09/12/2024
Un viaggio tra terre ed epoche lontane, tra l'Italia e l'Egeo, alle radici di culti, riti e credenze legati a Dee e madonne.
Articolo apparso nel primo volume della nostra rivista Perennitas.
Copie ancora disponibili.
Nella notte tra il 9 e il 10 Dicembre, sulla costa adriatica marchigiana, vengono accesi falò dedicati alla "Madonna Nera". Pur non volendo sostenere una equivalenza o continuità tradizionale perfetta tra queste usanze del cattolicesimo popolare e i Culti Patrii, condividiamo questo nostro vecchio articolo, che potrebbe far luce sulle più antiche origini di questi riti e credenze:
LA DEA DEI TRE MONDI
(articolo di Federico Fregni apparso sul nº 1 della rivista Perennitas, edita da I libri del Graal. Copie ancora disponibili.)
Concluso è da poco il mese di Febbraio, dalla duplice natura e ultimo mese del calendario arcaico dei Romani e dei Latini. Un mese freddo e ancora oscuro, portatore di malanni e febbri e nel quale le ombre dei defunti e fauni selvaggi, tra spettrali processioni carnevalesche, possono irrompere nel mondo ordinato dei viventi, gettandolo nello scompiglio. Eppure, la gran parte delle tradizioni europee, compresa quella romana e italica, hanno sempre associato Febbraio al ritorno della Luce, ad una sorta di ‘primavera fredda e luminosa’, capace di purificare e mondare via le scorie dell’Inverno e di far ripartire nuovamente il ciclo vitale della Terra. A questa nuova venuta al mondo della luce e delle energie vitali presiede, per tutti i popoli tradizionali della nostra regione del mondo, una Dea; una e triplice, molteplice, dai molti nomi, dalla bella prole, Madre di tutte le Anime e di tutte le forme scaturite dal Padre Celeste, ivi compresi gli Dei stessi.
Se è vero che le tradizioni dell’Indo-Europa e del Mediterraneo europeo non hanno mai aderito a famigerati animismi e panteismi cari a letture primitiviste e sempliciste tipiche dell’antropologia degli ultimi due secoli, notiamo, nel caso del culto della Grande Dea, una sua natura estremamente poliedrica, multiforme, impalpabile e non totalmente descrivibile con categorie umane, compreso il trifunzionalismo dumeziliano. La Grande Madre, ben lontana dall’esaurire la sua funzione teologica nel mondo della generazione tellurico-biologica, umana e animale, opera in tutte le dimensioni dell’Essere: nel mondo spirituale, del quale è la Porta, la Ianua, nel mondo animico, della quale è causa e garante di ordine, nel mondo terreno e sotterraneo, dove duellano e si sposano Vita e Morte, tra cicli infiniti.
Come le anime umane viaggiano, ascendendo al mondo eroico o discendendo nel mondo fisico, “viaggia” anche la Dea, assumendo molti nomi e venendo celebrata dalle Genti nei modi più diversi. Vedremo, in queste scarne righe, come il suo culto si sia legato strettamente ai destini dell’Europa e di Roma, e di come una sua particolare veste abbia sempre unito l’Ellade, l’Italia primigenia e le perdute e a lei care terre d’Anatolia, da qualche secolo stravolte da nuove ondate di superstizioni mediorientali. Non intendiamo, qui, pretendere di esaurire questa materia in così poche pagine, ma piuttosto di incominciare un viaggio alla scoperta di un aspetto del Sacro tutt’altro che lontano, tutt’altro che esotico o dimenticato come i più potrebbero essere stati portati a credere. Un viaggio che intendiamo ripercorrere in più tappe, attraverso le parole di ben più di un narratore, che auspichiamo essere il più possibile ispirato da colei che è Madre anche delle nostre stesse lingue, dei nostri stessi carmina.
Cibele, Artemide, Ecate, Diana, Cupra, Reitia… sono soltanto alcune delle forme della Signora delle Montagne, ma sono tra loro forse i più legati dai filamenti del Fato, per quello che riguarda la nostra Identità storico-religiosa.
Partiremo dall’Anatolia dei Greci e dei T***ani, dei Frigi, dei Lidi e degli Ittiti, una terra per noi “orientale” che molto precocemente ha visto i segni delle nostre stesse civiltà occidentali. Qui troviamo la nostra Dea fin dai tempi più remoti, onorata sui monti e nelle foreste più luminose, dove la luce della Luna e del Sole filtra attraverso gli alberi secolari. Ella è fin da subito rappresentata assieme al Toro primordiale, forza vitale illimitata, nelle cui corna splende la luce dei Luminari celesti. Già in tempi pre-ellenici troviamo Cibele, l’Idea Mater, adorata sul Monte Ida, nei pressi di Ilio, e similari aspetti onorati in tutta la regione. Un santuario importantissimo è quello di Efeso, dove gli Ioni greci subentrarono e identificarono la loro Artemide con la divinità locale. Efeso divenne dunque “la casa di Artemide” e sede di un culto connesso a tutto ciò che “viene alla luce”, dunque, per derivazione, anche alla nascita biologica e alle puerpere.
Fin da subito Artemide, in particolare l’Artemide Efesina, onorata da sacrifici taurini e signora dei Tre Mondi, viene identificata con l’arcaica Ecate, deità popolare nella vicina Tracia e nella Grecia, forse di origine pelasgica. Ecate, a torto considerata unicamente come una divinità ctonia, infera, patrona di streghe e fantasmi, è colei che, per volontà di Zeus, possiede le Chiavi dell’intero Cosmo esistente. Soltanto con la sua guida e seguendo la sua Torcia è possibile ritrovare la strada dopo essere passati nel mondo dei morti; una torcia che illumina e purifica, e che tiene a bada le processioni di esseri involuti che si annidano nei meandri più bui dei mondi astrali. È piuttosto eloquente che tanto il mondo eccessivamente superstizioso del tardo ermetismo alessandrino, tanto quanto l’occultismo contemporaneo, abbiano visto in Ecate, fanciulla radiosa anche se algida e terribile, soltanto l’aspetto spaventoso che ella assume quando perseguita gli empi o quando si scaglia contro i Giganti e le forze caotiche anti-cosmiche. Un errore - o volontaria deviazione antitradizionale? - che pare aver colpito anche divinità indiane come Durga o Kālī… Sorvoliamo, infine, sull’interpretazione materialistico-psicologistica dell’interpretare Ecate con una ipotetica “Dea anziana” o con le tre età anagrafiche di una donna, e i danni che questa visione - per altro pure inconsistente dal punto di vista strettamente storico - ha prodotto nell’occultismo odierno. Grossomodo quanto, e ancor di più, l’errata interpretazione di Cibele come una sorta di “madre natura” gelosa e terribile, divoratrice e castratrice, patrona soltanto dell’abbondanza materiale e carnale, fraintendendo le pur barbariche pratiche religiose dei Frigi in età romana.
Ecate è legata con triplice filo all’Anatolia, alla Grecia e all’Italia. Il suo primo santuario conosciuto è a Lagina, in Asia minore. Quelle che a lungo fu considerata la prima raffigurazione triplice e tricorpore è stata realizzata da Alcamene, un artista ateniese, greco, originario di Lemno, isola dell’Asia Minore abitata da Tirreni originari, con buona probabilità, dell’Italia. Ed è appunto in Italia, a Selinunte, in area magnogreca e preclassica, che è stata recentemente ritrovata una immagine di Ecate Trivia più antica ancora. Ecate è centrale in tutti i Misteri della tradizione ellenica, in particolare quelli di Eleusi, di cui conosciamo perlomeno la narrazione mitologica in cui Ecate è guida di Persefone nell’Ade, e in quelli di Samotracia.
Se, come fu opinione di Dionigi di Alicarnasso, come è alluso in Platone e da parte di altri Greci, esclusa forse la narrazione erodotea, molti antichissimi luoghi di culto dell’area egea furono eretti o comunque frequentati da “Pelasgi” o “Tirreni” di provenienza italica e o balcanica, e quanto è vero che indubbiamente di stampo ellenico sono molti culti della Grande Dea in Italia, possiamo immaginare, senza voler pretendere di voler trovare il bandolo della matassa, che una comune sacralità unisse da tempo tre mari: Egeo, Adriatico e Tirreno, dove popoli e culti si incontravano, tanto nei periodi di guerra che in quelli di pace.
Vediamo infatti come elementi di cultura micenea visitarono l’area adriatica di Spina, in Emilia, e di Este e Padova, nel Veneto, in parte Greci e in parte “Pelasgi” ellenizzati, che potremmo identificare con quei Popoli del Mare che occuparono T***a e terrorizzarono per secoli il Mediterraneo orientale. Ecate è dunque nota anche qui, a fianco di una Signora locale: la dea Reitia, adorata in tutto l’attuale Triveneto e nelle Alpi delle attuali Baviera, Austria e Slovenia, ed è divinità nazionale tanto per gli italici Veneti, tanto per gli autoctoni Reti, un popolo montano simile agli Etruschi. Reitia, come Ecate, porta una chiave. È custode dei santuari in cui si apprende la scrittura venetica, derivante dall’etrusco. Ecate presiede alla purificazione e alle sorgenti curative (con il nome di Pora), ed è detta “Sanatrice” (Sainat). Come Ecate ha un profondo legame con il Fato e come le Tria Fata e le Moire intesse le anime come fossero un intreccio di fili, con il nome di Vebelis, la Tessitrice. Nel Veneto, e più a Nord, in area già celtica, con il nome di Noreia, divinità nazionale dei celto-italici Norici, il suo culto è strettamente connesso con quello dell’Ercole locale, che in parte presiede, nella sfera del maschile, a simili competenze divine di potestà sulle tre dimensioni. Un Ercole sempre in coppia con quel Toro primordiale, Tarvos, che da il nome al Passo del Tarvisio, forse strettamente imparentato al Tarkon degli Etruschi e al Toro protettore di Taruisia, la città di T***a. Reitia e Noreia, nell’interpretatio romana, sono a volte legate a Iuno Regina, talvolta a Minerva, spessissimo ad Ecate. Nella religione privata non sono mancati, da parte di elementi orientalizzanti, sincretismi con Iside. A fianco delle divinità squisitamente autoctone, il culto di eroi greci e troiani, come Antenore, Veneto di Plafagonia, amico e alleato di Enea, Diomede o Giasone. L’avventura degli Argonauti si confonde a volte con quella di Diomede di Argo, anch’egli detto “Giasone”, e le terre selvagge del lontano oriente boreale, del Mar Nero o dell’Anatolia settentrionale, nel mito, diventano intercambiabili con il nebbioso e occidentale Adriatico.
Sempre sulla stessa riva, nelle attuali Marche, troviamo la Dea Cupra, da qualcuno interpretata con Afrodite o forse più correttamente ritenuta più vicina alla Giunone Salvatrice sabina. Grande Dea delle montagne, domatrice di serpenti, ella ha lasciato il nome a ben due località, Cupra Marittima e Cupra Montana. Il suo culto si lega a doppio filo con quello della Sibilla Appenninica, e l’eco della sua presenza, eterna, continua nelle leggende medievali della Sibilla e di Alcina, sulle quali ritorneremo in seguito, come faremo per tutti i temi accennati in questo breve articolo.
La radice linguistica di Cupra, Cubrar, è strettamente connessa a Kubyleia, Kubaba, Madre della Montagna, vale a dire Cibele. Cibele che, assieme ad Ecate-Sibilla, ad Apollo e appunto ad Afrodite-Venere, è la guida e la protezione di Enea nel suo viaggio, da Oriente verso Occidente, verso “la terra da cui provengono gli Antenati”: l’Italia. Cibele, che aveva caro il Monte Ida in Anatolia e il suo omonimo monte a Creta, impedì, nell’Eneide, il disastro delle navi troiane, che erano costruite con il legno dei suoi monti. La Dea, però, nel simbolismo del Mito, “rimase in Asia” e non seguì immediatamente Enea nel ritorno nella patria ancestrale. Vi ritornò il 4 Aprile del 204 a.e.c., quando in seguito a un responso oracolare, nel momento buio delle Guerre Puniche, i Romani “riportarono l’Antica Madre”, quella Cibele ormai adorata in modo completamente diverso da quei Frigi, indoeuropei, sopraggiunti da secoli nell’area che fu troiana. Come i Dardanidi, gli avi di Enea, giunsero in Oriente da Occidente, per poi farvi ritorno di fronte all’espansionismo greco e alla caduta di T***a, non è impossibile che anche Cubrar, o meglio il suo culto, abbia veleggiato dall’Italia all’Egeo, per poi fare ritorno. Nei recessi montani dei Sibillini, invece, la Dea non sarebbe mai “partita”, ma avrebbe sempre mantenuto il suo regno, incurante delle peregrinazioni che interessarono l’Egeo e il Tirreno.
In realtà, risulta abbastanza fuorviante ricercare una forzata “origine prima” di questi culti o misteri. Per citare l’opera di un grande e misconosciuto antesignano della riemersione dei Fuochi Sacri dell’Occidente, ‘la Threicia’ di Quintus Nautius Aucler (1798), potremmo tranquillamente accettare che: “questi Misteri sono gli stessi in tutti i popoli, tanto che se qualche illustre emigrante recasse al popolo cui si unisce questi Misteri, scoprirebbe che questo popolo già ne possiede di suoi. Fu così che quando i Pelasgi portarono in Attica i Misteri di Samotracia, vi trovarono già stabiliti i Misteri di Eleusi. E’ questo ciò che volevano significare gli Ateniesi mostrando il masso triste su cui Cerere si sedette per riposarsi delle corse affannose alla ricerca della figlia: allegoria attraverso cui attestavano che i Misteri di Eleusi erano sorti in quel luogo medesimo. Allo stesso modo, quando Dardano recò questi Misteri da Samotracia a T***a, vi trovò già istituiti, sul monte Ida, i Misteri di Cibele, presieduti dai Coribanti. E chi li ha portati nei brumosi paesi del Nord Europa non ne ha forse trovati di originari?”
Se infatti proseguiamo nel nostro viaggio, per giungere al versante tirrenico e al lago di Nemi, uno dei luoghi fatali del Lazio, anche qui troviamo ancestralità aborigena, immemorialmente legata al territorio a fianco di storie e culti appena più tardi, dove compaiono forme ellenizzate, ed ovviamente tematiche proprie al mondo etrusco e latino. A Nemi, santuario federale dei Latini, regna l’arcaica e autoctona Diana, Iana e Ianua, luce filtrante tra le fronde di lecci ombrosi, Sole e Luna che si specchiano nel cerchio perfetto di un lago creato dal cuore di fuoco di Hesperia. Ma a Nemi giungono anche eroi del ciclo egeo, come Ippolito, nel quale frequentatori cumani e greci, a partire già dal VI secolo, vedono una precedente incarnazione dell’eroe autoctono Virbio, primo Re Sacro, e come il più noto Oreste, figlio di Agamennone, Re di Micene, che nel Lazio giunse a trascorrere gli ultimi giorni e le cui ceneri erano uno dei Pignora Fatalia, le Sette Cose Fatali di Roma. Ippolito e Oreste giungono in Italia per purificarsi e rinascere, letteralmente nel caso di Ippolito-Virbio, e non a caso sono guidati sui loro passi dalla Dea, giungendo in un luogo a lei caro. Ippolito viene da lei, da Diana identificata con la greca Artemide, direttamente salvato; Oreste viene guidato verso l’Italia dalla sorella Ifigenia, grande sacerdotessa di Artemide, che egli incontra, avendola creduta morta, nelle terre orientali della Tauride, l’attuale Crimea, un tempo considerata un’isola tenebrosa e nebbiosa a nord della sopracitata Anatolia. Artemide-Ecate dei Greci, dunque, guida un suo eroe in un luogo dove si venera una Diana italica anch’essa triplice, capace di purificare e mondare dalla hybris e far rinascere a nuova vita.
Ricordiamo Nemi anche a proposito della recente opera cinematografica Il Primo Re, del regista Matteo Rovere, un film in parte fantastico e in parte mito-storico sui Gemelli fondatori di Roma. Tra le tantissime licenze in materia di religione del Lazio antico che quest’opera si concede, è stato criticato dai più un riferimento alla Triplice Dea, apparentemente una concessione al neopaganesimo di matrice Wicca o a sorpassate teorie antropologiche. Non è, invece, un errore - tralasciando le forme cultuali, di fantasia - immaginare una profonda devozione per Diana Triplice da parte di un laziale protostorico, poiché la Diana di Nemi, Grande Dea dei primi Latini, ha proprio questo importantissimo attributo, talmente sentito da lasciare tracce, nei secoli, in alcune rappresentazioni religiose e laiche del territorio nemorense. Quanto è vero che una triplicità nella rappresentazione antropomorfa della divinità emerge con i precocissimi contatti con Cuma, a Roma già fondata, che introducono nell’area influenze magnogreche di un vero e proprio culto di Ecate con modalità elleniche preclassiche, è anche vero che una triplicità, trinità e trifunzionalità, teologicamente più profonda, è presente nell’Ecate greca fin da subito, come ben descritto nelle teogonie di Esiodo. Allo stesso modo, divinità femminili triplici sono presenti in area italica e celtica in un periodo immediatamente successivo a quello descritto, in modo onirico e fantastico, non realistico, nel film. In Grecia, le motivazioni che hanno portato all’adozione, precoce, di un’iconografia tricorpore, antropomorfa, hanno radici negli aspetti teologici di Ecate-Artemide. Lo stesso deve essere avvenuto in Italia per Diana Nemorense, che non a caso viene identificata fortemente con Ecate, tanto da essere la stessa entità nella narrazione di Virgilio, sempre attento, pur nell’interpretatio ellenistica, al mantenersi fedele alle arcaiche origini italiche.
Ma questo viaggio della Dea, trai trivi e gli incroci dei culti e della Storia dei popoli, è forse finito? La Dea è stata forse dimenticata, quando gli infami editti di Teodosio hanno proibito ai popoli d’Italia, d’Europa e del Mediterraneo di celebrare i sacri riti privati e pubblici, e la mano dei distruttori ha profanato persino i Misteri del santo Egeo? Noi crediamo di no, perché come Proserpina emerge ogni anno dall’Ade profondo, rinascendo come Flora, da Ecate guidata e dai Dioscuri protetta, nessuno sconvolgimento politico, sociale, persino religioso, può impedire a ciò che è sacro, fausto, di continuare ad irradiare le anime pie e meritevoli. Dee e Sibille, Ninfe e Camene, Lase e Fate, non hanno mai smesso di intessere i loro incanti; soltanto gli uomini, alcuni uomini, hanno smesso di ascoltarli, perdendo di vista la Fiaccola e vagando come ombre del Tartaro.
Abbiamo accennato ad Alcina e alla Sibilla, e alla loro memoria medievale e moderna; potremmo parlare, e parleremo approfonditamente in seguito, delle cosiddette streghe (e stregoni) dei secoli scorsi, come di sciamani dell’Italia di poche, pochissime, generazioni fa. Un caso, però, è emblematico per far luce su quanto la provvidenza degli Dei sia più forte dell’ignoranza e della tracotanza degli atei e dei dissacratori. Con il Concilio di Efeso, nel 431, una entità prima totalmente inesistente nel cristianesimo multiforme e anarchico delle origini, viene legata a Maria di Nazareth: la “Madonna”, una mediatrice tra l’entità considerata divina dei cristianesimi e l’umanità. Nei pressi di Efeso viene addirittura teorizzato che la madre di Ioshua il Nazereno visse gli ultimi anni della sua vita, e la sua ipotetica casa divenne una reliquia, lì dove si venerava la Casa di Artemide. Questa culto della “Casa di Maria”, quella di Efeso, o altre abitazioni ritenute originarie della Palestina, traslò poi in tutti i Balcani e infine raggiunse l’Italia, a Loreto. In tutti questi luoghi venivano venerate e incorporate nelle chiese delle abitazioni e una immagine della Madonna. Chiunque osservasse la Madonna di Loreto, oggi ben diffusa presso i trivi e gli incroci d’Italia, e una antica immagine dell’Artemide di Efeso può trarre facilmente le sue conclusioni, che non è nostra intenzione forzare. Chi scrive non ama il sincretismo immotivato e non ritiene sia possibile far convivere gli Dei di Roma, degli Italici e degli Arya con nessuna entità della corte di Geova o personaggio di sorta proveniente da narrazioni monolatriche e desertiche. Eppure, il fatto che il culto di una Signora, della pioggia e della neve, patrona di madri e anche di guerrieri, ultima guida dei morenti, ancora oggi ripercorra le stesse rotte geografico-sacrali, non può farci che piacere: che ciò sia un manifestarsi dei Fati divini anche nel più profondo pozzo dell’ignoranza o piuttosto, più probabilmente, un tentativo di mascherare e ritardare sempre di più il ritorno visibile della Luce, non è nostro compito sentenziarlo. Lasciamo ad altri condanne e certezze.
Invochiamo, piuttosto, come Ovidio nei suoi Fasti, la benevolenza di tutte le Dee e di tutte le Muse, per non scontentare nessuna di loro, per il viaggio della nostra Perennitas attraverso i luoghi e i miti d’Esperia, d’Europa e del mondo libero, siano esse Una, sia essa Trina, siano tutte loro il sorriso del Dio Sconosciuto, quando rivolge distrattamente il suo sguardo verso il mondo.