02/09/2025
La disciplina scolastica (Roccagorga anni '50)
"Nella nostra classe eravamo in maggioranza “sanpietrani”. C’erano anche i “crocellari”. Uno (Vincenzo detto La cadolla) veniva dalla località chiamata “jo Laco”, una località nel Comune di Priverno. La sua famiglia aveva la residenza a Roccagorga e lui veniva a scuola con noi. Quando, in autunno o in primavera, il fosso che divide il territorio di Roccagorga da quello di Priverno era grosso e non poteva passare, non veniva; oppure, faceva il giro largo, passando per Casacotta, in territorio di Maenza. Insomma, chilometri e chilometri a piedi per raggiungere il paese. In classe, le contrapposizioni rionali non esistevano. La disciplina era severa. Le famiglie si affidavano alla scuola e la raccomandazione al maestro era di menare in caso di bisogno. Il maestro, in questo, non faceva trattamenti speciali. I figli di contadini, all’occorrenza, le prendevano; così i figli degli artigiani e il figlio dell’impiegato comunale. Il maestro si occupava anche della nostra salute. Quasi ogni giorno faceva l’ispezione corporale. Collo, orecchi, capelli, per vedere se non ci fossero pidocchi. Ogni tanto qualcuno veniva trovato con il collo o le orecchie non a posto. In questi casi, il bambino – ma succedeva di più ad alcuni più grandi che a casa già si occupavano degli animali – veniva mandato a prendere l’acqua alle fontane. L’acqua corrente non c’era nelle case e neppure nelle scuole. Qualche volta il maestro non si fidava. Il bambino poteva scappare – e ogni tanto succedeva – e allora mandava me. Di fatto, alla fine venivo punito io. Inoltre, come capoclasse – ormai questo era il mio incarico – dovevo curare che il bambino o il ragazzo si lavasse per bene le mani, la faccia, il collo con acqua e sapone. C’era anche un asciugamano che usavano tutti. Una volta – era in febbraio o marzo ed era molto freddo – stavo versando l’acqua nelle mani di uno che era incappato nella punizione. Era uno di quelli più grandi. Mentre si era già piegato in avanti con le mani a coppa per ricevere l’acqua, si girò verso di me e bonariamente mi disse: “Disgrazia’, fa piano ch’è fredda”. Ad un certo punto, il maestro – era alle mie spalle e non me n’ero accorto – dicendo: “Ma che fai…ci stai a cincischia’ …”, mi strappò il secchio dalle mani e “splash”, gli buttò tutta l’acqua in faccia. Per prevenire la diffusione dei pidocchi, ogni anno, verso gennaio o febbraio, ci mandava tutti dal barbiere. Alcuni dal padre di un nostro compagno di classe, altri dall’altro barbiere del paese, se era disponibile. Eravamo in quarta, quando successe quello che sto raccontando. La cosa avveniva così: il maestro dava ad ognuno dieci lire. Si andava a gruppi di quattro o cinque. Quando i primi tornavano, andavano gli altri e così via. Il giorno successivo ognuno doveva restituire le dieci lire. Il barbiere, su disposizione del maestro, ci rapava a zero. E per la stagione non era una cosa buona. Una volta mio padre si è un po’ arrabbiato. “Che modo è chisto de taglia’ i capigli a no ‘mmammoccio a febbraio”. Non so, però, se fece qualche protesta. Nulla, credo. Nella classe c’era una certa aria di protesta. Qualcuno non veniva; qualche altro se la svignava. Era marzo, quello stesso anno. Uno di noi non veniva più a scuola. Si sapeva dov’era. Andava nella sua campagna ai Prati senza dire niente ai genitori. Il maestro mi mandò a chiamarlo. Non era un percorso semplice. Tre chilometri ad andare e tre a tornare, se non facevo altri giri. Lo trovai nella sua capanna. Appena mi vide bruscamente mi disse: “Che vó”. “Glio maestro ma ditto che tata veni’ alla scola”. E lui: “I vidi ssi lupini? Toglietenne ‘npo’ e magnetigli. Aglio maestro dicci ca non tengo tempo de veni’ alla scola”. Così, furono avvertiti i suoi genitori. Tornò subito a scuola. Lo avevano crocchiato di brutto. "
Vittorio Cotesta "I giorni della mia vita"
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