ponte tra civiltà. Pubblicare Claudio non era mai solo un gesto professionale: era un rito condiviso, una conversazione idealmente infinita, un brindisi spirituale a ciò che resta di noi quando le parole trovano la loro forma.
E poi c’era l’uomo di loggia, il fratello del Rito Noachita, discreto e solido come certi pilastri che nessuno nota finché non mancano. Il suo modo di vivere la fraternità non era mai ostentato: era un sorriso, un cenno, una battuta che spezzava la gravità senza tradirla. In quei momenti sentivo che la sua conoscenza non era solo erudizione, ma una forma di saggezza antica, qualcosa che non si insegna né si impara ma nasce dentro, come un seme che affonda le radici nella parte migliore di noi.
Quando è mancato, stava lavorando al suo Cefa. Il primo Papa, un libro che attendeva con la trepidazione di un dono da consegnare. Non ha potuto vederlo compiuto, ma credo — e lo credo profondamente — che un libro sia vivo anche prima di essere stampato, che abbia un suo modo misterioso di esistere nel pensiero e nel cuore di chi lo scrive. Cefa è l’ultima parola che ci ha affidato, ed è per me come un testimone, un’eredità che non pesa ma che invita a continuare, a custodire quella scintilla che lui sapeva accendere nei dialoghi, nei progetti, nei sogni.
Mi manca la sua voce, la sua presenza che arrivava come un raggio obliquo in una stanza troppo piena; mi manca la leggerezza con cui sapeva riportare ogni cosa alla sua giusta misura; mi manca la sua risata che aveva il sapore della terra e il colore della memoria. Ma sento che Claudio non è davvero andato via: continua a camminare accanto a noi, nelle sue pagine, nelle storie che ha raccontato, nelle vite che ha toccato senza clamore. E se oggi lo ricordo così, con questa commozione che stringe il fiato, è perché la fraternità ha la stessa forza delle acque antiche che lui studiava: unisce, scava, resiste.
Per questo, mentre il suo ultimo libro prende la via del mondo, mi piace immaginare che Claudio lo guardi da qualche luogo senza tempo, con quel sorriso che conoscevo bene, e che ci dica – con un’alzata di spalle e una punta di ironia – di non prenderci troppo sul serio, ma di prendere sul serio la ricerca, la conoscenza, il cammino.
E allora, fratello mio, Maestro e amico, questo ricordo è il mio modo di continuare quella conversazione che la tua assenza non può interrompere.
Finché ci sarà qualcuno che apre un tuo libro, finché ci sarà una mente che si accende leggendo il tuo nome, tu continuerai a esserci. E noi, con gratitudine e affetto, continueremo a camminare con te.