01/11/2025
𝗣𝗢𝗟𝗜𝗧𝗜𝗖𝗔 𝗘 𝗣𝗢𝗧𝗘𝗥𝗘. 𝗗𝗢𝗧𝗧𝗥𝗜𝗡𝗘 𝗣𝗢𝗟𝗜𝗧𝗜𝗖𝗛𝗘 𝗠𝗢𝗗𝗘𝗥𝗡𝗘 - 𝗱𝗶 𝗚𝗶𝘂𝗹𝗶𝗼 𝗔𝗹𝗳𝗮𝗻𝗼
𝗠𝗮𝗰𝗿𝗼‑𝗲𝘁𝗶𝗰𝗮 𝗽𝘂𝗯𝗯𝗹𝗶𝗰𝗮: 𝘀𝗼𝗴𝗴𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗱𝗶𝗮𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗼 (𝗪𝗶𝘁𝘁𝗴𝗲𝗻𝘀𝘁𝗲𝗶𝗻/𝗡𝗶𝗲𝘁𝘇𝘀𝗰𝗵𝗲); 𝗰𝗼𝗿𝗻𝗶𝗰𝗲 𝗻𝗲𝗼𝗰𝗼𝗻𝘁𝗿𝗮𝘁𝘁𝘂𝗮𝗹𝗶𝘀𝘁𝗮 (𝗥𝗮𝘄𝗹𝘀); 𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗶𝗰𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 (𝗔𝗽𝗲𝗹/𝗛𝗮𝗯𝗲𝗿𝗺𝗮𝘀); 𝗿𝗲𝘀𝗽𝗼𝗻𝘀𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮̀ 𝗻𝗲𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝗹𝘂𝗻𝗴𝗼 (𝗝𝗼𝗻𝗮𝘀); 𝗳𝗼𝗻𝗱𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘁𝗼𝗺𝗶𝘀𝘁𝗮 (𝗧𝗼𝗺𝗺𝗮𝘀𝗼).
Scheda libro
— Titolo: Politica e potere. Dottrine politiche moderne
— Autore: Giulio Alfano
— Editore: Edizioni Solfanelli
— Anno: 2025
— Pagine: 194
— Prezzo: € 15,00 Acquista: https://www.edizionisolfanelli.it/politicaepotere.htm
C’è un libro che tenta un gesto raro: raddrizzare la politica partendo dall’etica senza scadere nel moralismo terapeutico. "Politica e potere" lavora in profondità, là dove, dopo il crollo delle ideologie, è rimasto un vuoto di fondazione. Non cerca un nuovo totem ma un’infrastruttura che renda operativi i principi e ne verifichi gli esiti. La chiama macro‑etica: qualcosa che tenga insieme responsabilità, libertà, uguaglianza, differenza, verità, parola. Non un catechismo di doveri privati, ma una grammatica pubblica.
Il punto di partenza è il vuoto di fondazione etica lasciato dalle ideologie. Dentro quel vuoto, Alfano ricostruisce le condizioni di validità della parola pubblica: un soggetto dialogico e fallibile, non privato e autoreferenziale. Non l’individuo solitario del liberalismo elementare, non l’atomo sociale ingabbiato in ruoli. Alfano lo fa passare in un doppio crogiolo: Wittgenstein contro il linguaggio privato (la mia regola, se è solo mia, non è regola di nessuno) e Nietzsche contro il moralismo anestetico (la formazione non è addestramento, è rischio, scarto, stile). Il risultato è un soggetto capace di parola condivisa e di responsabilità. È qui che la macro-etica prende corpo: non come precetto dall’alto, ma come spazio di validità fra parlanti che si riconoscono. La comunicazione, se è tale, non persuade: convince. Se non convince, comanda: e allora non è più etica, è amministrazione del consenso.
In questa chiave, Alfano usa Wittgenstein come cerniera metodologica: dal bando del linguaggio privato discende l’idea che le regole del dire pubblico fondino la validità (etica della comunicazione: ragioni che si danno fra parlanti). Nietzsche è la palestra pedagogica: una fenomenologia della formazione — volontà, rischio, stile — contro il risentimento: serve a delineare il tipo di soggetto che può reggere responsabilità senza catechismi. Di qui il raccordo esplicito con Apel/Habermas: consenso non coercitivo e razionalità comunicativa come misura di validità pubblica.
Su questo terreno, il libro compone la sua architettura normativa. Lo scheletro è neocontrattualista (Rawls): giustizia come equità, diritti inviolabili, diseguaglianze ammissibili solo se sollevano gli ultimi. Non un idolo, un telaio: serve a impedire che l’utile diventi ragione ultima. Dentro quel telaio, Alfano dispone alcuni cardini — responsabilità, libertà con uguaglianza, differenza, rispetto della vita, coltivazione di sé, attività comunicativa — e li tratta non come slogan ma come criteri. La virtù non è un elenco ma un orientamento praticabile.
Poi la tecnica, la potenza, il tempo lungo. Qui entra Jonas: l’imperativo di non mettere al mondo conseguenze che non possiamo riparare. È il lato più sobrio del libro: niente millenarismo verde né culto della decrescita. Ma anche niente idolatria della crescita. Solo la constatazione che l’azione pubblica oggi eccede la scala dell’intuizione morale comune: servono freni, non solo motori. La politica come responsabilità verso i non presenti — futuri, lontani, vulnerabili —: considerare gli effetti differiti e non locali delle decisioni, fissare soglie di rischio, prevedere reversibilità e rimedi.
A questo punto, il volume compie una curva che molti lettori sentiranno come una scelta di campo: il rientro nella tradizione tomista. Il bene che fonda il dovere, la verità che precede la volontà, la legge naturale come base minima di razionalità morale. La forma non basta: serve un fondamento che tenga. L’operazione ha nobiltà e un rischio. La nobiltà: togliere al relativismo l'etichetta dell’inoffensività. Il rischio: irrigidire la pedagogia civile in dottrina. Una democrazia che vuole imparare deve poter sbagliare: errori reversibili e misurabili. La macro‑etica, per reggere, ha bisogno di un ciclo completo: ipotesi, prova, errore, correzione. Senza questo respiro operativo, l’etica si paralizza in precetto amministrato.
Resta la questione del potere. Il libro pensa lo Stato come organismo giuridico sociale, capace di distribuire pesi e opportunità, di assicurare i diritti dell'uomo come «assoluto etico», di far parlare la società con regole chiare. È il suo merito maggiore: ricordare che la democrazia non è solo meccanica di voto. Ma qui affiora una torsione che va sorvegliata: quando l’etica entra per via istituzionale, tende a farsi programma. La trasparenza diventa protocollo, il protocollo diventa sorveglianza mite; la tutela diventa standard morale. È un pendio scivoloso: non per malizia, per inerzia. Il potere, come l’acqua, allarga la riva. Per evitare la piena non basta invocare virtù: servono dighe tecniche — minimizzazione dei dati, limiti temporali alle misure eccezionali, controlli civici oltre quelli burocratici. Etica pubblica, sì. Occhi ovunque, no.
Meglio non generare equivoci: il libro non rientra nello Stato etico hegeliano (la Sittlichkeit che assorbe famiglia e società civile nello Stato). L’architrave reale è un’altra: neocontrattualismo (Rawls: giustizia come equità), etica della comunicazione (Apel/Habermas: consenso non coercitivo), responsabilità nel tempo lungo (Jonas), fondazione tomista a esito personalista (Tommaso/Maritain/Wojtyła). L’eco hegeliana, se c’è, riguarda il lessico della mediazione e dell’integrazione simbolica. Il risultato è uno Stato costituzionale di diritto, sociale e personalista, che garantisce cornici e diritti senza pretendere la totalità etica.
La giustizia, poi. Alfano chiede di coniugare libertà e uguaglianza senza ipocrisie: niente neutralità di facciata (procedure senza etica); niente egualitarismo retorico (livellare senza sollevare); niente libertarismo di comodo (libertà senza condizioni). La sua è una soluzione rawlsiana: un principio di differenza che garantisce soglie minime di dignità e ammette diseguaglianze solo se migliorano la condizione dei più svantaggiati. Trasferimenti mirati, semplicità amministrativa, libertà di scelta reale nei servizi, valutazione ex post dei risultati — redditi, salute, istruzione, libertà effettive — non ex ante delle intenzioni. Meno virtù dichiarate, più evidenza misurata: indicatori, confronti seri, verifica nel tempo. Meno retorica sindacale o filantropica, più «contabilità degli effetti». Il libro offre gli attrezzi concettuali per misurare, non solo per enunciare.
E la forma dello Stato? Il testo suggerisce un braccio pubblico che garantisca e, quando occorre, redistribuisca. Sostenibile se il braccio non pretende anche la regia morale. L’orientamento etico è giusto, la regia morale, no: qui sta il rischio di sconfinamento. La democrazia prospera nel policentrismo: cornice generale minima (pace, standard tecnici, antitrust, ambiente e dati) e, sotto, città, regioni, comunità intenzionali responsabili di scuola, welfare leggero, cultura, innovazione. Diritti portabili, responsabilità localizzate, pluralismo dei beni senza monopolisti (pubblici o privati). Non è deregulation, è sussidiarietà praticata. L’etica cresce in laboratorio: cooperative, mutue, reti civiche, commons digitali. Lo Stato, qui, è arbitro e garante, non giocatore in ogni ruolo. Se la macro-etica vuole essere viva, deve tollerare la sperimentazione, anche quando smentisce i suoi modelli preferiti.
Il tratto migliore del libro non è solo la serietà — qui: onestà intellettuale, ricchezza delle fonti, chiarezza espositiva, struttura ideologica salda e riconoscibile — è anche la capacità di tenere insieme ciò che di solito si separa. Restituisce un lessico civile praticabile, intreccia analisi e norma, incrocia Rawls con Apel/Habermas, allinea Jonas con Tommaso senza confondere i piani, traduce principi in criteri operativi (responsabilità, differenza, dignità, parola) e li rende spendibili nelle decisioni. C’è pazienza analitica, pulizia degli argomenti, senso del limite; c’è un’idea di democrazia che non abdica né al tecnicismo né al moralismo.
Il lato esposto è speculare: quando la “verità” tenta di farsi legge e la “trasparenza” si irrigidisce in protocollo, il margine d’errore si restringe. E senza errore non c’è apprendimento. Senza apprendimento non c’è libertà adulta.
La formula che mi resta in mano è semplice, e non contraddice l’impianto: etica prima della politica, sì ma limite fermo prima di una ricaduta nell’etica di Stato. Pavimenti, non soffitti. Cornici, non scenografie. Parola che convince, non protocollo che costringe. Se "Politica e potere" riapre il cantiere dei fondamenti, la risposta non deve essere un nuovo tempio: dev’essere una città abitabile, con molte piazze e poche preture morali. È lì che la macro‑etica evita la chiusura dottrinaria e si propone come civiltà praticabile.
— 𝗠𝗶𝗿𝗼 𝗥𝗲𝗻𝘇𝗮𝗴𝗹𝗶𝗮