19/10/2025
Gennaro Matino, Repubblica Napoli.
Riscoprire il gusto della buona politica
La pasta e patate con la provola e la politica, dici "Che c'entra?". E io ti dico che c'entra. La perfezione, a detta di Antoine de Saint-Exupéry, si ottiene non quando non c'è più nulla da aggiungere, ma quando non c'è più nulla da togliere, si raggiunge attraverso la semplificazione e l'eliminazione del superfluo, piuttosto che attraverso l'accumulo di elementi. Ci sono piatti che raccontano un popolo meglio di mille discorsi. Proprio come la pasta e patate con la provola che è un capolavoro di equilibrio e di poesia domestica. Non ha bisogno di scenografia: basta il suono del cucchiaio che gira piano, il profumo che sale e invade la casa, la pazienza di aspettare che ogni cosa trovi il suo tempo. La patata deve disfarsi senza cedere, la pasta assorbire il brodo fino a diventare crema, la provola sciogliersi lentamente, legando il tutto in un abbraccio filante. È un piatto che non ammette arroganza: se sbagli le dosi o forzi i tempi, si rovina. Ti insegna la misura, l'umiltà, l'arte della semplicità. La buona politica dovrebbe essere così: fatta di equilibrio e di ascolto, capace di far nascere il buono da ingredienti comuni. Invece oggi somiglia a una cucina sottosopra dove tutti vogliono essere serviti e nessuno vuole cucinare. Si rovesciano slogan come sale grosso, si annunciano miracoli con ingredienti scaduti, si mescolano parole al posto delle idee. La retorica è il soffritto esausto che offende ogni profumo. E il risultato è un Paese che non sa più se sta mangiando o solo respirando fumo. Un tempo, la politica era un atto collettivo, un pranzo lungo dove ognuno portava qualcosa. Oggi è diventata un talent show: vince chi urla più forte, non chi sa ascoltare. I partiti cambiano menù a ogni sondaggio, le alleanze sono spezie a scadenza breve, e gli ideali, quelli veri, giacciono dimenticati in dispensa, accanto ai valori di una volta. Eppure, la politica, quella buona, non è un fast food. È una cucina popolare dove il tempo è la prima forma di rispetto, dove si impara che le cose buone richiedono lentezza, mani pulite e cuore caldo. Ci sono ancora cuochi silenziosi del bene comune: chi insegna, chi amministra, chi resiste. Sono loro a tenere accesa la fiamma della democrazia, mentre altri si limitano a impiattare chiacchiere e a fotografarle bene. La politica di oggi spesso confonde la padella con il palcoscenico: luci, slogan, applausi. Ma la verità è che nessuna scenografia può coprire l'odore del bruciato. Forse dovremmo tornare alla pasta e patate con la provola. Un piatto che non pretende di stupire, ma di nutrire. Che non si serve per vanità, ma per condividere. Perché la politica, come la cucina, non è l'arte di chi comanda, ma di chi sa mettersi al servizio del sapore. È saper dosare passione e responsabilità, sale e dolcezza, sapienza e fantasia. Non servono cuochi stellati, servono persone capaci di sporcarsi le mani e di pensare agli altri prima che a sé. La politica, oggi, raramente si giudica al primo assaggio: per alcuni è disgusto immediato, per altri l'indigestione arriva dopo, quando ti accorgi che dietro il sapore forte non c'era sostanza, ma solo falso condimento. È una politica che ha smarrito il gusto, il gusto della verità, della misura, del servizio. Si accontenta di riempire i piatti, non di nutrire. Vive di eccessi: troppo sale di propaganda, troppo pepe di ambizione, troppo poco pane condiviso. Così la gente si alza da tavola con un mal di stomaco, una sorta di disgusto collettivo: un senso di nausea che non è solo del corpo, ma dell'anima civile. Eppure, la buona tavola continua a insegnarci ciò che la politica ha dimenticato che cucinare è servire, non apparire; che si può essere forti senza bruciare, e saporiti senza gridare. In cucina, come nella vita pubblica, il giudizio non spetta a chi comanda, ma a chi mangia: è il popolo che decide se un piatto è buono. E la buona politica, come la buona tavola, non si misura dai titoli o dai palchi, ma dalla gioia silenziosa di chi, dopo aver mangiato, sente di stare un po' meglio, di non essere più solo. Forse è da lì che bisogna ripartire: dal gusto. Dal sapore di un gesto giusto, dal profumo di una parola onesta. Perché una politica senza gusto non sazia, non convince, non serve. E un Paese senza tavola condivisa non ha futuro.