02/06/2025
"Musica senza significato? Una riflessione su ciò che abbiamo perso"
Perché oggi la musica è vissuta quasi esclusivamente come sottofondo innocuo o intrattenimento da "scrollare"?
Cinque spunti per un'indagine sul senso perduto della musica e su come (forse) ritrovarlo.
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INTRODUZIONE
C'è stato un tempo in cui la musica poteva dividere le famiglie, accendere le piazze, far tremare i governi.
Un tempo in cui un disco non era solo un prodotto, ma una dichiarazione d'intenti, un luogo mentale, un rito collettivo.
Oggi, nella maggior parte dei casi, la musica fa compagnia durante lo shopping, alleggerisce una call, tiene il ritmo in palestra o si disperde nei reel di Instagram.
Resta viva nei circuiti alternativi, certo, ma sembra avere perso il suo ruolo centrale nel plasmare identità, creare comunità, dare voce ai conflitti.
Perché è successo? Quali dinamiche hanno portato la musica a diventare quasi invisibile nella vita culturale e politica?
E cosa ci dice questa trasformazione del nostro rapporto con il tempo, il linguaggio, l’immaginario?
In questa prima parte di un percorso a tappe, propongo cinque direttrici critiche per orientarsi. Ognuna diventerà, nei prossimi articoli, oggetto di un approfondimento specifico.
Qui un riassunto del primo punto in esame, gli altri quattro solo nel titolo per non rendere questo post un pi***ne mai visto!
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1. Dalla musica come linguaggio alla musica come ambiente
Negli anni Sessanta e Settanta, la musica era spesso molto più di un semplice accompagnamento sonoro. Parlava di guerra e di pace, di sessualità, razzismo, lavoro, utopie, rabbia. Certo, non mancava chi cercava soprattutto un ritmo, un ballo, una distrazione, ma in molti casi l’ascolto era anche un gesto identitario, quasi politico.
Oggi la musica è sempre più un ambiente sonoro: una cornice, un mood, un sottofondo. Le canzoni non si ascoltano per essere cambiate, ma per accompagnare un'attività: studio, camminata, scroll.
È la transizione da **musica significante** a **musica funzionale**. Il passaggio da evento a servizio.
Per cogliere cosa intendiamo per *musica come linguaggio*, sblocco un ricordo con "Dio è Morto" di Francesco Guccini, che nel 1967 osava parlare di disillusione, materialismo e ricerca di senso in un’Italia ancora profondamente cattolica.
E per cogliere invece il progressivo disimpegno leggero, ecco "Una Zebra a Pois" nell'interpretazione di Mina può rappresentare il gusto per l’evasione spensierata e l’assurdo ironico — non priva di fascino, ma distante anni luce dalla carica simbolica e sociale del cantautorato che già anche in quegli anni di boom economico, produceva cose meravigliose.
Vale la pena accennare, anche se lo svilupperemo in maniera più approfondita in un prossimo articolo, alla frattura profonda che si produsse in Italia negli anni del beat tra una musica che voleva raccontare il presente con parole nuove, e una linea editoriale conservatrice — la cosiddetta "Linea Verde" — sostenuta dal giornalista Sergio Modugno sulla rivista "Big" e poi veicolata nei testi "normalizzanti" di Mogol.
Questa strategia editoriale cercava di contenere, addolcire, e in molti casi svuotare la carica espressiva e di protesta del beat italiano. Una battaglia culturale sotterranea ma feroce, che non fu priva di vittime: Luigi Tenco ne fu l’emblema tragico.
Un esempio simbolico di quel processo di normalizzazione fu la canzone Sognando California), versione italiana dei Mamas & the Papas adattata dal team Mogol–Shapiro per i Dik Dik: un caso in cui le tensioni giovanili del beat californiano vennero trasposte in Italia in chiave più evasiva e rassicurante, con un messaggio annacquato, adatto alla 'Linea Verde'.
La morte di Tenco, ancora oggi avvolta nel dolore e nelle domande, resta simbolo di una sconfitta generazionale.
Ma non tutto il beat italiano fu normalizzato: anche se alcuni tentativi di dare voce a uno spirito più energico e ribelle passarono per brani apparentemente impegnati ma in realtà depotenziati.
È il caso de “La Rivoluzione” di Gianni Pettenati, scritta da Mogol e già in gara al Festival di Sanremo del 1967, dove proseguì la competizione nel ripescaggio proprio ai danni del brano di Tenco, "Ciao amore, ciao". La sua presenza al Festival, in quel contesto tragico, apparve come il simbolo perfetto della 'Linea Verde': evocava superficialmente la protesta, ma la svuotava di ogni reale potenziale critico, trasformandola in slogan rassicurante e facilmente commerciabile... che, a pensarci bene, non è esattamente ciò che continua ad accadere anche oggi?
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2. Il dominio dell'algoritmo: lo streaming come forma di consumo passivo
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3. I media generalisti hanno smesso di raccontare la musica
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5. Il vuoto simbolico: la musica non costruisce più immaginari
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Verso i prossimi articoli
Nei prossimi approfondimenti entreremo nel dettaglio di ciascuno di questi punti:
* Il passaggio dalla musica come linguaggio alla musica come ambiente (con riferimenti storici e sociologici)
* Lo streaming e l'ascolto algoritmico come nuova forma di consumo culturale
* L'estinzione della narrazione musicale nei media tradizionali
* Il tempo, l’attenzione e l’erosione dell’ascolto attivo
* Il vuoto simbolico della musica commerciale e le resistenze alternative
Ogni articolo conterrà esempi, casi studio, e soprattutto domande per riaccendere il pensiero critico attorno alla musica.
Perché no, non è vero che la musica non interessa più a nessuno.
Ma è vero che abbiamo dimenticato perché dovrebbe importarci.
**immagine creata con AI**