06/05/2025
𝗦𝗮𝗹𝘃𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝗳𝗮𝗰𝗰𝗶𝗮. 𝗢𝗻𝗼𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝗿𝗲𝗹𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲
Quando una persona si affida a noi — che siamo counselor, coach, formatori o manager — ci offre molto di più di un problema da risolvere: ci consegna la propria immagine sociale. Quella che Edgar H. Schein chiama “faccia”.
Nel sesto capitolo de La consulenza di processo, Schein ci invita a osservare con attenzione il modo in cui, in ogni interazione umana, rivendichiamo un valore: vogliamo essere considerati competenti, simpatici, autorevoli, interessanti. E, allo stesso tempo, ci aspettiamo che gli altri convalidino questa immagine.
Quando raccontiamo un aneddoto, per esempio, ci aspettiamo che l’altro rida al momento giusto. Se ciò non avviene, sentiamo una frattura nel rapporto: abbiamo perso la faccia. Questo accade in continuazione, anche nei contesti più professionali. Una richiesta respinta bruscamente, un consiglio dato troppo presto, un problema liquidato con superficialità: sono tutte micro-umiliazioni che toccano l’identità dell’altro.
Schein ci ricorda che l’umiliazione è una delle esperienze più dolorose, perché mina la nostra posizione sociale. Se una persona si sente sminuita, entra in una dinamica di opposizione: può rifiutare il nostro aiuto, contestare le proposte, sabotare la relazione. Non per malafede, ma per proteggere sé stessa.
Ecco perché, nella relazione d’aiuto, la prima responsabilità è proteggere la faccia dell’altro. Questo non significa blandire o evitare il confronto: significa riconoscere il valore dell’altro anche quando è in difficoltà. Significa comunicare, con ogni gesto e ogni parola: “Ti rispetto, ti vedo, non ti svaluto.”
Carl Rogers lo ha detto in un altro linguaggio, ma con la stessa intenzione: solo chi si sente accolto può cambiare. L’accettazione incondizionata, l’ascolto empatico, l’autenticità non sono tecniche relazionali: sono modi per proteggere la dignità di chi si racconta.
Nel testo di Schein troviamo anche un’analisi preziosa dei filtri che interferiscono nella comunicazione. Ciascuno di noi ascolta e parla a partire da:
la propria immagine di sé (mi sento sicuro? incerto? esperto?);
la propria immagine dell’altro (lo stimo? lo temo? lo giudico inferiore?);
la definizione della situazione (è un confronto? un invito al dialogo? un’esibizione?);
le motivazioni e intenzioni (voglio persuadere, capire, proteggermi?);
le proprie attese (mi aspetto che l’altro capisca, si difenda, mi approvi?).
Questi filtri operano spesso in modo inconsapevole, ma influenzano profondamente le dinamiche relazionali. E anche il miglior professionista della relazione ne è soggetto. La differenza sta nella consapevolezza e nella disponibilità a mettersi in discussione.
Anche Giorgio Bert, nella sua riflessione sulla medicina narrativa, ci ricorda che ogni persona porta con sé una storia che ha bisogno di essere ascoltata senza correzioni premature. La narrazione è un atto fragile e potente insieme. Chi la accoglie, custodisce.
La lezione che possiamo trarre è semplice e radicale:
Non si aiuta davvero nessuno se, per farlo, si viola la sua dignità.
La relazione viene prima della soluzione.
Ogni parola detta in fretta può costare un’identità.
E allora sì, proteggere la faccia dell’altro non è un atto di cortesia. È il fondamento etico di ogni relazione d’aiuto.