
04/09/2025
Cesare Pavese: la solitudine come destino
Di Mariaclara Menenti Savelli
L’opera narrativa di Cesare Pavese si impone nel vasto panorama della letteratura italiana del Novecento, con singolare forza tra il lirismo dell’interiorità e la crudezza di una realtà irriducibile, dove mito, memoria e solitudine di fondono in un intreccio indissolubile.
Scrittore inquieto che, a differenza degli altri autori del suo tempo che cercano risposte nella crudezza del neorealismo o dell’astrazione ideologica, predilige un realismo che sia misura metafisica dell’esperienza umana.
Torino, le “sue” Langhe, le campagne piemontesi e le periferie urbane fungono da luoghi simbolo densi di presagi, in cui la vita si mostra in tutta la sua nuda e misteriosa realtà. Il paesaggio diviene riflesso dell’angoscia interiore dei personaggi, sospesi tra l’apparente impossibilità a reagire e il peso di una responsabilità morale.
Il suo stile è lineare seppur ricercato, essenziale, tale da riuscire a evocare con pochi semplici accenti, mondi interiori complessi e stratificati. La sua lingua così attenta al parlato, alle inflessioni dialettali, è essenzialmente una lingua che conosce il peso del silenzio. La sua opera è specchio di un’epoca lacerata in cui si agitano drammi esistenziale e il canto di una umanità che non conosce redenzione.
La sua fine prematura, avvenuta nel 1950, poco dopo la pubblicazione del romanzo “La luna e i falò”, non può ridurre la sua opera a quel gesto finale, perché “ogni nuovo mattino uscirò per le strade cercando i colori, anche se quei colori sono velati da un continuo disincanto”. (Continua nei commenti)