Un'ala per volare

Un'ala per volare Un raccoglitore di scritti, racconti, poesie, saggi degli autori di A.L.A., Associazione Liberi Autori

05/06/2025

Rattatà.

Ero un ragazzo che, come te, amava i Beatles e i Rolling Stones. Vivevo in una piccola città, Rock Ville, quando ricevetti la lettera.
Arruolato nei marines, destinazione Viet Nam. Nel frattempo assegnato al centro di addestramento, in Florida. Fu lì che iniziò la nostra vita da cani e il mio primo incontro con il fango.
Più della metà del tempo della esercitazione lo passavamo in qualche acquitrino, sdraiati di pancia o di schiena, strisciando come serpi o come alligatori, diceva il sergente. Perché il Viet Nam, diceva sempre lui, anzi, urlava sempre lui, il Viet Nam non è un salotto.
Ora, che non fosse un salotto lo avevamo capito tutti, ma tra un salotto e un mare di mota puzzolente ci sono molte possibilità intermedie.
No, urlava il solito sergente: uno che striscia nel fango è un uomo vivo; chi si alza in piedi è un uomo morto. Aveva ragione lui; nel Viet Nam sarebbe stato così, lo avremmo sperimentato sulla nostra pelle.
Proprio il contrario di quello che diceva il pastore la domenica: l’uomo è stato creato dall’argilla, dal fango quindi, tratto fuori dal fango ed è morendo che tornerà nel fango.
Ma lì non c’era tempo di pensare a queste sciocchezze. O strisciare nel fango o arrampicarsi sui muri o correre a perdifiato fino allo sfinimento. Cantando come scemi, per giunta.
Poi, finalmente, la doccia. Amara anche quella perché “in Viet Nam la doccia ve la sognate!” urlava il sergente. Nemmeno la branda ci sarebbe stata né, tanto meno, la camerata, un tetto, un pasto caldo.
Ma allora, ci dicevamo tra noi, allora che ci andiamo a fare alla fine del mondo? Comba***re i Viet Cong? Ma vacci te, sergente, con i tuoi urli nella palude: a me che me ne frega. E poi, aggiungeva Mohammed che era nero, a me i Viet Cong non hanno fatto del male, i sergenti bianchi della polizia americana, si.
Comunque sia, ora sono qui: ad ammazzare vietnamiti o ad essere ammazzato da loro. Fucile, bombe a mano, lo zaino con qualcosa da mangiare e il fango come rifugio.
Sdraiato lì, vicino agli altri, la faccia impiastricciata di quello stesso fango, per il momento mi sentivo al riparo, a casa quasi se non fosse stato per il terrore dei serpenti, degli scorpioni e di tutte le bestie schifose che fanno del fango il loro habitat naturale.
Eravamo diventati fango noi stessi, indistinguibili perfino l’uno dall’altro e invisibili per il nemico che pure, lo sapevamo, era lì, acquattato come noi nell’acqua della palude accanto. Ognuno in attesa che l’altro facesse la prima mossa. Nel terrore di dover essere noi a farla.
Intorno gli alberi, per lo più defogliati dai diserbanti sparsi dagli elicotteri. Sui pochi ancora verdi, lo sapevamo, erano appostati i cecchini. Tiratori infallibili; se ti individuavano anche un attimo, eri morto. Morì così, stupidamente e inutilmente, Mohammad, accanto a me. Nemmeno un lamento: affondò il viso nel fango e non si mosse più. Appena poche gocce di sangue sulla nuca.
Nessuno si mosse. Mohammed era già sepolto anche prima di morire. Come noi, del resto.
Poi venne l’ordine più temuto: senza una parola il sergente si materializzò dal fango e con un ampio gesto ci chiamò ad avanzare. Una raffica verso gli alberi per intimidire i cecchini e via. Emersi anch’io, grondando mota, sparando a caso davanti a me, cercando subito un qualche riparo dai colpi che piovevano non si capiva da dove. Poi cominciai a vedere i lampi dei mitra. Venivano dal fango, dal fango dei nemici, dal fango di casa loro, così diverso dalle strade ordinate di Rock ville, a casa mia.
Verso quel fango concentrammo i nostri colpi nella logica insensata di uccidere per non essere uccisi, come se il fango, la mota puzzolente avesse invaso anche il nostro cervello. Qualche compagno già cadeva davanti a me, mentre l’insensatezza di quell’andare avanti mi invadeva l’anima e una stanchezza infinita gravava il corpo.
Quando fui colpito non provai dolore, una specie di stupore forse. Le gambe si piegarono e il fango mi accolse di nuovo, il fango protettore. Era caldo, ristoratore. A lui mi abbandonai, mi avrebbe riportato a casa. Anzi, no, era lui la casa da cui ero partito e a cui facevo ritorno dopo la follia dell’essere vivo.

Quella stessa follia vissuta nel fango delle trincee del Carso, di Verdun, di Hycpres; tra le macerie di Stalingrado, nelle distese senza fine delle pianure russe al disgelo, a Dakau e Aushwitz, sul bagnasciuga della Normandia, sotto le bombe di Gernica, di Dresda, di Belgrado, di Sarajevo, di Aleppo, Damasco, Bagdad, fino al fango gelato del’Ukraina e la devastazione senza fine di Gaza.
Fango, intorno a noi e fango senza fine, chiuso nella nostra anima.

12/02/2025

Bassa marea.

Passeggio sulla scacchiera bianca e nera della Terrazza. La brezza di terra ha spianato il mare e lo ha tinto di un azzurro intenso. Il primo sole di febbraio ha portato qui una folla, silenziosa però, davanti alla bellezza di quel mare fermo.
Bassa marea: piccoli scogli piatti emergono, vicini, ma non hanno più quel tappeto di alghe verdi pettinate dall’acqua appena ritirata. Così come si mostravano allora.
Mi stringo nel cappotto quando mi fermo al solito punto dove mostrai quel verde ancora lucido di acqua di mare a quella giovane donna che mi stava vicino. A colei che si allontanò, senza voltarsi, senza che io avessi avuto la forza di tenerla.
Una ragazza, sola anche lei tra le tante sulla terrazza di oggi, si ferma accanto a me, forse attratta, come me, dalla bassa marea e da un qualche ricordo. Accenna un timido sorriso nei miei confronti, quasi un invito a parlare e io, così, le racconto e le indico, come se ancora fosse tornato quel lontano momento, come se parlassi di nuovo a quella presenza affondata nei decenni perduti. Lei mi ascolta, benevola, e segue la mia mano che mostra cose, accenni a un mondo che fu reale ma che lei non vide.
Continua a sorridere, non so se per simpatia o per commiserazione. Pone un attimo la sua mano sulla mia, appoggiata sul cemento della balaustra, poi, senza un saluto, si allontana.
Si allontana, ancora una volta, e non tornerà mai più. E io non ho motivo, né volontà infine, per trattenerla ancora un po’.
Riprendo la passeggiata e cerco, come faccio sempre, nel viso dei passanti, il riemergere di visi noti e quasi dimenticati, per un bisogno di sapere se e come quei miei lontani ricordi, questi miei assillanti rimpianti, corrispondano a una realtà, per quanto lontana.
Ma che stupido, mi dico: io cerco le immagini di coloro che furono, considerando appena che non sono più così; che il troppo tempo li ha trasformati, come ha trasformato me e forse ancora di più. Vecchi signori claudicanti, vecchie signore dai lineamenti cadenti, su sedie a rotelle spinte dalla badante rumena.
Vite al tramonto, vite vissute lontano da me, senza di me, per le quali sono stato indifferente, io e la mia vicenda umana. Dimenticato.
E quanti, mio Dio, quanti di quell’allora sono morti, ormai. Come potrebbero riapparire di nuovo nella mia vita di superstite?
Riprendo il cammino, solo, stringendomi ancora di più nel cappotto ad allontanare quel gelo che mi tocca le ossa e che il sole di oggi non sa scacciare. L’azzurro del mare e la bassa marea, sempre lo stesso azzurro e lo stesso emergere degli scogli sembrano suggerire una permanenza malgrado tutto quel trascorrere, tutto quel morire, e a quella permanenza mi affido, mi abbandono.
Ma ora, sulla terrazza tiepida di sole, cerco invano un viso da accarezzare. La mia mano protesa incontra solo il disegno di una bambola esile intagliata nel legno di un albero che non è più.

Come camminare sulla sabbia o su un tappeto di neve fresca. Lasciare le impronte dei miei passi dietro di me.
Ma oggi non è così: oggi quelle impronte non stanno alle mie spalle ma davanti a me.
Calcandole, tutt’altro che crearle, le distruggo.
Niente tracce alle mie spalle, solo tracce davanti a me.
In una inversione temporale, il passato scompare, anche come memoria, il futuro si estende, si fa lui stesso, memoria.
Non il semplice futuro, quindi, ma il futuro anteriore. Non il ciò che sarà, ma quello che sarà stato.
Un già stato, un passato che appartiene al futuro. Le tracce del mio cammino che, già presenti davanti a me, aspettano solo di essere percorse, vissute, per scivolare alle mie spalle e, come passato, sparire.
Mentre il già “stato” e il sarà “stato” sono accomunati dallo stare. Uno stare fermamente, come il participio “stato” attesta.

25/04/2024

Bottiglie di vetro. Sottotitolo: il vetro delle bottiglie. (Vuote, s’intende).

Come quel Valpolicella del ‘19. Una cosa da non dire: una bottiglia che, purtroppo, non facemmo a tempo a stappare che già era vuota.
Allegria, allegria! Quella stessa allegria necessaria poi per portare la bottiglia vuota alla cosiddetta “campana” che sta in piazza per il cosiddetto recupero del vetro o riciclaggio che dir si voglia.
Perché non è mica così facile portare la bottiglia (ahimè) vuota del suo Valpolicella alla campana che sta nella piazza. E, più che altro, mica è un lavoro per tutti.
Ci mancherebbe altro. Ma non hai mai visto le istruzioni alla televisione? Informati, per Dio!
Prima di tutto, non ci puoi andare da solo. Bisogna essere almeno una dozzina, ciascuno con la sua bottiglia vuota (non importa che sia ex Valpolicella; va bene anche ex passata di pomodoro, per dire) tanti abbastanza da poter organizzare un ballo di gruppo. Perché è ballando che ti devi avvicinare alla campana. Ballando, cantando e ridendo felice: di quella felicità così diffusa nella nostra società di riciclatori di vetro e affini. E allora, capisci, se non sei giovane e felice come fai a raggiungere la campana in mezzo alla piazza ballando e ridendo.
Come uno scemo, dici? Ma no, come un giovane!
Io, per esempio, non ci vado in piazza a portare la bottiglia alla campana. A me, ormai, non mi va né di ballare né di ridere. Faccio male, lo so. Ma non lo vedi che sono tutti felici? Basta un niente: un detersivo, un biscotto, un’auto più o meno elettrica o, appunto, le bottiglie di vetro.
Ma ormai sono un vecchio superato, io. Ho quasi cinquant’anni e non mi vuole più nessuno. No: io alla campana in piazza ci mando una ragazzina vicina di casa che balla come una dea, ha una bella voce squillante e un meraviglioso sorriso. Mi fa anche fare una bella figura.
Infine, hai visto come si fa a introdurre la bottiglia nel buco della campana? Pensi che sia facile per uno come noi che, oltre a non essere abbastanza giovane, è anche stanco perché ha lavorato tutto il giorno e, magari la lascerebbe cadere dentro e basta.
Si tratta, invece, di saltare a piè pari sopra la campana a tempo di musica e, senza smettere di ridere, da lì, un braccio verso il cielo in segno di trionfo, far cadere la bottiglia nel buco. Un’apoteosi: roba da Wanda Osiris che scende la scala circondata dai boys.

Da quel momento la musica cessa, i giovani felici, dopo un ultimo sorriso immobile, escono di scena e inizia, senza clamore, nel completo disinteresse dei ragazzini danzanti e felici e dei loro mandanti, il viaggio virtuoso della bottiglia ormai rotta e del vetro di cui è fatta. Da non dimenticare l’etichetta, i colori dell’etichetta, la colla dell’etichetta e quant’altro che correda la normale bottiglia.
Ad ogni modo, qualcuno addetto allo scopo, qualcuno che non balla, non ride, ma che, porco qui e porco là, lavora, solleva la campana con apposito mezzo meccanico e ne riversa il contenuto sul vicino camion con grande strepito e ulteriore frantumazione del vetro. Ormai del Valpolicella si è persa ogni traccia.
Via il camion, via l’apposito mezzo meccanico con larga combustione di gasolio chiaramente avvertibile dall’odore che lascia. (I ragazzini felici non lo avvertono, impegnati come sono a ballare e ridere davanti a un’altra campana).
Dove vadano a finire camion, mezzo meccanico, bottiglie rotte, etichette colorate e vetro, non è molto evidente; anzi, non è evidente per nulla. Forse perché là dove vanno non c’è nessuno che balla e che ride, essendo quindi socialmente e televisivamente insignificante. Allora niente musica e niente telecamera.
Comunque, dando credito alle voci che ci raccontano di un processo di recupero del vetro (“il vetro rinascerà” dice la canzoncina della giovane danzante che è saltata sulla campana), si dovrebbe trattare, prima di tutto, di macinare le bottiglie in modo da poter passare alla successiva lavorazione. Solo che il vetro, così fragile, è maledettamente duro. Tanto che c’è il rischio, invece di macinare il vetro mediante una macchina, di macinare la macchina mediante il vetro.
Va bene: acciai speciali, elevate potenze in gioco, forte consumo di energia, spese a non finire e il nostro vetro è ridotto in polvere.
E le etichette? Mica si possono lasciare con la polvere di vetro! Carbonizzate nel forno, rovinerebbero tutto. Vanno separate, è ovvio. Come? Forse, tirando a indovinare, con un processo che si chiama flottazione e che sfrutta il diverso peso del vetro e della carta, tale per cui, messi in acqua e detersivo, uno va a fondo, l’altra galleggia con l’inchiostro e la colla.
Altra macchina, altro lavoro, altra energia, altra spesa. Ma ora il nostro vetro è pulito e può entrare nel forno per essere fuso. (Altra energia, tanta; altra spesa, tanta).
Già, e la carta? La carta macinata, zuppa d’acqua lurida, una pasta oscena e maleodorante, quella (chiamiamola ancora, in mancanza di meglio, carta) dove la mettiamo? La consegniamo a quei giovani danzanti e felici? No, poveretti: magari non riderebbero più. La dimentichiamo, così sparisce.
In ogni modo, dopo tanto lavoro, tanta energia spesa, tanto capitale investito, finalmente abbiamo di nuovo il nostro vetro.
E che cosa ne facciamo? Bottiglie! Del tutto uguali a quelle introdotte gioiosamente nella campana. Senza etichetta, per giunta. E senza Valpolicella.

Allora, uno che non ha tanta voglia di ridere e di ballare potrebbe chiedersi: “Ma che siamo scemi? Ce l’avevamo già la bottiglia. Chi ce l’ha fatto fare tutto quel trambusto, tutto quel lavoro, per ritornare al punto di partenza?”.
Forse per far ballare alla televisione quei giovani felici, e incoscienti, come (quasi) tutti i giovani felici?
Forse per prendere per il …, per ingannare la gente convincendola della nostra (della loro) capacità tecnica di far fronte al problema dei rifiuti?
Forse perché frantumare bottiglie per fare bottiglie è un business mica da poco e, figuriamoci, crea anche posti di lavoro dove si ride poco?
Forse per nascondere che il solo modo di ridurre l’inquinamento è ridurre la produzione? E se ridurre la produzione è economicamente impossibile, non saranno loro i veri pazzi: gli economisti?
Forse …

Falaschi Arturo Tutti i diritti sono riservati

22/04/2024

Il muro.
E’ sabato pomeriggio.
Tre parti di sabbia, una di cemento e acqua. Giovanni impasta nella carriola con movimenti fluidi; anni di cantiere gli hanno insegnato a economizzare le energie. La manica gli copre la mano e la mestola sembra inserita direttamente nel braccio che muove con leggerezza, come farebbe un direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Con la punta della mestola traccia un otto sulla superficie morbida dell’impasto, in pochi secondi viene assorbito e scompare, è della giustizia consistenza, è pronta.
Da poco la sua ditta si è aggiudicata l’appalto presso il piccolo comune dove abita. Sono diventati un ricordo le imprecazioni all’alba per il vecchio camioncino che non partiva, i tanti chilometri percorsi, le gettate delle fondamenta da terminare anche sotto la pioggia. In questi anni i suoi figli sono cresciuti quasi senza di lui; si sente in colpa per il tempo che non ha potuto dedicare loro. La sera la stanchezza gli toglieva la voglia di parlare, di chiedere, ma non l’orgoglio di guardarli: com’erano cresciuti, com’erano diventati belli. Erano i suoi figli.
I mattoni rosso scuro vicino alla carriola, uno sull’altro, sono in due file ben ordinate. Giovanni si inginocchia, stende il braccio, prende un mattone, spalma sopra la superficie ruvida una mestola di cemento e inizia in silenzio a disporli in fila. Inserisce un mattone, poi un altro, ancora un altro e un altro; l’ultimo non entra. Senza girarsi prende la martellina con il becco a taglio, ne riconosce il legno levigato del ma**co, misura a occhio, con un colpo preciso e secco accorcia il mattone.
Si pulisce il palmo della mano sulla coscia dei pantaloni per togliere le briciole taglienti, immerge la mestola nella carriola, impasta velocemente e stende un cordone di cemento sopra la fila di mattoni appena posati. Continua formando un’altra fila sopra quelli appena posati. L’ultimo non entra, l’accorcia con un colpo secco di martellina e continua con un’altra fila, altro cemento, altri mattoni.
I colpi secchi e regolari della martellina sono l’unico rumore che si sente. Gli ricordano il campanello della sua Olivetti Lettera 32 quando lo avvisa che deve portare indietro il carrello per andare a capo e iniziare un’altra riga.
L’aveva trovata abbandonata in un solaio da vuotare e l’aveva riparata. Lo affascinava quel ticchettio che si mutava in parole senza bisogno di elettricità e toner. Con tre dita la domenica mattina scriveva i fatti accaduti durante la settimana; scriveva di lui, della moglie, dei figli, come un diario di bordo, ma di famiglia: la loro storia fatta di incontri, cene, litigi, cose tristi e allegre. Centinaia di pagine numerate e datate riempivano una scatola di scarpe. Sul coperchio una foto di lui e la moglie di tanti anni prima, quando erano giovani e magri. Chissà, un giorno le avrebbero lette i figli e forse capito qualcosa di lui, di quel padre sempre stanco e silenzioso.

Il piccolo muro è terminato. Con movimenti precisi del polso lancia mestolate di cemento che ricoprono i mattoni. Con la spatola rasa quello in eccesso. Bagna il frattazzo e ne spiana perfettamente la superficie. Posati gli attrezzi, in ordine e ben allineati, carezza il cemento con il dorso della mano una, due volte, come per eliminare una invisibile sbavatura.
Sceglie a terra una lunga scheggia di mattone appuntita, si alza in piedi e si gira. Lo fa lentamente, molto lentamente. Avrebbe voluto ritardare ancora questo momento, anzi, non avrebbe voluto nemmeno affrontarlo, ma ormai il piccolo muro è terminato e non resta altro da fare che scriverci sopra: ma prima deve chiedere.
Una folla silenziosa lo sta fissando: ne sentiva gli occhi sulla schiena seguire ogni suo movimento mentre murava i mattoni.
La donna più vicina a lui è la madre.
Giovanni non ce la fa a parlare, non ce la fa a chiedere il nome, alza la scheggia del mattone e indica il piccolo muro con cui ha chiuso il loculo.
La mamma con un sussurro gli dice il nome del figlio.
Giovanni incide con la punta aguzza il nome sul cemento fresco. Non è bravo a scrivere ma ci mette tutto il suo impegno: quando ha terminato, quelle lettere sembrano incise da una mano esperta: la T, la L e la M hanno i gambi dritti, e la O e la A sono perfettamente tonde.
Si gira di nuovo, questa volta riesce a chiedere la data di nascita.
Un altro sussurro; altri segni incisi sul cemento.
Giovanni mette la scheggia di mattone in tasca, poi ripone gli attrezzi ed il materiale avanzato nella carriola; lo sguardo delle persone si sposta sulla scritta incisa nel cemento. Nessuno può più andare oltre quelle lettere e quei numeri appena incisi sul cemento che copre i mattoni.
Il cigolio della ruota della carriola e la ghiaia calpestata dai suoi piedi, gli unici rumori nel piccolo cimitero e i cipressi, con le loro chiome dritte, sono un picchetto di soldati sull’attenti che gli rendono gli onori.
Prima di uscire dal cimitero guarda ancora quel piccolo muro di cemento fresco, il nome, la data. Fra qualche giorno, quando sarà asciutto, ci applicherà il marmo bianco con il nome in bronzo e la foto. Poi il marmo non si vedrà più, sarà coperto da decine di peluches.
È domenica mattina, è presto.
Sono già trenta minuti che Giovanni ha le dita sui tasti della sua Lettera 32; oltre la data non ha scritto niente.
La camera dei figli è chiusa. Apre la porta e una lama di luce entra dal corridoio.
Dentro tutto è perfettamente immobile. Solo le coperte si muovono al ritmo lento dei loro respiri. Quando dormono gli sembra che siano ancora più belli.
Torna alla sua macchina da scrivere, estrae il foglio bianco dal carrello, con il nastro adesivo ci fissa la scheggia di mattone rosso con la punta grigia di cemento, lo ripone nella scatola sopra le altre pagine e la chiude. Sul coperchio la foto di un ragazzo e una ragazza gli sorridono.

Stefano Gelormini Tutti i diritti sono

20/04/2024

L’allarme ha suonato.

Non avrei mai pensato che rimanere bloccata dentro la cabina di quell’ascensore avrebbe scatenato in me tutto quel putiferio.
Adesso ero davvero intrappolata, un sudore convulso mi assaliva, mi sentivo come quei poveri uccelli la cui aspirazione è di volare liberi nell’aria, ma non possono perché sono rinchiusi in piccole gabbie nelle quali é stato facile entrare, ma difficile uscirne.
Rannicchiata in un angolo tra le pareti dell’angusto abitacolo e il muro che delimita l’intercalare dei piani, dopo aver premuto per diverse volte il pulsante dell’allarme, rimasi in attesa, speranzosa di una possibile risposta di aiuto. Continuavo a illudermi che sarebbe stata una questione di poco tempo; al più presto qualcuno sarebbe intervenuto.
Ma niente. Il palazzo dove abitavo doveva essere proprio deserto, considerata la stagione. Pensai con invidia ai vicini di casa che erano partiti per le vacanze e ad altri inquilini che immaginavo al mare; cercai di convincermi che qualcuno avrebbe potuto pur esserci, magari proprio come me rimasto a casa.
Già, anch’io avevo preso i miei quindici giorni di ferie ma, prima di partire con la famiglia, avevo deciso di utilizzare alcuni di quei giorni per potermi meglio dedicare alle cure domestiche e ai preparativi necessari per tutta la famiglia.
Presa dallo sconforto, nei miei pensieri si faceva sempre più pressante l’ipotesi che la via di uscita non sarebbe stata poi così rapida come avevo immaginato.
Imprigionata nello spazio ristretto di quella cabina, che a seconda dei movimenti sentivo oscillare sotto i miei piedi, o per lo meno questa era la mia sensazione, iniziai a gridare come una forsennata e a ba***re forte i pugni contro le pareti.
Alla fine mi adagiai sedendomi per terra, proprio dove avevo appoggiato le borse della spesa, cosa che in un’altra situazione non avrei mai fatto.
Mi martellavano nella mente le antiche regole inculcatemi dai miei genitori del tipo: non ti appoggiare, non ti sporcare, stai composta, non gridare, questo si fa, quest’altro no, e così via.
In barba alle buone regole, per placare la mia ansia e allentare un po’ quella morsa opprimente che sentivo forte sul petto, presi a morsi una di quelle deliziose pesche che poco prima avevo acquistato dal fruttivendolo sotto casa.
Un sapore amaro dalla gola mi arrivò fino alla mente: piangente inveivo contro tutti, soprattutto contro me stessa per essermi ritrovata lì. Mi rammaricai fortemente, cominciai a chiedermi che fine avessero fatto tutti quei miei sogni, desideri e progetti mai realizzati. Non sapevo come fosse accaduto ma, senza che me ne fossi resa conto a poco, a poco a poco avevo rinunciato a tutto. Si, era stato proprio così!
Mi alzai, iniziai a piangere e a urlare più forte di prima, a prendere a pugni e calci le pareti di quella cabina che mi aveva intrappolata non so da quanto, perché avevo completamente perso la cognizione del tempo, ma alla fine qualcuno sentì le mie grida accompagnate dallo squillo del campanello di allarme che premevo incessantemente.
Finalmente sentii arrivare una risposta alla mia accorata richiesta di aiuto. Non mi meravigliai di vederlo, ultimamente lo incontravo spesso, ero contenta di sentire la sua presenza, era proprio lui, Massimo, il mio vicino di casa, come sempre pieno di attenzioni.
Mi apparve sulla porta, le sue guance un po’ rotondeggianti, colorate di un sorriso rassicurante, mi trasmisero la stessa piacevole sensazione che provavo ogni volta che lo incontravo. In lui c’era qualcosa di gradevolmente dolce che mi attraeva mentre lo vidi ve**re incontro con le braccia tese verso di me.
In quel momento la sua presenza era quello di cui avevo bisogno. Quella volta senza esitazione mi strinsi tra quelle braccia piene di calore che mi dettero la forza di ritrovare me stessa.
Non ricordo per quanto tempo rimasi stretta a lui.

Giovanna Russo Tutti i diritti riservati

15/04/2024

Volare..

… poi d’improvviso venivo dal vento rapito / e incominciavo a volare nel cielo infinito ...

Ma non è facile volare. Certo, molto dipende da cosa si intenda per volare. Il volo di un aereo, per esempio, non è un vero e proprio volare perché, con le ali, l’aereo si appoggia all’aria allo stesso modo in cui si appoggiava alla terra quando non volava.
Meglio la mongolfiera allora. Si, meglio la mongolfiera: per lo meno sta quasi ferma e quasi in silenzio, cosicché si può guardare intorno e rendersi conto di essere sospesi in aria.
Ma sempre sostenuti dall’aria siamo: abbiamo solo sostituito il mezzo di appoggio, ecco. Sempre sottoposti alla gravità siamo, al peso della materia, della materialità che necessita di un punto di sostegno per non cadere.
Cadere senza sostegno sarebbe proprio il contrario di volare. Il negativo del volare.
No, volare è un’altra cosa.
Il volo è liberarsi dal vincolo, dalla gravità del peso per esempio e quindi dalla materialità che non può non essere di peso; è, si potrebbe dire, spostarsi nella libertà, allontanarsi dalla legge, anche dalla legge naturale, dalla necessità; salire in alto, sempre più in alto perché, simbolicamente, è lassù che collochiamo leggerezza e assenza di vincoli.
Certo che, anche per volare è necessaria una qualche tecnica. Non è che uno dica: ora volo, e allora vola. Ci vuole esercizio, predisposizione, lungo allenamento. Ma, infine, è l’esperienza personale e il desiderio di volare che ti fa volare.
Io faccio così perché l’ho imparato in sogno che, si sa, è la migliore scuola possibile. Specialmente riguardo al volo.
Dunque, si tratta prima di tutto di sollevarsi sulla punta dei piedi, che è già uno staccarsi dal terreno e tendere verso l’alto. Perché, si sa, è il calcagno l’organo che, appunto, “calca” il terreno, il terrestre. Poi si inarca al massimo la colonna vertebrale (inarcare che non significa piegare ad arco, anzi, significa raddrizzare, distendere, creare una tensione che punti decisamente in alto: una freccia che partecipi della tensione dell’arco, pronta a liberarsene ma senza scatto, dolcemente, quasi inavvertitamente. Il volto anche lui rivolto in alto, a mostrare il desiderio di volare e la direzione del volo. Perché quando volerai sarà lo sguardo a indirizzare il volo: andrai proprio là dove lo sguardo è rivolto e tende. Le braccia aperte, le mani allargate con i palmi rivolti in alto quasi a cogliere quella luce verso cui andare. Il petto gonfio di muscoli e di orgoglio, ostentando una, sebbene problematica, sicurezza di sé.
Una vaga sicurezza che proviene dall’avere acquisito, con lunga pazienza, una qualche presunta conoscenza di quello che, volando, percepirai: una conoscenza non proprio conforme al consueto, una conoscenza che sia già, in qualche modo, uno staccarsi da quel suolo che tutti “calcano”.
Allora, quando sarai pronto e convinto, allora, senza strappi ti solleverai da terra. Basta un niente: una nota musicale, un’immagine dipinta, il verso di una poesia, lo sguardo di una donna innamorata, di un bambino, di un animale.
Dapprima il tuo volare sarà molto incerto, precario e alquanto timoroso; poi, prendendo confidenza, ti innalzerai deciso nello spazio libero.
Libero come il tuo pensiero, come il tuo intuire senza regole, senza appoggio su solide, terrestri, basi.
Sempre più perso nel blu dilagante, le mani, la faccia, tutto ciò che resta del corpo, partecipe di quel blu: dipinto di blu.
Gioia ma anche paura, certo. Solitudine sempre più vasta, soffocante quasi; vertigine, smarrimento; paura di perdere la via, la direzione, il ritorno.
Allora mi sono legato alla caviglia una corda e, all’altro capo l’ho affidata alle mani robuste di mio fratello che ha le scarpe, tacchi compresi, ben ancorati a terra. Talmente ancorati da sospettare che, ormai, sotto i tacchi si siano sviluppate radici che affondano nel terreno.
Così, basta che volga con insistenza lo sguardo verso di lui e il fratello tira la corda e mi riporta a terra. E io, un po’ deluso, un po’ sollevato, devo sorbirmi la solita ramanzina sul “chi te lo fa fare, non serve a niente, pensa alle cose concrete”, e via discorrendo.
Però, tutto sommato, il fratello è anche curioso e vorrebbe che gli raccontassi cosa ho visto lassù. E io non so che dire perché, in fondo, c’è poco da dire. Perché le parole, ma lui non lo capisce, le parole sono la fibra di cui è fatta la corda che mi trattiene, il legame che si allaccia alla caviglia e mi impedisce di salire oltre, anche se mi serve a vincere la paura.
Le parole sono la manifestazione della gravità, del terrestre, sebbene qualche volta si sforzino di indicare il blu del cielo in cui, verso cui, volare. In fondo, se per volare occorresse davvero tingersi le mani e la faccia di blu, quella vernice coprirebbe proprio loro: le parole.
Oppure posso raccontare, al fratello scettico ma curioso, quello che ho visto della terra, guardandola da lassù, mentre lui mi tirava: ho visto quel mare infinito di problemi, di delitti, di ingiustizie che si vedono anche senza volare, ma io le ho viste nella loro interezza, nel loro perché e nella loro fondamentale interconnessione. Ho visto che se si cerca la soluzione di questo o quel problema, che la si trovi o meno, il problema tornerà, come torna la mala erba, se la sua estinzione non è completa. E ho visto che la completa estinzione non potrà avve**re se non ci si ponga, almeno un po’, in alto, nella condizione del volo. Almeno per vedere e capire che cosa, infine, debba essere colpito ed estinto.
Chi è convinto della necessità di tenere i calcagni saldamente ancorati a terra, non può risolvere il problema perché è lui stesso il problema. Lui stesso è il nemico perché, rifiutando il volo e la visione allargata, è fatto così come il nemico lo vuole: miope e ostile a chi vede un po’ più in là.
Ma mio fratello non capisce e, bontà sua, mi tollera e non mi rinchiude in ma**comio proprio perché è mio fratello e mi vuole bene. Sono un po’ bizzarro, ecco, un sognatore, un perdi giorno. Molto intelligente, naturalmente; ma, sulle sue labbra, l’aggettivo “intelligente” suona come un’accusa.
Comunque sia, io, caparbio, ricomincio a volare pensando che sia il meglio che possa fare e magari, un giorno che non so, avrò il coraggio di sciogliere quel nodo alla caviglia, unico legame che mi unisce al terreno, e sparire “lontano, più in alto del sole e ancora più su”, non so dove, forse proprio“nel blu dipinto di blu”.
Oppure il nodo si scioglierà da sé, per logorio di quelle parole che ne sono la fibra.
Così, come “il mondo pian piano scompare laggiù”, io scomparirò definitivamente alla vista del mondo e di tutti quelli che hanno solide radici sotto i tacchi; perso in un bel sogno, più vero e concreto della realtà, pur nella sua astrazione. Là finirò per sciogliermi e, se non mi incontrerete più e penserete alla mia fine, sarete in errore.
Imparate a volare e ci rivedremo.

Arturo Falaschi Tutti i diritti riservati

Indirizzo

Presso Arena Astra Piazza Luigi Orlando 39
Livorno
57127

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