22/09/2025
Ieri parlavo con mia madre
mentre le sistemavo il busto
e le preparavo le medicine della mattina.
– «Che p***e ‘ste medicine» – mi fa.
– «Manda giù tutto e statte zitta, bellissima!» – le rispondo.
«Bellissima» ripete lei
e poi aggiunge ridendo:
– «Vecchia e rompicoglioni!»
Allora me la sono baciata sulla fronte
e ho sentito quella meraviglia che non so dire,
come se il tempo si fosse fermato un attimo
solo per lasciarmi respirare la sua anima.
Lei mi guarda e mi dice piano:
– «Invecchiare è strano, lo sai?
Dentro mi sento sempre la ragazza che correva scalza nei cortili
con le ginocchia sbucciate e il cuore pieno di niente e di tutto.
Ma il corpo ogni giorno mi ricorda che adesso sono un’altra.»
– «E ti fa paura?» – le chiedo.
– «No amore mio. Non più.
All’inizio ti arrabbi, ti senti derubata.
Poi capisci che il tempo non ruba,
trasforma.
Ti piega, sì,
ma per insegnarti a guardare più in basso,
più vicino alle radici.
E lì trovi cose che non avevi mai visto.
La verità è che invecchiare ti costringe a fare pace col dolore.
Ti abitui a convivere con ossa che gridano,
con notti che non finiscono,
con ricordi che fanno male solo perché non tornano.
All’inizio pensi di non reggere,
ma poi scopri che il corpo sopporta più di quanto il cuore credeva.
E allora capisci che la vecchiaia non è una resa,
è imparare a vivere con quello che resta,
e a chiamarlo ancora vita.»
E poi ci siamo messi a ricordare quella vita bella che ci aveva cresciuti entrambi.
– «Ti ricordi quando la domenica mattina ti aprivo le finestre alle sette?
Gennaio, il gelo di fuori, tu sotto le coperte che ti incazzavi come un matto.»
– «E come faccio a dimenticarlo?» – ho risposto io.
– «Bisognava far prendere aria alla stanza» – dicevi.
«E alle otto partiva l’aspirapolvere.
Dovevi difendermi dagli acari!»
Ci guardiamo e ridiamo,
come se quella scena fosse rimasta ferma lì,
con me che cercavo di dormire
e lei convinta di salvarmi la vita a colpi di aspirapolvere.
È felice di ricordare queste cose.
Me ne accorgo da come stringe gli occhi,
e vorrei che non smettesse mai di parlare.
– «Ti cucinavo quintali di fegato e carciofi.»
– «Lo so, mamma. Li odiavo.»
– «Ma alla fine li mangiavi.»
– «Sì, li mangiavo. Ma solo perché sapevo che ci tenevi. Se ci penso adesso mi sale il trauma.»
Lei ride, si piega un poco in avanti
e con la mano fa quel gesto come a dire:
«Ti ho fregato anche lì».
– «E quando ti salutavo con un bacio sulle labbra davanti ai tuoi amici che non capivano?»
– «Quanto ti vergognavi?»
– «Tanto. Mi vergognavo davvero.»
– «E adesso?»
– «Adesso dico che era la cosa più bella che potevi lasciarmi, mamma.»
Lei mi stringe la mano,
e il silenzio che segue è più caldo di mille parole.
– «E quando partivo per lavoro e mi dicevi: Vai piano!»
– «E io ti rispondevo: Mamma, vado in treno!»
– «E tu: Vai piano uguale!»
E ridiamo ancora,
perché in quella raccomandazione assurda
c’era tutta la sua paura
e tutto il suo amore insieme.
Poi ci torna in mente quella telefonata a notte fonda.
Lei al telefono, io nel letto della mia stanza.
– «Sono le cinque, dove sei?!» – urlava.
– «Sono nel mio letto, mamma.»
– «Quale letto?!»
– «Il mio, mamma!»
Abbiamo riso fino a piangere,
e ancora oggi, quando ce lo raccontiamo,
ci viene da ridere uguale.
E mentre la guardo, e la vedo tutta
nella sua felicità, nella sua stanchezza,
in quelle ossa che a volte per il tanto dolore
sembrano volerla lasciare indietro,
ma lei non molla,
non ha mai mollato.
Sorride ancora, anche quando le costa fatica,
e nei suoi occhi c’è la stessa tenacia
di chi non ha mai smesso di credere
che la vita, comunque, valga la pena.
– «Questi ricordi mi aiutano a vivere oggi» – mi dice piano.
«Perché quando mi sembra di non farcela,
io li sento:
non come fotografie consumate,
ma come piccole luci che continuano a brillare.
La carezza di una stagione passata,
il rumore allegro di una casa piena,
la certezza che l’amore resiste al tempo
più di quanto resista la pelle.»
Restiamo in silenzio per un attimo.
Lei mi dice:
– «Madonna, non ci vedo un cazzo… ma dove stai?»
– «Sto qui, mamma.»
E allora si appoggia con la testa sulla mia spalla,
e io vorrei urlare, piangere, ridere,
dirle che non ce la faccio a pensare un mondo senza di lei,
dirle che la sua voce è la mia radice,
dirle che non ho paura se la sento accanto.
Ma non dico niente.
Sorrido, lei lo sente.
E restiamo così,
due respiri intrecciati nello stesso tempo,
come se tutto il rumore del mondo si fosse spento,
e fosse rimasto solo questo:
un figlio e sua madre,
sospesi nell’eternità di un istante
che nessuna vecchiaia potrà mai consumare.