26/11/2025
Corinne Hofmann. Era il 1986 e una giovane donna svizzera, Corinne Hofmann, volò in Kenya per una vacanza che sarebbe dovuta durare due settimane. Aveva ventisei anni, un negozio di moda ben avviato, una vita tranquilla, una relazione stabile. Non cercava nulla. Non aspettava nulla.
Finché un pomeriggio, sulle spiagge di Malindi, vide un uomo che non assomigliava a nessuno che avesse mai incontrato: un guerriero samburu, altissimo, il volto dipinto, il corpo avvolto da un tessuto rosso vivo. Si chiamava Lketinga. Era un moran, un giovane guerriero della sua tribù.
Corinne raccontò che il mondo, in quell’istante, fece un rumore strano. Come un colpo secco dentro il petto.
Non fu un innamoramento. Fu uno shock.
Un impatto.
Tornò in Svizzera, ma niente le sembrò più suo: non il negozio, non l’appartamento, non la vita che prima le calzava come un vestito su misura.
La mente era rimasta lì, in Africa, tra le capanne di fango, il calore della terra rossa, e quel volto che non riusciva a dimenticare.
E così fece ciò che molte persone definirebbero una follia: vendette tutto, chiuse il negozio, lasciò il suo fidanzato, salutò la famiglia e volò di nuovo in Kenya. Non per una vacanza. Per restarci.
La vita nella comunità samburu non assomigliava a nulla che Corinne avesse mai visto.
Non c’era acqua corrente.
Non c’era elettricità.
Non c’erano comodità, né privacy, né un luogo dove rifugiarsi quando il corpo non reggeva più.
C’erano invece:
la savana,
i riti tribali,
le notti illuminate dal fuoco,
i doveri delle donne,
le regole severe della comunità.
Corinne si adattò.
O almeno provò a farlo.
Imparò a portare l’acqua sulla testa, a macinare il mais, a vivere scalza nella polvere rossa.
Si sposò con Lketinga seguendo i riti samburu.
Ebbero una figlia, Napirai, che divenne la luce di entrambi.
Ma la vita, sotto quella superficie romantica, era durissima.
Corinne contrasse malaria, febbre tifoide, epatite.
Dimagrì, si indebolì, lottò per sopravvivere in un ambiente che il suo corpo non riusciva a reggere.
E il rapporto con Lketinga iniziò a incrinarsi: gelosie, controllo, conflitti culturali, incomprensioni profonde.
Ciò che all’inizio era stato amore, poi curiosità, poi ostinazione, cominciò a trasformarsi in paura.
Un giorno, dopo l’ennesimo episodio di tensione, capì che non poteva più restare.
Che quella vita stava divorando la sua salute, il suo equilibrio e soprattutto la possibilità di garantire un futuro sereno alla sua bambina.
Raccolse il poco che aveva, prese Napirai tra le braccia e lasciò la comunità.
Il viaggio per uscire dal villaggio samburu fu un’odissea: camion, bus, attese sotto il sole, febbre alta.
Ma alla fine arrivò in Svizzera.
Stremata, ma viva.
Sola, ma salva.
E madre, più che mai.
Anni dopo, raccontò tutto nel libro “La masai bianca”, che divenne un bestseller mondiale.
Lketinga non fu dipinto come un cattivo.
Fu dipinto come un uomo nato in un mondo diverso, con regole diverse, con un modo diverso di amare.
E anche se la loro storia non finì come una fiaba, rimase qualcosa che nessuno dei due ha mai rinnegato:
un incontro impossibile, una scelta estrema, un amore che non ha vinto sul tempo, ma che ha cambiato per sempre la vita di entrambi.
Corinne disse una frase che sintetizza tutto:
“Ho perso molto in Africa. Ma è lì che ho trovato me stessa.”
E forse è questo che rende la sua storia indimenticabile:
non un amore perfetto, ma un amore che ha avuto il coraggio di attraversare due mondi — e di lasciare un segno in entrambi.
Da Storie