20/12/2025
A Daytona, Roberto Boiano ha vissuto un’ultramaratona diversa da tutte quelle affrontate finora, lontana dalle sue montagne ma non meno dura. La Daytona 100 Miles parte da Jacksonville e termina a Daytona, proprio sotto la celebre Ponce Inlet Lighthouse, un arrivo spettacolare che ripaga ogni sofferenza.
Fin dai primi chilometri si corre con l’oceano Atlantico sulla sinistra, sempre presente, quasi ipnotico. Il percorso regala paesaggi bellissimi: lunghe strade costiere, villette in perfetto stile americano, grandi SUV che sembrano usciti da un film, e quell’atmosfera tipica degli Stati Uniti che accompagna il corridore per ore e ore.
Ma se lo scenario è affascinante, la gara è durissima. Le 100 miglia sono completamente piatte, senza una sola salita o discesa che permetta di “respirare”. Per Roberto, abituato ai saliscendi del Matese, questa è stata forse la difficoltà maggiore. I rettilinei infiniti, veri e propri “spacca-cervello”, mettono a dura prova la mente: uno in particolare, lungo quasi 40 chilometri, senza nemmeno una mezza curva, sembrava non finire mai. Guardare troppo avanti significava sentirsi la testa imballata, così bisognava spezzare la corsa in piccoli tratti, un passo alla volta.
Le aid station, posizionate circa ogni 10 miglia, diventavano punti di riferimento fondamentali, piccole oasi dove riorganizzarsi prima di ripartire contro caldo, fatica e monotonia.
A rendere ancora più speciale l’esperienza è stato l’incontro con alcuni veri miti dell’ultramaratona mondiale: atleti come Cris Costman, Mario Lacerda e Bob Bacher, 80 anni, finisher della leggendaria Badwater 135. Incrociare questi nomi lungo il percorso dà forza, motivazione e la sensazione di far parte di una grande famiglia globale di ultrarunner.
E poi il traguardo. Arrivare sotto la torre del faro di Ponce Inlet, dopo 160 chilometri di oceano, asfalto e sabbia, è un’emozione che resta impressa. A Daytona, Roberto non ha solo corso una gara: ha affrontato una sfida mentale estrema, diversa da quelle di montagna, portando ancora una volta con sé lo spirito del Matese, dimostrando che la vera forza dell’ultramaratoneta è saper resistere ovunque, anche quando la strada sembra infinita e tutta uguale.