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La pu***na è una regina, il suo tronoè un rudere, la sua terra un pezzodi me***so prato, il suo scettrouna borsetta di v...
01/11/2025

La pu***na è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di me***so prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un'antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita...

"Stai parlando a vanvera". Quante volte lo abbiamo sentito dire o siamo stati noi stessi a pronunciare questa frase rivo...
01/11/2025

"Stai parlando a vanvera".

Quante volte lo abbiamo sentito dire o siamo stati noi stessi a pronunciare questa frase rivolgendoci a qualcuno che, secondo la nostra opinione, stava parlando senza riflettere, a vuoto, solo per aprir bocca. Parlare a vanvera, infatti, è un'espressione comunissima e usata in tutta Italia ma lo sapevate che la sua origine è legata alla città di Venezia? È proprio Venezia, infatti, il luogo in cui nasce questo modo di dire legato a un particolare oggetto usato dalle dame del '600 nella città lagunare, la cosiddetta "vanvera".

Sapete cos'è? Si tratta di un oggetto che nella Venezia seicentesca era molto in voga e veniva usato dalle dame che non andavano mai in giro senza le loro ampie gonne sorrette da rigide strutture a gabbia. La vanvera, infatti, era una parte integrante dei sontuosi abiti delle veneziane che veniva usata in qualsiasi occasione di festa. Si trattava appunto di una sorta di tubicino, indossato dalle donne sotto le loro gonne sul sedere, con un palloncino contenitore alla sua estremità che serviva per contenere le possibili flatulenze delle signore che, così, non sarebbero finite nell'aria provocando spiacevoli figure per le eleganti dame. Questo attrezzo, che non mancava mai nell'outfit delle signore veneziane in occasioni come balli, feste di palazzo o cene di gala serviva sostanzialmente come contenitore di scorregge ed era molto più comune di quello che si possa pensare.

Oltre a questa versione della vanvera, c'era anche quella che veniva utilizzata sotto le coperte e che portava l'aria delle proprie flatulenze fuori dalla finestra con un tubicino in modo che la stanza restasse profumata durante la notte.

Il collegamento tra l'oggetto vanvera e il modo di dire del parlare all'aria, cioè senza senso diventa, così chiaro e se inizialmente veniva usato per scherzare su questo doppio senso, con il tempo e con la scomparsa dell'oggetto della vanvera, è rimasto solo il modo di dire che conosciamo oggi.

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"Parlare a vanvera", l'origine del detto è tutta veneziana
https://www.veneziatoday.it/social/origine-detto-parlare-a-vanvera.html
©️ VeneziaToday

“Alberto Sordi è un attore che ha un talento dieci volte più grande del mio. È un talento naturale che, però, non ha edu...
01/11/2025

“Alberto Sordi è un attore che ha un talento dieci volte più grande del mio. È un talento naturale che, però, non ha educato. Sordi non può fare altro che sé stesso, non ha mai fatto altro in vita sua ! Io quando facevo Ponzio Pilato cercavo di “essere” Ponzio Pilato, ma Sordi chi cerca di essere quando recita? Lui rimane sempre sé stesso e non è assolutamente vero che la sua è la ‘storia di un italiano’, al massimo è la storia di un romano e non è che io lo dica solo oggi. È da mo’ che me so’ accorto di questa cosa: quando giravamo nel ’68 in Angola, Riusciranno i nostri eroi… glielo ho detto pure a lui. Gli ho detto: ‘Senti Albè, ma perché non te prepari?’. Non mi capiva, e da allora non ha più voluto lavorare con me, se non nei film dove manco ci incontravamo e pensa che prima noi abbiamo vissuto tanto assieme. Qualche anno fa c’avevano proposto di girare un ‘Giulietta e Romeo’ ambientato al giorno d’oggi nella periferia di Roma dove io e lui facevamo le parti di Capuleti e Montecchi sai che ha risposto? ‘Se c’è Manfredi, non lo faccio.‘ La scuola che abbiamo fatto noi non l’ha fatta nessuno e si sente che Sordi non ha nessuna scuola e che viene dalla strada. Va benissimo! Ma c’hai il soffitto basso e prima o poi ti fermi, come gli è successo a lui. Secondo me lui non ha letto Stanislawski e non sa manco chi è Cechov… Sordi è un personaggio, io sono un attore, perché faccio tanti personaggi”.

Nino Manfredi

“È mezzo secolo che faccio l’attore. Nessuno mi ha indicato questa strada, sono nato con la voglia di esibirmi. Ho fatto un lunghissimo tirocinio e l’avvento del neorealismo mi ha portato ad esprimermi come fa la gente ed il cinematografo mi ha utilizzato così. Nella mia carriera ho proposto dei personaggi che ben conoscevo e sono andato sempre al passo con la mia età” – e inevitabilmente rispose anche alle dichiarazioni di Nino Manfredi: “Vede, io sono anziano e Manfredi è un mio coetaneo. Soffro di certi doloretti, e sa, sono cose che possono accadere ad una certa età, perché alla nostra età o ti prende alle gambe oppure alla testa. A Nino, evidentemente, non lo ha preso alle gambe…”

Alberto Sordi

“La strega incarna i desideri, i timori e le altre tendenze della nostra psiche che sono incompatibili con il nostro io....
01/11/2025

“La strega incarna i desideri, i timori e le altre tendenze della nostra psiche che sono incompatibili con il nostro io.”
CARL GUSTAV JUNG

😱 CURIOSITÀ (ma di quelle che fanno rabbrividire):La terribile storia di Blanche Monnier, la donna rinchiusa per 25 anni...
31/10/2025

😱 CURIOSITÀ (ma di quelle che fanno rabbrividire):

La terribile storia di Blanche Monnier, la donna rinchiusa per 25 anni nella sua stanza.
Blanche era bellissima, nata a Poitiers nel 1848, figlia di una famiglia rispettata e rigida.
Quando si innamorò di un avvocato più grande e povero, la madre — scandalizzata — decise che quella relazione doveva finire.
E fece l’impensabile.
Blanche venne chiusa nella sua stanza e lasciata lì… per venticinque anni.
Poco cibo, poca acqua, nessuna luce.
Quando la polizia la trovò nel 1901, dopo una segnalazione anonima, era nuda, malnutrita, pesava appena 25 chili.
La madre fu rinchiusa in manicomio, il fratello condannato.
Blanche visse altri dodici anni, ma non si riprese mai.
🕯️ Da questo orrore nacque nel 1941 la Legge sull’omissione di soccorso alle persone in difficoltà.
Una storia vera, che sembra uscita da un romanzo gotico.
E ci ricorda che la crudeltà, a volte, può nascondersi dietro le mura di casa

Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che intelligenza, abbiamo bisogno di dolcezza e bontà.[Charlie Chapl...
31/10/2025

Più che di macchine abbiamo bisogno di umanità. Più che intelligenza, abbiamo bisogno di dolcezza e bontà.

[Charlie Chaplin]

31/10/2025

Halloween

31/10/2025

Le origini di Halloween

💀✨ Il 28 ottobre di vent’anni fa usciva La sposa ca****re!Un gioiello gotico firmato Tim Burton, dove l’amore e la morte...
31/10/2025

💀✨ Il 28 ottobre di vent’anni fa usciva La sposa ca****re!
Un gioiello gotico firmato Tim Burton, dove l’amore e la morte danzano insieme al suono di un pianoforte.
Dietro l’apparenza di una fiaba per bambini si nasconde un film pieno di poesia e malinconia: parla di amore e destino, famiglia e libertà, paura e coraggio.
Un racconto che diverte, commuove e lascia addosso quel senso dolce e inquieto tipico del mondo burtoniano.
Un classico senza tempo, fatto di ombre, musica e sentimento.
🕯️ Io lo amo da sempre — e ogni volta mi incanta come la prima. 🖤

🎃 La leggenda di Jack O’LanternMolto prima che le zucche illuminassero le notti di Halloween, c’era Jack, un vecchio fab...
31/10/2025

🎃 La leggenda di Jack O’Lantern
Molto prima che le zucche illuminassero le notti di Halloween, c’era Jack, un vecchio fabbro irlandese furbo e ubriacone.

Si dice che riuscì a ingannare il diavolo in persona, intrappolandolo più volte con la sua astuzia.

Ma quando morì, né il cielo né l’inferno vollero accoglierlo.
Così il diavolo, per scherno, gli lanciò un tizzone ardente.
Jack lo mise dentro una rapa vuota per farsi luce e da allora vaga nel buio, con la sua lanterna, in cerca di un luogo dove riposare.

Quando gli irlandesi emigrarono in America, sostituirono la rapa con una zucca, più grande e luminosa.

E così, ogni anno, Jack O’Lantern torna a ricordarci che tra luce e tenebra… c’è solo il confine sottile di una fiamma.

Il gatto neroPer il racconto più straordinario, e al medesimo tempo più comune, che sto per narrare, non aspetto né pret...
31/10/2025

Il gatto nero

Per il racconto più straordinario, e al medesimo tempo più comune, che sto per narrare, non aspetto né pretendo di essere creduto. Sarei davvero pazzo a pretendere che si presti fede a
un fatto a cui persino i miei sensi respingono la loro stessa testimonianza. Eppure pazzo non sono, e certamente non vaneggio.
Ma domani morrò, e oggi voglio scaricare la mia anima. Mio scopo immediato è di porre innanzi al mondo, in modo piano, succinto, e senza commenti, una serie di casi semplicemente domestici. Nel loro concatenarsi questi fatti mi hanno
terrificato, mi hanno torturato, mi hanno annientato. Non tenterò tuttavia di spiegarli. Per me essi non hanno rappresentato che orrore; a molti invece più che terribili essi
sembreranno BAROQUES. In seguito forse un intelletto saprà condurre il mio fantasma al senso comune, un intelletto più calmo, più logico, meno eccitabile del mio, il quale scorgerà nelle circostanze che io descrivo con terrore, null'altroche un normale susseguirsi di cause e di effetti naturalissimi.
Sin dall'infanzia sono stato conosciuto per la docilità e la mitezza del mio carattere. Ero talmente tenero di cuore, anzi,
che i miei compagni mi avevano preso a soggetto delle loro beffe. Amavo soprattutto gli animali, e i miei genitori mi avevano concesso di possedere una grande varietà di bestiole
preferite. Passavo con questi animaletti la maggior parte del mio tempo, e la mia più perfetta felicità consisteva nel nutrirli e
nell'accarezzarli. Questo tratto caratteristico della mia indole crebbe in me coll'andare degli anni e, divenuto adulto, trassi da
ciò una delle mie principali fonti di soddisfazione. A coloro che
abbiano provato un vivo affetto verso un cane fedele e intelligente non occorrerà che io spieghi la natura e l'intensità
del piacere derivante da questa tendenza. Vi è qualcosa nell'amore spoglio di egoismo e ricco di sacrificio di una bestia senz'anima, che va direttamente al cuore di colui che abbia
frequenti occasioni di saggiare la pacchiana amicizia e l'instabile fedeltà del cosiddetto UOMO.
Mi sposai giovane, e fui felice di ritrovare in mia moglie una tendenza non contrastante con la mia. Avendo notato la mia debolezza verso gli animali domestici, non perdeva occasione
di procurarmi quelli che mi piacevano. Avevamo diversi uccelli, dei pesciolini, un bel cane, alcuni conigli, una scimmietta, e UN GATTO. Quest'ultimo era un animale
bellissimo, di grossezza notevole, completamente nero, e straordinariamente intelligente. Parlando della sua intelligenza,
mia moglie che in cuor suo non era scevra di una certa punta di superstizione, faceva frequenti allusioni all'antica credenza
popolare secondo la quale tutti i gatti neri siano streghe travestite. Non che ella si esprimesse mai SERIAMENTE su questo punto, e cito questo particolare soltanto perché mi capita ora, proprio per caso, di ricordarlo.
Pluto, così si chiamava il gatto, era il mio animale preferito e il mio compagno di giochi. Io soltanto gli davo da mangiare, ed
egli mi seguiva dovunque, per casa: anzi duravo fatica a impedirgli di accompagnarmi persino per la strada.
La nostra amicizia si protrasse così per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento e il mio carattere in genere, ad opera del demone Intemperanza (arrossisco nel confessarlo), subirono un radicale mutamento verso il peggio.
Ero divenuto di giorno in giorno più scontroso, più irritabile, sempre più incurante dei sentimenti altrui. Ero giunto a usare
verso mia moglie un linguaggio sconveniente. Alla fine arrivai persino alla violenza personale contro di lei. Naturalmente anche le mie bestiole ebbero a soffrire di questo mutamento del mio carattere. Non solo le trascuravo, ma le maltrattavo. Verso Pluto comunque sentivo ancora abbastanza tenerezza per
trattenermi dal picchiarlo, mentre non mi facevo scrupolo di percuotere i conigli, la scimmia, persino il cane, se essi per
caso o per affetto mi si mettevano tra i piedi. Ma il mio male peggiorava, quale male infatti è peggiore dell'alcool? E infine persino Pluto, il quale ormai invecchiava, ed era di
conseguenza alquanto stizzoso, persino Pluto cominciò a subire gli effetti del mio cattivo carattere. Una sera, ritornando a casa dai miei vagabondaggi per la città,
ubriaco fradicio, ebbi la sensazione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai, e l'animale, allora, spaventato dalla mia
violenza, mi produsse sulla mano, con i suoi denti, una lieve ferita. In un attimo fui invaso da una furia demonica. Non mi riconoscevo più. Era come se la mia anima originaria mi si
fosse a un tratto spiccata dal corpo, e una malvagità peggio che infernale, alimentata dal gin, pervase ogni fibra del mio essere.
Mi tolsi di tasca un temperino, lo apersi, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente gli feci saltare l'occhio
dall'orbita. Arrossisco, avvampo, rabbrividisco, mentre la mia penna descrive questa inaudita atrocità.
Allorché col mattino la ragione mi ritornò, dopo che il sonno aveva fatto dileguare lungi da me i fumi dell'orgia notturna, provai un sentimento per metà di orrore, per metà di rimorso,
per il delitto di cui mi ero reso colpevole; ma non era che un sentimento debole e ambiguo, e l'anima ne rimase intatta. Mi rituffai nei miei eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni
ricordo del mio misfatto.
Coll'andare del tempo tuttavia il gatto guarì. Certo la sua occhiaia vuota aveva un aspetto pauroso, ma l'animale non pareva soffrire più alcun dolore.
Si aggirava per la casa come al solito, ma com'era da aspettarsi, fuggiva terrorizzato non appena mi vedeva. Mi era rimasto ancora abbastanza del mio vecchio cuore per sentirmi a tutta prima addolorato da questo evidente disgusto da parte di una creatura che un tempo mi aveva tanto amato. Ben presto però a
questo sentimento succedette una viva irritazione. E infine si impadronì di me, per sommergermi in modo definitivo e
irrevocabile, lo spirito della PERVERSITÀ. Di questo spirito la filosofia non si cura. Eppure sono sicuro, quanto sono sicuro che la mia anima vive, che la perversità è uno degli impulsi più primitivi del cuore umano, una di quelle facoltà o sentimenti primari non analizzabili che dirigono il carattere dell'Uomo.
Chi non ha almeno cento volte commessa un'azione sciocca o vile, per nessun altro motivo se non perché sa che non dovrebbe commetterla? Non proviamo noi una tendenza
perenne, a dispetto di ogni nostra migliore saggezza, a violare ciò che è la LEGGE, soltanto perché la riconosciamo tale?
Questo spirito di perversità, ripeto, produsse in me il decadimento finale. Era questo insondabile anelito dell'anima A
TORTURARE SE STESSA, a violentare la propria stessa natura, a fare il male soltanto per amore del male, che mi sospinse a continuare e infine a consumare l'offesa che avevo
inflitta alla bestia innocente.
Un mattino, a sangue freddo le passai un cappio al collo e la impiccai al ramo di un albero; la impiccai, con le lagrime che
mi sgorgavano dagli occhi e col più amaro rimorso nel cuore; la impiccai PERCHÉ sapevo che mi aveva amato, e PERCHÉ
sentivo che non mi aveva dato alcun motivo di offesa; la impiccai PERCHÉ sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe posto in tale pericolo
la mia anima immortale da sottrarla (se una cosa simile fosse
possibile) perfino all'infinita misericordia dell'Infinitamente
Misericordioso e Infinitamente Terribile Iddio.
La notte di quel giorno in cui avevo compiuto questo gesto crudele fui risvegliato nel sonno da grida di "al fuoco! Al fuoco!". I cortinaggi del mio letto erano in fiamme, tutta la casa
ardeva. Fu con grande difficoltà che mia moglie, una domestica e io stesso riuscimmo a salvarci dall'incendio. La distruzione fu
totale. Tutta la mia sostanza venne inghiottita dal disastro, e da quel momento in avanti io mi abbandonai alla disperazione.
Non ho affatto la debolezza di cercar di stabilire un nesso di causa e di effetto tra questa sciagura e l'atrocità da me
commessa. Ma sto enumerando una catena di fatti, e non desidero perciò lasciare incompiuto anche un solo eventuale anello. Il giorno successivo all'incendio mi recai a ispezionare
le macerie. Tutti i muri della casa erano caduti, a eccezione di uno solo. Si trattava di un muro divisorio, non molto massiccio,
che si trovava verso il mezzo della casa, e contro il quale aveva sempre poggiato la testa del mio letto. In questo punto l'intonaco aveva in gran parte resistito all'azione del fuoco, un
particolare che io attribuii al fatto essere stata quella parete appunto ripulita di fresco. Intorno a questo muro si era radunata una densa folla, e molte persone sembravano
esaminare un certo tratto di parete con attenzione minutissima e ansiosa. Le parole "Strano!", e "Incredibile!", e altre
espressioni consimili eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi fosse scolpita in BAS-RELIEF sulla superficie
bianca, l'immagine di un gatto gigantesco. L'effetto era reso con una precisione che aveva veramente del fantastico. Intorno
al collo dell'animale penzolava una corda.
A tutta prima, nel trovarmi di fronte a quella apparizione, poiché non potevo considerarla altrimenti, fui invaso da uno
sbalordimento e da un terrore incontrollabili. Ma in seguito la ragione mi venne in soccorso. Mi rammentai di avere
impiccato il gatto in un giardino adiacente alla casa. Quando era stato dato l'allarme d'incendio questo giardino era stato
immediatamente invaso dalla folla, e tra questa qualcuno doveva aver tolto l'animale dall'albero e doveva averlo gettato attraverso la finestra aperta, nella mia stanza. Forse avevano
fatto questo con l'intenzione di svegliarmi. La caduta di altre pareti aveva schiacciato la vittima della mia crudeltà nella
massa dell'intonaco spalmato di fresco; e la calce di questo, unitamente alle fiamme a all'AMMONIA esalante dalla
carogna avevano poi compiuto la raffigurazione che io ora vedevo dinanzi.
Per quanto riuscissi a placare con questa riflessione il mio cervello, se non completamente la mia coscienza, e giustificare
così il fatto sorprendente che ho testé narrato, non mi fu tuttavia possibile sottrarmi alla profonda impressione che esso
aveva provocato sulla mia fantasia. Per mesi interi non riuscii a liberarmi del fantasma del gatto, e durante tutto quel tempo il
mio spirito fu tormentato da un sentimento indefinito che poteva sembrare, ma non era, rimorso. Giunsi sino al punto di
rimpiangere la perdita dell'animale e a guardarmi attorno, nei sordidi ambienti che ormai frequentavo d'abitudine, in cerca di
qualche altro esemplare della stessa specie, se non proprio del tutto identico, da poter coccolare, e grazie al quale sostituire la
bestiola perduta.
Una notte, mentre sedevo, in stato di semistupidimento, in una taverna malfamata, la mia attenzione fu improvvisamente
attratta da un oggetto nero che posava sul coperchio di una delle tante botti enormi piene di gin o di rum costituenti il
principale arredamento della stanza. Già da alcuni minuti stavo fissando proprio il coperchio di quella botte, e fui perciò
sorpreso di non essermi accorto prima dell'oggetto che vi era adagiato sopra. Mi avvicinai e lo toccai con la mano. Era un
gatto nero enorme, grosso quanto Pluto, e che gli assomigliava in tutto tranne che per un unico particolare. Pluto non aveva un
solo pelo bianco in tutto il corpo, mentre questo gatto aveva l'intera zona del petto ricoperta di una larga se pure indefinita macchia bianca.
Non appena lo toccai l'animale si alzò immediatamente, si mise a ronfare forte, si strofinò contro la mia mano, parve insomma
felice della mia attenzione verso di lui. Era dunque proprio il gatto di cui andavo in cerca.
Offersi subito al taverniere di acquistarlo, ma l'uomo dichiarò di non avere alcun diritto su quella bestia, poiché non ne sapeva nulla, né mai l'aveva veduta prima.
Seguitai ad accarezzarlo, e mentre mi disponevo a ritornare a
casa, l'animale dimostrò subito una evidente intenzione di accompagnarmi. Naturalmente ne fui ben contento, e di quando
in quando mi chinavo a lisciargli il pelo pur seguitando a procedere nel mio cammino. Non appena giunto a casa la bestia si addomesticò subito e divenne immediatamente il
coccolo di mia moglie.
Per parte mia mi accorsi ben presto che in me sorgeva contro
l'animale una viva antipatia. Era proprio il contrario di quanto avevo preveduto, ma non so perché o come fosse, la sua
manifesta tenerezza verso la mia persona mi indispettiva e disgustava. Gradatamente questi sentimenti di ribrezzo e di insofferenza si tramutarono in un odio profondo. Evitavo
l'animale; un vago senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impediva di maltrattarlo fisicamente. Per alcune settimane mi trattenni dal picchiarlo, o
dal fargli comunque del danno, ma a poco a poco, oh, per lentissimi gradi, giunsi a considerarlo con un ribrezzo
indescrivibile e a fuggire silenziosamente la sua odiosa presenza come sarei fuggito dal lezzo pestilenziale di una malattia contagiosa.
Quel che alimentava senza dubbio il mio odio verso l'animale era stata la scoperta, il mattino successivo alla sua venuta nella
mia casa, che anche questo gatto, al pari di Pluto, era cieco di un occhio. Questo particolare invece non aveva fatto che
renderlo ancora più caro a mia moglie, la quale, come già ho detto, possedeva in sommo grado quella umanità di sentimenti
che era stata un tempo il mio tratto caratteristico, e la fonte di
molte tra le mie più semplici e più pure soddisfazioni.
Ma quanto più la mia avversione per questo gatto cresceva, tanto più sembrava aumentare da parte sua la tenerezza verso di
me. Seguiva i miei passi con una ostinazione che sarebbe difficile far comprendere al lettore. Dovunque mi sedessi, subito si accovacciava sotto la mia seggiola, o mi balzava sulle
ginocchia, importunandomi con le sue insopportabili feste. Se mi alzavo per passeggiare, ecco che correva a mettermisi fra i piedi e per poco non mi faceva cadere, oppure conficcando nel mio vestito i suoi unghioli lunghi e aguzzi, si arrampicava con
questo sistema sino al mio petto. In quei momenti, benché mi divorasse il desiderio di distruggerlo con un colpo solo, ero
trattenuto dal far ciò, in parte dal ricordo del mio precedente delitto, ma soprattutto, lasciate che lo confessi subito, da un
vero e proprio TERRORE dell'animale.
Questo terrore non era esattamente il terrore di un possibile male fisico, e tuttavia non saprei come altrimenti definirlo. Ho
quasi vergogna di ammettere - sì, persino in questa cella d'infamia, ho quasi vergogna d'ammettere, - che il terrore e
l'orrore ispiratimi dall'animale erano stati rafforzati da una tra le più chimeriche assurdità che sia possibile immaginare. Mia
moglie aveva più d'una volta richiamata la mia attenzione sulla stranezza della macchia di peli bianchi di cui ho già accennato,
e che costituiva la sola differenza visibile tra questo misterioso gatto e quello che io avevo ucciso. Il lettore si rammenterà che
questo segno, per quanto grande, dapprincipio era molto indefinito, mentre invece in seguito (per gradi lentissimi, quasi
impercettibili, e che la mia Ragione si rifiutò a lungo di ammettere, respingendoli come un'assurda fantasia) aveva
infine assunto nettezza di contorni e una forma precisa. Esso era divenuto ora la rappresentazione di un oggetto che
rabbrividisco a nominare, e per questo soprattutto odiavo e paventavo e avrei voluto sbarazzarmi di quel mostro SE
SOLTANTO LO AVESSI OSATO, poiché questo segno, ripeto, si era finalmente trasformato nella figurazione limpidissima di
un oggetto odioso e ributtante: era divenuto una FORCA, oh, lugubre e terribile macchina di orrore e di delitto, di agonia e di morte!
E adesso la mia miseria superava la miseria tutta dell'Umanità
intera. E una BESTIA BRUTA, il cui simile io avevo così sprezzantemente annientato, una BESTIA BRUTA doveva foggiare per ME, per me uomo, fatto a immagine dell'Altissimo
Iddio, un così intollerabile tormento? Ahimè! Non conobbi più né di notte né di giorno la benedizione del riposo! Di giorno
l'animale non mi lasciava solo neppure per un istante; e di notte mi svegliavo di ora in ora di soprassalto, da incubi grevi di
indicibile paura, per sentirmi l'alito caldo di QUELLA COSA sulla faccia, e la vasta massa del suo corpo. Incubo incarnato
che non avevo il potere di scuotermi di dosso, eternamente incombente sul mio CUORE!
Sotto l'incalzare di siffatte torture, quel poco di bene che ancora restava in me scomparve. Pensieri malvagi divennero i miei
soli compagni, ed erano i più tetri, i più malvagi dei pensieri.
L'ombrosità abituale del mio carattere si tramutò in un odio forsennato di tutte le cose e dell'intera umanità; mentre degli
scoppi improvvisi, frequenti, incontrollabili di collera ai quali ora io ciecamente mi abbandonavo, la mia docile moglie, era
divenuta, ahimè! la vittima più consueta e più paziente.
Un giorno ella mi accompagnò per necessità domestiche nello
scantinato del vecchio edificio dove la nostra povertà ci costringeva ora ad abitare. Il gatto naturalmente mi aveva seguito giù per i ripidi scalini, e, avendo io evitato per vero
miracolo di cadere lungo disteso per causa sua, mi aveva esasperato sino alla follia. Sollevai una scure e dimenticando
nella mia collera il terrore puerile che sino a quel momento mi aveva trattenuto la mano, diressi contro l'animale un colpo che
certo lo avrebbe ucciso all'istante se fosse calato come io avrei voluto. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie.
La sua intromissione mi colmò di furore demoniaco e liberando violentemente il mio braccio dala sua stretta le affondai la
scure nel cervello. Ella cadde morta stecchita, senza emettere un gemito.
Appena compiuto questo odioso crimine, mi posi
immediatamente e con fredda deliberazione all'impresa di occultare il ca****re. Sapevo che non mi era possibile rimuoverlo dalla casa, né di giorno né di notte, senza correre il
rischio di essere notato dai vicini. Formai nella mia mente molti progetti. A tutta prima pensai di tagliare il ca****re in
pezzi minuti e di distruggerli nel fuoco. In un secondo tempo decisi di scavare una fossa nel pavimento della cantina. Poi
architettai di gettarlo nel pozzo del cortile, oppure di porlo dentro una scatola, come se fosse della merce, e ordinare al
portiere di portarlo via da casa. Infine escogitai quello che mi parve l'espediente migliore. Decisi di murarlo nella cantina
stessa, come si narra solessero murare le proprie vittime i monaci medievali.
La cantina era adattissima a uno scopo come il mio. Le sue pareti erano state costruite rozzamente, e di fresco intonacate
con cemento grossolano, cui l'umidità atmosferica aveva impedito d'indurirsi. Inoltre in una delle pareti vi era uno
sporto, provocato da un falso camino, o caminetto, che era stato riempito e trasformato in modo da somigliare al resto
dello scantinato. Mi assicurai che mi sarebbe stato facile spostare i mattoni in quel punto, inserirvi il ca****re, e tornare
a murare il tutto come prima, in modo che nessun occhio umano potesse scorgervi alcunché di sospetto.
I miei calcoli non dovevano ingannarmi. Con l'aiuto di una sbarra di ferro scostai facilmente i mattoni, e dopo avere accuratamente deposto il ca****re contro la parete interna, lo
puntellai in quella posizione mentre andavo via via riaccomodando senza fatica l'intera opera muraria così come era stata originariamente costruita. Mi ero procurato con tutte
le possibili cautele della calce e della sabbia, avevo preparato l'intonaco in modo che non era assolutamente possibile distinguerlo dal vecchio, e con esso ricopersi accuratamente la
nuova opera muraria. Quando ebbi finito mi accorsi con soddisfazione di aver compiuto un buon lavoro. Il muro non sembrava essere stato manomesso minimamente. Spazzai con
attenzione minutissima il pavimento dei rifiuti e delle scorie di cui lo avevo sporcato. Mi guardai attorno trionfante e dissi a
me stesso: "Meno male! Le mie fatiche non sono state vane".
Subito dopo, il mio primo pensiero fu quello di andare in cerca dell'animale che era stata la causa di tanta sciagura, poiché ero
ormai fermamente deciso ad ucciderlo. Se fossi stato in grado
di acchiapparlo in quel momento, il suo destino sarebbe stato indubbiamente segnato, ma, a quel che pareva, l'astuta bestia si
era spaventata del mio precedente accesso di collera, e si guardava bene dal presentarsi al mio cospetto, date le attuali condizioni del mio umore.
Mi è impossibile descrivere, o fare immaginare al lettore, il senso profondo, quasi estatico di sollievo che la constatazione
della scomparsa dell'odiata creatura suscitò nel mio petto. Per tutta quella notte non si fece vedere, e così per una notte
almeno, da quando si era introdotto nella mia casa, riuscii a dormire di un sonno profondo e pacifico; sì, DORMII nonostante il peso del delitto che mi gravava sull'anima!
Passò il secondo giorno, passò il terzo, ma il mio tormentatore non comparve. Tornai a respirare come un uomo libero. Certo
il mostro, spaventato, era fuggito dalla mia casa per sempre!
Non lo avrei più veduto! La mia felicità era al colmo! Non sentivo quasi la colpa del mio truce misfatto. Mi erano state
rivolte alcune domande, ma avevo saputo rispondere a tutte in modo soddisfacente. Era stata persino ordinata un'inchiesta, ma
naturalmente nessuno aveva scoperto nulla. Ero certo di avere ormai assicurato un avvenire tranquillo e sereno.
Il quarto giorno successivo all'assassinio entrò però inaspettatamente in casa mia una squadra di poliziontti che
procedette a un rigoroso esame dei locali. Sicuro però della inaccessibilità del mio nascondiglio non provai alcun
imbarazzo. I funzionari di polizia mi pregarono di accompagnarli nela loro perquisizione. Ogni angolo, ogni ripostiglio fu attentamente esplorato. Infine scesero in cantina
per la terza o quarta volta. Non uno solo dei miei muscoli tremò. Il mio cuore batteva calmo come batte a chi dorme nel sonno dell'innocenza. Percorsi la cantina da un capo all'altro, tenendo le braccia incrociate sul petto, e aggirandomi di qua e di là con disinvoltura. I poliziotti si dichiararono soddisfatti e si
disposero ad andarsene. L'esultanza del mio cuore era troppo intensa perché potessi trattenerla.
Bruciavo dal dire ancora una parola sola, per rafforzare il mio trionfo, e rassicurarli doppiamente dela mia innocenza.
- Signori, - dissi infine, mentre già stavano salendo i gradini, -
sono lieto di avere calmato i vostri sospetti. Vi auguro buona salute, e vi porgo i miei omaggi. A proposito, signori, questa... questa è una casa costruita meravigliosamente bene. - (Nel
desiderio morboso di parlare con disinvoltura, quasi non mi rendevo conto delle parole che proferivo). - Posso dire anzi che
è una casa costruita in maniera ECCELLENTE. Queste pareti, ve ne state già andando, signori? queste pareti, guardate come
sono solide! - E a questo punto, in una vera frenesia di sfida, picchiai pesantemente con la mazza che tenevo in mano proprio su quel tratto di opera muraria dietro al quale stava il
ca****re della moglie che io avevo tanto amata.
Ma possa Iddio proteggermi e liberarmi dagli artigli dell'Arcidemonio! Non appena gli echi dei miei colpi si furono
spenti nel silenzio, ecco che ad essi una voce rispose dal segreto loculo! Era un pianto, dapprima soffocato e interrotto,
come il singhiozzare di un bambino, che rapidamente si enfiò
sino a divenire un unico lungo, alto, continuo urlo, indicibilmente strano e inumano, un ululato, uno strido guaiolante, per metà di orrore e per metà di trionfo, quale solo
avrebbe potuto levarsi dal fondo dell'inferno, se le gole di tutti i dannati nella loro angoscia e tutti i demoni nell'esultanza della
dannazione umana si fossero insieme congiunte.
Di quel che fossero i miei pensieri in quel momento è follia parlare. Sentendomi venir meno, arretrai barcollando verso la
parete opposta. Per un attimo i poliziotti, giunti già in cima alle scale ristettero immobili, raggelati dall'orrore e da una specie di
arcana paura. Un attimo dopo dodici braccia robuste si davano da fare attorno alla parete. Questa cadde di colpo in tutta la sua
massa. Il ca****re, già quasi interamente decomposto e chiazzato di sangue raggrumato, apparve eretto dinanzi agli
occhi degli agenti. Sul suo capo, con la sua rossa bocca spalancata e l'unico occhio di fiamma, sedeva lo spaventoso animale la cui malizia mi aveva indotto al delitto, e la cui voce
rivelatrice mi aveva consegnato al boia.
Avevo murato il mostro entro la tomba!

Edgar Allan Poe

Indirizzo

Florence
50018

Orario di apertura

Lunedì 09:00 - 18:00
Martedì 09:00 - 18:00
Mercoledì 09:00 - 17:00
Giovedì 09:00 - 18:00
Venerdì 09:00 - 18:30
Sabato 10:00 - 13:00

Telefono

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Storiellando è un progetto di lettura e narrazione, diamo voce alle tue parole, trasmettendo emozione e colore.

In questi anni abbiamo narrato molte storie sia per bambini che per adulti.