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03/08/2025

Se questo è un uomo…🇵🇸

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29/07/2025

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Con l'amico del canale You Tube del PC Estero sezione Enrico Olivetti, ripercorriamo e analizziamo le ultime sulle situazioni di guerra in medio oriente, cen...

19/07/2025
ITAMAR BEN GVIR, IL VOLTO DEL FASCISMO SIONISTARoberto Roggero - Durante un'udienza presso l'Alta Corte israeliana sul t...
19/07/2025

ITAMAR BEN GVIR, IL VOLTO DEL FASCISMO SIONISTA
Roberto Roggero - Durante un'udienza presso l'Alta Corte israeliana sul trattamento dei prigionieri palestinesi, la maggior parte dei quali detenuta senza accuse né processo, sotto quella che viene definita “detenzione amministrativa preventiva”, il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, ha dichiarato apertamente: "Sono contento e orgoglioso di fargli soffrire la fame!".
Chi è questo individuo che si considera arbitro della vita altrui (come la quasi totalità del governo sionista), né più né meno degli aguzzini nazisti che nel recente passato hanno infierito contro il suo stesso popolo?
Itamar Ben Gvir è nato nel 1976 in un sobborgo periferico di Gerusalemme, da immigrati ebrei, il padre di origine irachena, la madre di origine curda e membro dell’Irgun Tzvai Leumi, (Organizzazione Militare Nazionale), gruppo paramilitare terroristico sionista, attivo durante il protettorato britannico della Palestina (1931-1948). Di famiglia laica, da adolescente si avvicinò alla religione e divenne un rigido radicale in occasione della Prima Intifada, poi entrò nel Moledet, movimento sionista giovanile di estrema destra, che professava la cacciata dei palestinesi dai confini israeliani, quindi divenne attivo nei movimenti Kahane Chai e Kach, di posizioni ancora più estremiste e considerati di ideologia terrorista dallo stesso stato di Israele.
Diventato maggiorenne, fu esonerato dal servizio militare obbligatorio proprio a causa delle idee oltranziste di estrema destra, ed entrò quindi nelle fila di Otzma Yehudit (Potere Ebraico) considerato formazione erede di Kahane.
Il suo curriculum comprende una lunga lista di incriminazioni e accuse formali, che lui stesso vanta essere almeno una cinquantina, in gran parte fatte decadere dai tribunali. Nel 2007 ha subito una condanna per istigazione al razzismo, che non ha avuto alcun seguito, e per possesso di arma da fuoco, che estraeva per le strade vantandosi di essere un tiratore infallibile.
Quando il primo ministro Ytzak Rabin firmò gli Accordi di Oslo, nel 1995, Ben Gvir lo minacciò pubblicamente di morte. Poche settimane dopo, Rabin fu assassinato da un estremista.
Laureto in Giurisprudenza, assunse in diversi casi la difesa di radicali ebrei, e in ripetute occasioni ha chiesto l'espulsione dei cittadini arabi da Israele. Nel gennaio 2023, ha messo in atto la provocazione contro i fedeli arabi, entrando a profanare la Moschea di Al-Aqsa, sul Monte del Tempio a Gerusalemme, provocando un'ondata internazionale di accanite critiche. In altre occasioni, si è vantato di avere, nella propria casa, il ritratto di Brauch Goldstein, terrorista autore della strage della Grotta dei Patriarchi a Hebron (Cisgiordania), nel 1994, dove morirono 29 palestinesi altri 125 furono feriti.
Molte le attività a sostegno dei coloni illegali, come l’allestimento, nel quartiere Sheik Jarrah, a Gerusalemme, di un ufficio espressamente dedicato al sostegno delle colonie illegali. La stessa polizia israeliana ha più volte segnalato Ben Gvir come uno dei principali istigatori delle violenze dei coloni contro i palestinesi, posto che comunque le aggressioni avvengono con la protezione di esercito e polizia.
Nel dicembre 2021, Ben Gvir è stato indagato dopo che è stato diffuso un video in cui puntava una pi***la contro le guardie di sicurezza arabe durante una discussione per un parcheggio nel garage sotterraneo del centro congressi Expo Tel Aviv.
All’avvertimento degli agenti di spostare l’auto perché parcheggiata in uno spazio riservato, Ben Gvir ha estratto una pi***la e la puntò contro le guardie disarmate.
Nell’ottobre 2022, ha preso parte attiva agli scontri di Sheikh Jarrah fra coloni israeliani e residenti palestinesi, anche in questa occasione armato con una pi***la e incitando la polizia israeliana di aprire il fuoco contro i civili palestinesi
Ha inoltre ripetuto la provocazione, profanando la Moschea di Al-Aqsa in altre occasioni, come attivista e membro della Knesset, così come marce di protesta attraverso la Città Vecchia di Gerusalemme.
Nel gennaio 2023, eletto ministro della Sicurezza Nazionale, ha nuovamente profanato il Monte del Tempio, provando reazioni di profondo dissenso anche da Washington, oltre che da Unione Europea, Giordania, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che hanno definito la sua visita provocatoria e hanno invitato Israele a rispettare lo status quo dei luoghi santi.
Nell'agosto 2023 Ben-Gvir ha dichiarato: "Il mio diritto, e il diritto di mia moglie e dei miei figli, di andare in giro per le strade in Giudea e Samaria è più importante del diritto di movimento per gli arabi". Questi commenti sono stati condannati dall'Autorità Palestinese (ANP) e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti come razzisti, che non fanno altro che confermare il regime di apartheid e supremazia ebraica e il terrore razzista contro il popolo palestinese.
Nel 2023, un rapporto ufficiale di Abraham Initiative ha attribuito la morte di 245 membri della comunità palestinese e diverse iniziative criminali sioniste, direttamente al ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir.
Nel novembre 2023 ha dichiarato che "quando dicono che Hamas deve essere eliminato, significa anche che chi canta e chi distribuisce caramelle, è un terrorista". In seguito ha pubblicamente affermato che la guerra con Hamas rappresenta un'opportunità per concentrarsi sull'incoraggiamento della migrazione dei residenti di Gaza, e che le forze israeliane non si ritireranno mai dalla Striscia di Gaza finché ci saranno palestinesi.
Il giorno in cui un certo numero di paesi europei ha riconosciuto uno Stato palestinese, Ben Gvir è nuovamente entrato nel complesso della moschea di Al-Aqsa dichiarando: “Non permetteremo mai alcuna resa che includa anche solo una dichiarazione di uno Stato palestinese. Il Monte del Tempio appartiene solo a Israele".
La nota sociologa israeliana Eva Illouz ha detto che Itamar Ben Gvir rappresenta pienamente il "fascismo estremista ebraico sionista"…

GAZA - LA RESPONSABIITA’ GIURIDICA DEL GOVERNO ITALIANORoberto Roggero - L’Aula della Camera ha respinto con 142 voti co...
19/07/2025

GAZA - LA RESPONSABIITA’ GIURIDICA DEL GOVERNO ITALIANO
Roberto Roggero - L’Aula della Camera ha respinto con 142 voti contrari e 102 a favore la mozione presentata da PD, Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi-Sinistra, che chiedeva di sospendere il memorandum in materia di cooperazione militare fra Italia e Israele, firmato nel 2003 e ratificato nel 2005, il cui rinnovo automatico è previsto ad aprile 2026.
Prove alla mano, il governo italiano è in condizione di palese violazione della legge internazionale sulla prevenzione del genocidio, in quanto Paese fondatore e firmatario della Convenzione di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale di Giustizia.
La violazione, oltre che dell’Art.11 della Costituzione della Repubblica Italiana, consiste nella complicità in atti di genicidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, per il fatto di continuare, nonostante le retoriche dichiarazioni di condanna, la compravendita di armamenti con Israele.
Con il governo, la complicità riguarda anche membri dell’esecutivo, dirigenti e capi delle aziende che mantengono tale commercio, e che in altri Paesi come la Russia, sono stati sottoposti a sanzioni dirette per lo stesso reato. Evidente dimostrazione dell’adozione dei due pesi due misure, il che non è comunque una novità dell’ultima ora, ma purtroppo pratica ormai abituale.
L’Italia sta continuando a fornire armi, munizioni, materiali a duplice uso, nonché attività di supporto logistico per velivoli da addestramento anche dopo il 7 ottobre. Tutto questo mentre la Corte Internazionale di Giustizia aveva già sentenziato, in tre diverse occasioni, che Israele stesse commettendo atti di genocidio a Gaza.
La prevenzione del genicidio è contemplata nell’Art.1 della Convenzione Internazionale del 1948, ed è considerato obbligo internazionale dei Paesi aderenti.
Come dimostrato nel 2007, con la guerra in Bosnia e nella ex Jugoslavia, la legge internazionale si applica non solo se il genocidio è in corso, ma anche e soprattutto quando un qualsiasi Stato firmatario viene a conoscenza del rischio che tali atti si possano verificare, quindi appunto nel senso della prevenzione. In tal caso l’obbligo consiste nel prendere immediati provvedimenti per evitare che tale crimine si compia, pur se le misure adottate non garantiscono risultati.
Per quanto riguarda il conflitto di Gaza e della Cisgiordania, alla fine del gennaio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso la prima ufficiale sentenza per l’adozione di tre misure cautelari, su richiesta del governo del Sud Africa, riconoscendo a Israele la responsabilità in imminente atto di genocidio, e ha imposto al governo Netanyahu di attuare immediate misure per prevenire crimini contro la popolazione civile palestinese, garantendo l’accesso di aiuti umanitari. Tali misure riguardavano non solo direttamente il governo israeliano, ma anche gli Stati che con Israele mantengono rapporti bilaterali di genere diplomatico o commerciale, quindi Italia compresa, ufficialmente informata della situazione e obbligata ad agire sotto l’aspetto giuridico internazionale. Ciò comprende la sospensione di qualsiasi compravendita di materiale che può esser utilizzato in un conflitto.
Come indicato dalla giurisprudenza della Corte Internazionale non è necessario che l’assistenza sia determinante per configurare la violazione dell’obbligo, ma è sufficiente che lo Stato non abbia adottato le misure a disposizione per evitarla.
Il governo italiano era quindi tenuto a sospendere, tramite embargo, i traffici di armamenti con Israele, ma anziché attuare quanto previsto, ha invece giustificato la prosecuzione delle forniture con il fatto che si trattava di licenze rilasciate prima del 7 ottobre. Argomentazione totalmente irrilevante, secondo il diritto internazionale, in quanto l’obbligo di prevenzione richiede che ogni fornitura sia bloccata alla luce del plausibile atto di genocidio.
Si prospetta, inoltre, la ulteriore evidente violazione del cosiddetto Advisory Opinion Act del luglio 2019, relativo ai Territori Palestinesi, emesso sempre dalla Corte Internazionale di Giustizia, che ha ufficialmente riconosciuto lo stato di occupazione illegale, da oltre 50 anni, con dichiarazione unilaterale di annessione e sistematica violazione dei diritti fondamentali.
La Corte Internazionale ha sentenziato che gli Stati membri hanno l’obbligo di non riconoscere tale condizione di occupazione e annessione, e di non contribuire in alcun modo al suo mantenimento, sospendendo ogni genere di cooperazione che possa in alcun modo favorire tale condizione. Divieto che non riguarda solo le relazioni bilaterali a livello diplomatico, ma anche i rapporti fra imprese e aziende private o a partecipazione/giurisdizione statale, nonché la validità di accordi e contratti in essere, a maggior ragione quando tecnologia e materiali sono usati in operazioni militari nei Territori Occupati, come Gaza o Cisgiordania.
Per quanto riguarda la complicità in genicidio (Art.16: Responsabilità Internazionale degli Stati in atti illeciti), uno governo è considerato responsabile se fornisce aiuto o assistenza a un altro Stato nella commissione di un atto illecito internazionale, qualora lo Stato in questione sia consapevole delle circostanze che rendono l’atto illecito, oppure se l’atto è illecito anche se commesso dal governo che fornisce assistenza.
Secondo lo Statuto della Corte Internazionale, la complicità comporta l’esistenza di un atto di assistenza materiale che faciliti la commissione del crimine, e la conoscenza dell’intento genocidario.
Non è necessario che il governo presumibilmente complice condivida l’intento genocidario, ma è sufficiente che sia consapevole del rischio che il genocidio venga commesso e fornisca un contributo, anche indiretto, che faciliti il crimine in oggetto.
La conoscenza da parte del governo italiano è accertata, e da quel momento, l’Italia non può più nascondersi dietro l’incertezza o ignoranza dei fatti, in quanto a conoscenza dell’esistenza del concreto rischio di genocidio.
Secondo tale concetto, la continuità nei rapporti commerciali e di compravendita di materiale bellico contribuisce a rafforzare la capacità operativa dello Stato responsabile di atti plausibilmente genocidari.
Il governo italiano aveva il preciso obbligo di fermare la vendita di armi e di interrompere qualsiasi attività di supporto logistico.
Non avendo fatto niente di tutto questo, il governo italiano può essere ritenuto responsabile per complicità in genocidio, a causa delle continue relazioni bilaterali, di tipo militare, tecnologico e industriale con Israele.
Il caso Nicaragua contro Germania conferma la eventuale applicazione dell’accusa di complicità in genocidio anche nei confronti dell’Italia, per responsabilità penale individuale secondo l’Art. 25 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, e responsabilità penale individuale di funzionari pubblici e privati, qualora abbiano contribuito alla commissione di crimini internazionali.
L’Italia si trova oggi in una posizione giuridica chiara: la continuazione dell’esportazione di armamenti e materiali verso Israele, a fronte di decisioni della Corte Internazionale di Giustizia e in un contesto di crimini internazionali sistematici, configura una molteplice responsabilità: violazione dell’obbligo di prevenzione del genocidio; violazione del dovere di non assistenza imposto dall’Advisory Opinion del luglio 2024; complicità dello Stato in atti di genocidio; responsabilità penale individuale di decisori politici, funzionari pubblici e leader di aziende, per favoreggiamento di crimini internazionali.

TUTTI I CONFLITTI DEL MEDIO ORIENTERoberto Roggero - Mentre viene diffuso l’annuncio di un accordo fra Siria e Israele p...
19/07/2025

TUTTI I CONFLITTI DEL MEDIO ORIENTE
Roberto Roggero - Mentre viene diffuso l’annuncio di un accordo fra Siria e Israele per un cessate-il-fuoco, molti altri conflitti sono ancora in svolgimento, in Medio Oriente, di intensità più o meno accanita, con bombardamenti che causano ancora vittime fra i civili innocenti, blitz vendicativi, omicidi mirati, e altro ancora. I Paesi e le organizzazioni coinvolti in guerre più o meno dichiarate sono Israele, Hamas, Hezbollah, Iran, Stati Uniti, Gran Bretagna, Yemen, Libano, Siria, Iraq, Isis, curdi e movimenti separatisti minori. Ultimo ma non ultimo, il Pakistan con una situazione decentrata rispetto al Medio Oriente, ma con innegabile influenza sugli equilibri della Regione.
Se l’allargamento del conflitto di Gaza è da oltre tre mesi la priorità di capi di Stato, ministri, generali, osservatori, investitori e cittadini consapevoli, questo caos dovrebbe esserne la prova: una grande guerra mediorientale. In realtà è difficile sostenere che il Baluchistan, fra Iran e Pakistan, dove i due Paesi si bombardano a vicenda, sia una conseguenza della carneficina in atto a Gaza, su donne e bambini palestinesi.
In Iran, la morte di oltre un centinaio di civili dall’inizio dell’anno, è stata causata da Daesh (Isis), tuttavia Benjamin Netanyahu ci ha messo del suo in non poca misura. I nemici dell’Iran non sono pochi.
Nel Nord di Siria e Iraq gli scontri fra truppe americane, gruppi filo-iraniani, islamisti e curdi, non sono una novità visto che sono in corso da diversi anni, e sono facce della stessa medaglia mediorientale, nonché conseguenze della fallimentare invasione americana dell’Iraq del 2003, e della trasformazione in guerra civile della Primavera Araba, circa dieci anni dopo.
Nello Yemen, gli Houthi sostengono di lanciare missili per sostenere la causa palestinese, ma è molto probabile che anche se cessasse la guerra nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, le loro azioni continuerebbero, con lo scopo di controllare uno dei tratti di mare più importanti del mondo per i commerci.
Escludendo la guerra Hamas-Israele, che per diverse ragioni vorrebbero entrambi un allargamento del conflitto, nessuno vuole che in Medio Oriente esploda una guerra globale, perché sarebbe una situazione a dire poco catastrofica, perché trascinerebbe inevitabilmente Arabia Saudita, Mirati Arabi e gli altri Stati del Golfo.
Rimane il fatto drammatico che in un conflitto a macchia di leopardo e a bassa intensità, con azioni mirate o dichiarazioni minacciose, nessuno sta facendo qualcosa per impedirlo. A questo punto, più dei negoziati conta il potere di veto
Washington critica apertamente il comportamento di Israele, ma continua a rifornirlo di armamenti per uccidere donne e bambini palestinesi. L’Iran non vuole intervenire nel conflitto di Gaza ma sostiene le milizie alleate e, secondo la CIA avrebbe anche ripreso l’arricchimento dell’uranio, posto che nemmeno questo costituisce una novità visto che la tanto propagandata missione di bombardamento dei centri per la ricerca nucleare, è stata preannunciata circa dieci giorni prima, per dare il tempo a Teheran di trasferire importanti quantità di uranio, onde evitare un disastro radioattivo.
Nessuno vuole una guerra su vasta scala, ma si continua ad alimentare il clima di scontro, e prova ne sia il fatto che, fra gli altri, il governo italiano condanna il bombardamento israeliano ma rifiuta si sospendere la legge che regola gli accordi per la compravendita di materiale bellico.
Prima che nascessero gli stati che conosciamo, il conflitto fra arabi ed ebrei e fra palestinesi e israeliani, è sempre stato un forte elemento di disturbo nella regione. Tuttavia, oggi il Medio Oriente non è instabile solo per la guerra di Gaza ma lo scontro si è trasformato in un catalizzatore di tutti gli altri, anche se non lo è.
Per questo è importante che la guerra di Gaza abbia fine, sebbene non se ne vedano i segnali, salvo l’ipocrita critica dell’amministrazione americana a Netanyahu, che non può permettersi la fine della guerra a Gaza perché segnerebbe la caduta del proprio governo e la morte politica del premier. Secondo diversi organi di informazione, anche israeliani, più che la guerra a Gaza, Netanyahu sta combattendo per la sua sopravvivenza politica.
Lo Shin Bet, il servizio segreto interno, mette le mani avanti, sostenendo che il conflitto potrebbe allargarsi in Cisgiordania, visto che di fatto la guerra sta già coinvolgendo anche questo territorio.

18/07/2025

Continuano le misure prese dai paesi del Sud Globale che, di fronte a un Occidente complice e fiancheggiatore del massacro israeliano, rompono gli indugi e dicono basta. Ora è la volta del presidente della Colombia, Gustavo Petro, che con dichiarazioni durissime ha annunciato l'intenzione di ritira...

ECONOMIA DI GUERRA, TEORIA E PRATICARoberto Roggero - Un argomento in costante aggiornamento, fin da quando l’allora pre...
11/07/2025

ECONOMIA DI GUERRA, TEORIA E PRATICA
Roberto Roggero - Un argomento in costante aggiornamento, fin da quando l’allora presidente del Consiglio Mario Draghi aveva equiparato il fronte energetico finanziario alla economia di guerra, per finire ai giorni nostri, con capi di stato e ministri che dichiarano lo stato di emergenza, come il premier Viktor Orban in Ungheria, per finire al presidente francese Emmanuel Macron, che nel discorso del 13 giugno a Eurosatory (la più grande esposizione internazionale di armamenti in Europa) è stato forse il più chiaro nel dichiarare, senza eufemismi, che l’Unione Europea è entrata in una vera e propria economia di guerra, sia in senso reale, in riferimento al conflitto russo-ucraino, sia in senso paradossale, con la assurda corsa agli armamenti per i ricatti del presidente americano Donald Trump che obbliga i membri della Nato ad aumentare gli armamenti fino al 5% del Pil di ogni componente, con l’eccezione della Spagna, il cui governo ha votato il rifiuto a sottostare a un tale obbligo.
Macron ha parlato di un’economia da velocizzare per ritmi, aumenti di carico, margini, per poter ricostituire ciò che è essenziale per le forze armate, per gli alleati, e per chi vogliamo aiutare.
Ma aiutare a fare cosa? Forse a fare scoppiare nuove guerre? Forse per una economia che andrebbe solo a ingrassare le già strapiene casse dell’industria degli armamenti?
Attualmente viviamo un’epoca in cui si confonde fin troppo la questione dell’economia di guerra, cioè utilizzo delle risorse da impiegare in un contesto di conflitto aperto, con la guerra economica, cioè l’utilizzo di industria, finanza, comparto strategico, come elemento per fare pressione su un Paese non allineato o palesemente ostile.
E’ una situazione di comodo, fin troppo comodo, disquisire di economia di guerra nelle attuali condizioni di frammentazione in cui si trova l’Unione Europea, che ha perfino salvato Ursula von der Leyen per continuare a tenere a galla la questione del riarmo.
Una vera e propria guerra utilizzando l’arma dell’economia, che per altro non è certo una novità storica, fin dai tempi in cui Pompeo armava i pirati nel Mediterraneo, o da quando la Repubblica di Venezia ha dirottato la Quarta Crociata dalla Terra Santa a Costantinopoli, o dai tempi dei corsari autorizzati dalla corona inglese contro i galeoni spagnoli carichi di merci preziose, per non parlare del blocco economico continentale imposto da Bonaparte.
Dalla guerra economica, all’economia di guerra che invece è un concetto più recente, che ha pe proprie radici negli anni in cui è nata la industrializzazione e la pianificazione delle strategie di amministrazione dello Stato in caso di mobilitazione. Oggi i Paesi che vivono in economia di guerra sono quelli che si trovano in stato di guerra, come Russia, Ucraina, Israele, Iran, Sudan e purtroppo diversi altri di cui si parla sempre troppo poco.
E’ il concetto di mobilitazione delle risorse e delle capacità produttive nazionali, per affrontare una condizione di emergenza, messa in atto dai Paesi coinvolti, direttamente o meno, che fu tipica della Grande Guerra e si è poi enormemente evoluta nel corso della seconda guerra mondiale, conflitto ancora più devastante.
Il discorso di Emmauel Marcon è stato abilmente preparato per unire il concetto di economia di guerra al rafforzamento imposto da Washington, che la Francia accarezzava già prima che scoppiasse la guerra Russia-Ucraina: operare una trasformazione dell’organizzazione e della gestione dello Stato, sfruttando un conflitto per imporre armamenti e riarmo come priorità, calcolando come effetto collaterale il reindirizzamento di alcune tecnologie industriali e, ovviamente, l’imposizione di aumenti nel regime fiscale a danno dei cittadini.
D’altra parte non è un segreto che l’Internet che conosciamo e utilizziamo, deriva da una tecnologia militare, per altro oggi obsoleta, che risale alla Guerra Fredda.
Per paesi non direttamente coinvolti nel conflitto Russia-Ucraina, lo stratagemma è sostenere con invio di armamenti una delle due parti, e nel contempo approfittarne per dotarsi di armamenti per una utopica difesa, senza considerare che guerra alimenta guerra.
Oggi si assiste a una mobilitazione di gran parte delle risorse a disposizione, a partire dal settore energetico: con le sanzioni imposte a Mosca, ad esempio, è necessario reperire fonti energetiche per produrre armamenti e tecnologia da fornire a Kiev, in un circolo vizioso sempre più incontrollabile, per togliere linfa al ricatto energetico russo. Per Gaza e Medio Oriente il discorso non cambia.
Il reindirizzamento di certi generi di produzione industriale, e relativi redditi, si ripercuote in termini di inflazione e aumenti dei prezzi.
In questo scenario, ’Europa accetta di subire danni maggiori rispetto a quelli degli Stati Uniti, assistendo all’impoverimento della propria economia per raggiungere l’obiettivo, ovvero mettere in ginocchio la Russia. Obiettivo per altro ben difficile da raggiungere, dato che la Russia è una potenza mondiale, sostenuta da altre potenze mondiali come la Cna.
L’economia di guerra impone la gestione delle risorse per la massima efficienza. Alla radice di tutto, chi ne trae maggiore beneficio sono i settori direttamente interessati, come la difesa e le banche di investimento, mentre altri settori considerati non prioritari sono trascurati e lasciati indietro.
L’aumento degli investimenti in per la difesa determina un logico innalzamento delle spese militari, che comunque tendono all’inflazione, perché l’emergenza produce necessità di riarmo con una grande quantità di fondi pubblici. Intanto, investimenti, rincari e tensioni aumentano il costo della vita.
Diminuisce la logica del mercato globale e aumenta la imposta necessità di maggiore sicurezza, soffocando diritti fondamentali e libertà individuali, come il diritto di manifestare opinioni contrarie, con il pretesto di combattere la minaccia del terrorismo.

RICORDARE SREBRENICA PER NON DIMENTICARE GAZA E SUDANRoberto Roggero - L’11 luglio è l’anniversario del massacro di Sreb...
11/07/2025

RICORDARE SREBRENICA PER NON DIMENTICARE GAZA E SUDAN
Roberto Roggero - L’11 luglio è l’anniversario del massacro di Srebrenica del 1995, dove più di 8.000 persone furono trucidate dai reparti serbi comandati dal generale Ratko Mladiç, il tristemente noto “macellaio di Bosnia”, per diretto ordine di Slobodan Miloseviç e Radovan Karadziç, rispettivamente presidenti di Serbia e della Repubblica Serba di Bosnia.
Con la Risolizione n.827 del 1993, l’ONU istituiva il Tribunale Speciale per la Ex Jugoslavia (ICTY), presieduto dal magistrato italiano Antonio Cassese, e i responsabili furono alla fine condannati per crimini di guerra, genocidio e crimini contro l’umanità. Era la sentenza del 26 febbraio 2007, emessa su richiesta delle autorità di Bosnia Erzegovina contro Serbia e Montenegro.
Il termine genocidio è ancora oggi drammaticamente attuale, nonostante le lezioni della storia, soprattutto per quanto riguarda ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza e in Sudan, dove è in atto la più atroce emergenza dei nostri tempi.
A quanto pare, tribunali, sentenze, giudizi, sono serviti a poco. L’esperienza delle Corti Internazionali di Giustizia, che hanno esaminato e sentenziato i responsabili dei massacri di Bosnia e Rwanda, sono certo serviti allo sviluppo del diritto internazionale, fino alla costituzione dello Statuto di Roma che ha determinato l’istituzione della Corte Penale Internazionale, ma sul lato pratico poco o nulla è cambiato. I massacri continuano, e le Corti Internazionali incontrano sempre più difficoltà nel portare a compimento il proprio compito, dal momento che manca ancora la volontà politica degli stessi firmatari, di fare funzionare fino in fondo tali organismi. Anzi, la situazione pare semmai peggiorata: se a Srebrenica sono state uccise oltre 8.000 persone, a Gaza le vittime hanno superato le 65mila, e certe fonti parlano addirittura di oltre 150mila morti.
Perché oggi è così difficile ammettere che a Gaza è in corso un genocidio?
Anche nei casi della ex Jugoslavia e del Rwanda si sono avute le stesse difficoltà, certo perché si continua a incontrare una opposizione di fondo a usare la parola “genocidio”, per le implicazioni e le responsabilità che comporta: la responsabilità dei governi e dei singoli di fronte alla Convenzione sul Genicidio del 1948 e di fronte alla Corte Penale Internazionale, dal momento che la stessa Corte ha una competenza complementare a quella dei singoli Stati.
La maggior parte degli Stati, inclusa l’Italia, hanno una legge sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio che stabilisce un obbligo di perseguire i responsabili di questi crimini. Eppure, anche di fronte all’evidenza dei fatti, i progressi sono ben pochi.
Nel 2007, la Serbia non fu ritenuta colpevole del genocidio di Srebrenica perché non si ritenne abbastanza forte il collegamento fra Repubblica Serpska e Serbia e Montenegro, ma la Corte Internazionale di Giustizia ritenne che la Serbia fosse responsabile di mancata prevenzione del genocidio di Srebrenica.
Qualsiasi firmatario della Convenzione deve agire per impedire che un genocidio avvenga, e maggiori sono i collegamenti di uno Stato con i presunti responsabili, più forte la responsabilità di prevenire.
Ciò significa che se il crimine viene compiuto da uno Stato co cui si hanno rapporti diplomatici, politici o comunque relazioni bilaterali, in quel caso è d’obbligo agire con ogni strumento possibile.
Oggi accade il contrario, perché i governi coinvolti stanno continuando a inviare armamenti e finanziamenti, e ad acquistare grandi volumi di tecnologia militare, senza interrompere i rapporti (soprattutto commerciali) con lo Stato di Israele, cioè proprio con quello Stato che la Corte Internazionale ha evidenziato essere responsabile di genocidio.
Secondo le norme, lo stesso governo italiano potrebbe essere responsabile di mancata prevenzione, per quanto riguarda il genocidio in corso a Gaza, senza trascurare l’accusa di complicità.
Inoltre, l’esperienza della ex Jugoslavia ci ha anche reso chiaro il significato del concetto di “pulizia etnica”, che però a livello giuridico internazionale, non è ancora sufficientemente registrato nelle norme del diritto e non ancora equiparato al genocidio.
La domanda spontanea è: Qual è la differenza fra genicidio e pulizia etnica? Può avvenire un genocidio senza pulizia etnica o viceversa?
Paradossalmente (è incredibile!) la pulizia etnica non è considerata giuridicamente un crimine, ma un concetto “descrittivo”, ovvero: portare una determinata area geografica alla omogeneità per quanto riguarda la popolazione, ovvero “espellere” tutti coloro che non fanno parte di una determinata etnia.
Con riferimento a Gaza, secondo il governo sionista israeliano, i palestinesi devono essere espulsi da Gaza, come i musulmani bosniaci dovevano essere cacciati dai territori serbi di Bosnia. Dal punto di vista giuridico, la deportazione forzata è comunque un reato, un crimine di guerra e contro l’umanità. Le stesse cose che hanno subito gli ebrei durante la seconda guerra mondiale, per cui ancora oggi si ricorda la “Giornata della Memoria”, con uno sterminio che gli stessi israeliani stanno compiendo oggi contro la popolazione palestinese.
Se nella pulizia etnica è compresa la distruzione totale del territorio stesso, allora si profila il crimine di genocidio, in quanto esiste l’evidente azione dolosa, l’intenzione di distruggere un gruppo etnico, con il proprio bagaglio religioso, storico e culturale.
La vergogna della comunità internazionale, e soprattutto di quei governi che sono firmatari dello Statuto di Roma, sta nel fatto che ci si intestardisce a non definire certi atti come genocidio, e quindi a fare aumentare la difficoltà giuridica nel fare valere la relativa responsabilità. Tanto più quando certe iniziative vengono anche mascherate con il “diritto alla legittima autodifesa”, che fa emergere anche il discorso dell’aggressione israeliana all’Iran.
Piegare il significato di “legittima difesa” per legittimare e consentire un attacco in prima istanza, e fare apparire l’aggredito come aggressore. Su questa strada si rischia una pericolosa ritorsione del diritto internazionale.

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