13/12/2020
In esclusiva per Il Fantasista il nostro Giorgio Martini Esperanza con un una storia da scoprire!
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Inauguriamo la rubrica "L'ombra della notte", a cura di Giorgio Martini Esperanza
La Signora Mancùso, di Giorgio Martini Esperanza
Se dovessi descrivere le fatiche che hanno inguaiato la mia adolescenza, non saprei proprio da dove cominciare: sono stato un autentico pìcaro. Gualcivo, colle mani sporche di fanghiglia, le gonne delle signore attempate, derubavo i negozi che servivo come garzone, lanciavo occhiatacce blasfeme ai preti e ai macellari che uccidevano i cavalli, al punto che non mi sarebbe giunta inaspettata la notizia della riesumazione di quei metodi precipui alla Santissima Inquisizione, dopo tutto a mio personale giovamento. Solevo inoltre scalciare i selciati abbarbicati alle foglie di ortica e al terriccio inumidito, descrivendo parabole perfette sui volti ammuffiti dei passanti, specialmente in calle Humilladero. Questa simpatica burla, che mi vedeva scappare come una lepre sogghignante da certi tromboni o da certi loro cani, entrambi novelli Polifemi accecati negli occhi e per la rabbia, durò fino a quando non ricevetti da nonna Amàlia un pallone di cuoio per il mio onomastico, il 14 agosto del 1982.
Celestina, la sua fantesca, istruita dalla nonna sul dono che avrebbe dovuto rendere la mia estate sacra, aveva trovato da un mercante ambulante un bel pallone di cuoio di una certa qualità, sosteneva appunto che si era trattato di un affare bello e buono. Un pallone della Lotto, marchio italiano, che celebrava la vittoria della loro nazionale nel nostro Mundial. La mia felicità, ricevuto quell’oggetto, era alle stelle: non ci volle molto che rotolando e saltellando quel pallone divenne il mio più fedele scudiero. Lo portavo tra i piedi ogni qual volta mi facevano messo delle compere per i pranzi famigliari, mentre bazzicavo con gli amici, ci salivo sopra per sporgermi sui davanzali delle finestre degli appartamenti ubicati ai primi piani per spiarne gli interni, per sognare qualche ragazzina almeno un po’ svestita.
Ogni tanto, tra le toppe di cuoio e lo sporco che le copriva, in stampa lilla riemergevano le firme degli eroi che avevano schiacciato la Germania Ovest nella finalissima del Bernabéu, nomi col dono della forza e dell’eleganza, simili per desinenze ai polli. In realtà i Tardelli, gli Altobelli e i Galli erano l’edera su una memoria di un pianto, ossia l’eliminazione, per mano dell’Italia, del Brasile di Telê Santana, la mia squadra preferita, forse quella più bella di tutti i tempi nel senso più assoluto e sincero che si possa dare al termine bello. Ogni qual volta riemergeva quel ricordo i pugni, mossi da un’energia collerica e incontrollata, si stringevano, gli occhi si chiudevano e quel pallone volava, fulminato da un calcione impazzito sopra le teste che perdevano il proprio cappello, che si rivoltava in una spirale in aria volando e roteando. Non di rado gli capitò, a quel signor pallone, per colpa mia di distruggere e rovesciare le bancarelle dei fruttivendoli, almeno di quelle con le cassette di legno adagiate a guisa di catafalchi verdi, o di rompere le vetrine dei negozi più disparati. Con un vero e proprio miracolo del rimbalzo quella palla era sempre riuscita a sfuggire ai coltelli (i cactus, le bottiglie rotte e i coltelli sono i più acerrimi nemici dei palloni da calcio), ma non alla vista dei padroni delle botteghe che lanciavano anatemi a fare le veci delle lame, riducendo così per sempre la porzione di suolo pubblico dove mi era permesso giocare.
Nel pieno dell’estate, bighellonando con José Cardillo e Salvador Sallemi, due bischerelli che mi accompagnavano nella congiura contro il mondo civile fatto di passanti e vetrine, ci accorgemmo che oramai si era scatenata una vera e propria caccia alle streghe contro noialtri e il mio pallone, sicché era diventato impossibile scambiare quattro tiri che non arrivasse il passo immediato e sicuro di un camice con un coltello a serramanico pronto a fare del cuoio uno scalpo. La velocità colla quale ci spostavamo da un luogo a un altro in maniera portentosa ci aveva assicurato fino a quel momento una clandestinità che non fosse latitanza, ma fatta terra bruciata delle vie delle botteghe, i luoghi per continuare i nostri giochi restavano le strade e i cortili, dove si fronteggiavano i palazzotti decrepiti e gialli in cui abitava la maggior parte delle famiglie del nostro paese, residuati dell’allegra speculazione edilizia franchista, che aveva assemblato uno spazio che in lontananza scandiva le abitazioni come dei tappi di sughero sbilenchi e abbandonati su un prato dopo una festa.
Per noi, anche da quelle parti la pace non era che un miraggio: grasse lavandaie armeggiavano secchi e ciabatte nell’intento di scacciarci alla ben’e meglio, ragazzini più cresciuti tentavano di sottrarci il pallone per il solo gusto di farci sgorgare grossi lacrimoni, ragazzotti più cresciuti scorrazzavano a tutta velocità con le loro moto rendendo del gioco un facile pericolo, e quelli ancora più grandi occupavano i luoghi più nascosti amoreggiando sulle loro Seat Bocanegra, con le loro ragazze. C’era, tra questi schiamazzi per una una festa mancata, una sola abitazione che non destava preoccupazione in quanto a segnali di vita, un vecchio palazzo che in maniera assai rocambolesca, viste le grosse dimensioni, era rimasto incolume tra i bombardamenti delle due guerre. Lo chiamavano palazzo del Cardinale, sebbene “nemmeno un monachello” l’avesse mai usata come dimora – così ripetevano i miei genitori ogni qual volta passavamo fortuitamente da lì– e nonostante un’aura di cupa malinconia ne rivestisse senza alcuna santità il prospetto principale. Distanziati da un piccolo sentiero che connetteva il grosso portone alla strada, vi erano due piccoli spiazzi, delimitati da pietre tozze e nere che apparivano ai nostri avidi occhi come un luogo perfetto per improvvisare una tedesca.
Entrambi gli spiazzi erano sovrastati da due ampi balconi, da quello sulla destra si poteva scorgere una mano sospesa nel vuoto che sosteneva una grossa p**a rossa, che emetteva un copioso fumo grigiastro. Da quello alla sinistra invece si poteva notare senza alcuna fatica una cupa stratificazione di polveri trascurate, che imbrunivano i larghi finestroni. Scelto lo spazio sovrastato da questo balcone, José Cardillo cominciò, senza farselo dire due volte, le azioni di portiere-disturbatore (nonché di canaglia) tipiche della tedesca.
Mentre il tempo scorreva così, lieto e veloce, Salvador Sallemi ebbe l’infelicissima idea di effettuare un rinvio altissimo. Con il mio pallone. Il demone della stupidità gli aveva quasi sfigurato il volto quando io e José cercammo di fermarlo, avendone intuite le intenzioni: non arrivammo in tempo. Quasi ritraendo la gamba all’indietro con un balzo, alzò la palla all’altezza dei suoi occhi e la scagliò con il piede destro così in alto, in maniera così sbilenca e scoordinata, che pareva che non scendesse mai verso il suolo. Un siluro di spregiudicatezza adolescenziale che qualche secondo dopo colpì rovinosamente il suolo, per poi rimbalzare ancora in aria con rapidità flipperistica. Non sapremo mai se fu una pietra o la deformazione del suolo, o ancora la rotazione del pallone, fatto sta che quest’ultimo rimbalzò sulle mattonelle del balcone sopra le nostre teste e i nostri volti sbigottiti, colpì il passamano della ringhiera in stile liberty che lo recingeva, colpì ancora il muro dell’abitazione per poi rimanere definitivamente incastrato e non scendere mai più.
Credo che sia inutile rievocare il fulmineo stato di rabbia e delusione che mi colse, su due piedi, quando vidi l’esito nefasto di quella bricconata, ciò che piuttosto attivò la mia attenzione furono le possibili manovre per il recupero del mio fidato compagno di giochi. Quando si perde un pallone, la prima regola che determina le operazioni di recupero è la perfetta localizzazione: ci allontanammo, ora alle nostre spalle, ora sulla destra e poi ancora a sinistra, ma la strana pendenza che probabilmente serviva per raccogliere le acque piovane verso un canale di scarico, ci impedì di scorgere la posizione esatta del nostro. Battemmo dunque molte volte su quel portone senza esito, mentre la mia rabbia trovava sfoghi diversificati tra minacce di vario genere ed epiteti sia faunistici che ascrivibili ai più fetidi tra i gironi dell’inferno dantesco.
Le minacce si stavano trasformando in scalpellotti di intensità sempre più palpabile quando un rumore aprì il finestrone che dava sul balcone, e una mano di donna, come impegnata a donare una carezza, fece rotolare con calma olimpica qualcosa verso l’interno della stanza. Il mio pallone! Questa lady farabutta s’era intascato, che dico, incamerato, il mio pallone amatissimo! Continuammo a bussare ancora più rumorosamente, io con la forza della disperazione, i miei compagni di sventura con la voglia di sbarazzarsi da ogni responsabilità e per filarsela al più presto possibile.
Attendemmo una ventina di minuti prima che il portone si aprì. Una vecchina conciata con una serie di camicioni viola uno sopra l’altro, sovrastati da una giacca verde e sporca tale che ricreava una mise simile all’aspetto di un cavolfiore, lasciò uno spiraglio di portone aperto più per rintronamento che per gentilezza. Cogliemmo l’occasione ed entrammo di gran carriera colpiti dal modesto bagliore che fintamente illuminava dalla corte quell’androne, con i raggi disturbati dai fumi di un buon sugo alla nostra sinistra e da quelli di un pollo arrosto, forse troppo cotto, sulla destra.
Decidemmo perciò di salire le scale che davano verso l’abitazione di quella mano sbarazzina e altera, leggendo prima il nome sulle due cassette della posta fisse sull’ingresso della scala A. Un nome cancellato dal tempo e scritta su un pezzetto di carta ingiallita non ci diede molte speranze, mentre sull’altra un cognome che cominciava per “M” ci sembrò formare la parola essere Marchese. Dal nulla una voce si sollevò affannata e ci disse “Mancùso, Cristina Mancùso, è lei che cercate”.
CONTINUA