05/06/2025
Rattatà.
Ero un ragazzo che, come te, amava i Beatles e i Rolling Stones. Vivevo in una piccola città, Rock Ville, quando ricevetti la lettera.
Arruolato nei marines, destinazione Viet Nam. Nel frattempo assegnato al centro di addestramento, in Florida. Fu lì che iniziò la nostra vita da cani e il mio primo incontro con il fango.
Più della metà del tempo della esercitazione lo passavamo in qualche acquitrino, sdraiati di pancia o di schiena, strisciando come serpi o come alligatori, diceva il sergente. Perché il Viet Nam, diceva sempre lui, anzi, urlava sempre lui, il Viet Nam non è un salotto.
Ora, che non fosse un salotto lo avevamo capito tutti, ma tra un salotto e un mare di mota puzzolente ci sono molte possibilità intermedie.
No, urlava il solito sergente: uno che striscia nel fango è un uomo vivo; chi si alza in piedi è un uomo morto. Aveva ragione lui; nel Viet Nam sarebbe stato così, lo avremmo sperimentato sulla nostra pelle.
Proprio il contrario di quello che diceva il pastore la domenica: l’uomo è stato creato dall’argilla, dal fango quindi, tratto fuori dal fango ed è morendo che tornerà nel fango.
Ma lì non c’era tempo di pensare a queste sciocchezze. O strisciare nel fango o arrampicarsi sui muri o correre a perdifiato fino allo sfinimento. Cantando come scemi, per giunta.
Poi, finalmente, la doccia. Amara anche quella perché “in Viet Nam la doccia ve la sognate!” urlava il sergente. Nemmeno la branda ci sarebbe stata né, tanto meno, la camerata, un tetto, un pasto caldo.
Ma allora, ci dicevamo tra noi, allora che ci andiamo a fare alla fine del mondo? Comba***re i Viet Cong? Ma vacci te, sergente, con i tuoi urli nella palude: a me che me ne frega. E poi, aggiungeva Mohammed che era nero, a me i Viet Cong non hanno fatto del male, i sergenti bianchi della polizia americana, si.
Comunque sia, ora sono qui: ad ammazzare vietnamiti o ad essere ammazzato da loro. Fucile, bombe a mano, lo zaino con qualcosa da mangiare e il fango come rifugio.
Sdraiato lì, vicino agli altri, la faccia impiastricciata di quello stesso fango, per il momento mi sentivo al riparo, a casa quasi se non fosse stato per il terrore dei serpenti, degli scorpioni e di tutte le bestie schifose che fanno del fango il loro habitat naturale.
Eravamo diventati fango noi stessi, indistinguibili perfino l’uno dall’altro e invisibili per il nemico che pure, lo sapevamo, era lì, acquattato come noi nell’acqua della palude accanto. Ognuno in attesa che l’altro facesse la prima mossa. Nel terrore di dover essere noi a farla.
Intorno gli alberi, per lo più defogliati dai diserbanti sparsi dagli elicotteri. Sui pochi ancora verdi, lo sapevamo, erano appostati i cecchini. Tiratori infallibili; se ti individuavano anche un attimo, eri morto. Morì così, stupidamente e inutilmente, Mohammad, accanto a me. Nemmeno un lamento: affondò il viso nel fango e non si mosse più. Appena poche gocce di sangue sulla nuca.
Nessuno si mosse. Mohammed era già sepolto anche prima di morire. Come noi, del resto.
Poi venne l’ordine più temuto: senza una parola il sergente si materializzò dal fango e con un ampio gesto ci chiamò ad avanzare. Una raffica verso gli alberi per intimidire i cecchini e via. Emersi anch’io, grondando mota, sparando a caso davanti a me, cercando subito un qualche riparo dai colpi che piovevano non si capiva da dove. Poi cominciai a vedere i lampi dei mitra. Venivano dal fango, dal fango dei nemici, dal fango di casa loro, così diverso dalle strade ordinate di Rock ville, a casa mia.
Verso quel fango concentrammo i nostri colpi nella logica insensata di uccidere per non essere uccisi, come se il fango, la mota puzzolente avesse invaso anche il nostro cervello. Qualche compagno già cadeva davanti a me, mentre l’insensatezza di quell’andare avanti mi invadeva l’anima e una stanchezza infinita gravava il corpo.
Quando fui colpito non provai dolore, una specie di stupore forse. Le gambe si piegarono e il fango mi accolse di nuovo, il fango protettore. Era caldo, ristoratore. A lui mi abbandonai, mi avrebbe riportato a casa. Anzi, no, era lui la casa da cui ero partito e a cui facevo ritorno dopo la follia dell’essere vivo.
Quella stessa follia vissuta nel fango delle trincee del Carso, di Verdun, di Hycpres; tra le macerie di Stalingrado, nelle distese senza fine delle pianure russe al disgelo, a Dakau e Aushwitz, sul bagnasciuga della Normandia, sotto le bombe di Gernica, di Dresda, di Belgrado, di Sarajevo, di Aleppo, Damasco, Bagdad, fino al fango gelato del’Ukraina e la devastazione senza fine di Gaza.
Fango, intorno a noi e fango senza fine, chiuso nella nostra anima.