Andrea Batilla

Andrea Batilla Mi occupo di strategie di brand per moda e lusso. E scrivo libri, articoli e un sacco di post.

PIZZA is a paper biannual magazine and an online daily magazine about italian culture and style edited in italian and english and distributed worldwide.

Al Liceo Classico le mie insegnanti di italiano mi ripetevano che non ero capace a scrivere. Ero prolisso, superficiale ...
23/01/2025

Al Liceo Classico le mie insegnanti di italiano mi ripetevano che non ero capace a scrivere. Ero prolisso, superficiale e non arrivavo mai al punto. Eppure per qualche motivo ho sempre scritto. Prima cose senza senso che tenevo per me, poi su un blog, poi ho cominciato a pubblicare qualcosa e infine mi sono aperto un magazine che si chiamava Pizza. Col tempo ho capito che avevano ragione e che, in effetti, non sapevo scrivere ma che la scrittura è qualcosa che attraverso l’esercizio può essere migliorata. Ho anche capito che scrivere è qualcosa di estremamente potente perché ti spinge a scandagliarti nel profondo e anche perché può aiutare le persone a capire il reale, a capirsi. La scrittura è però rimasta per lungo tempo qualcosa di laterale, di troppo personale per essere condiviso fino in fondo, una stanza tutta per sé in cui non sempre fare entrare tutti. Quando ho deciso di avviare seriamente la mia newsletter ho capito che era arrivato il momento di abbattere l’ultimo muro separatore tra me e gli altri, tra quello che amo fare e quello che devo fare. Questo progetto conterrà le cose che siete abituati a leggere qui ma anche cose che non vi aspettate, avrà un podcast e si allargherà presto su YouTube. Insomma diventerà un mondo condiviso perché, semplicemente, è arrivato il momento di farlo. Voi potrete, se vorrete, partecipare. Per scrivermi basta rispondere alla mail che contiene la newsletter. Non voglio fare soliloqui, nè nutrirmi di quello che produco. Voglio essere ascoltato e ascoltare. Quindi, ecco, parlate. Io parlerò tanto, tantissimo. Fatelo anche voi.

The Substance, il film rivelazione dell’ultimo Festival di Cannes, contiene un sacco di indicazioni su come il linguaggi...
03/11/2024

The Substance, il film rivelazione dell’ultimo Festival di Cannes, contiene un sacco di indicazioni su come il linguaggio espressivo e il punto di vista di un autore possano raccontare il presente. Ma ha anche dentro di sé una libertà creativa e una capacità di provocazione che in altri ambiti, tipo la moda, non esistono più. Il film parla di corpi femminili e di come il loro invecchiamento sia diventato inaccettabile, impossibile da sostenere e causa di dolore profondo. La genialità della regista Coralie Fargeat e della protagonista Demi Moore è però di parlare di un argomento cosi serio usando la nostalgia, il passato, la citazione, con un linguaggio spietatamente ironico in cui La Morte Ti Fa Bella viene triturato insieme a Shining, a Carrie, al cinema di Cronenberg, di Zulawski o di Jonathan Glazer. The Substance è un film in cui la narrazione è una traccia lontana mentre quello che conta è la forma debordante e grottesca delle riprese, della fotografia e della recitazione. Guardare al passato in un modo così distaccato, divertito e freddo per parlare degli orrori del presente e nello specifico del corpo delle donne è qualcosa a cui la moda dovrebbe aspirare perché si occupa, nello stesso modo, di corpi femminili. Ma anche il super successo di Barbie, che in una maniera molto più comprensibile usa un linguaggio simile, non ha spinto nessuno a fare a pezzi le romanticherie nostalgiche trasformandole in armi di rivoluzione. La quiete del lusso è una forma di distacco dal reale, di abdicazione a dire qualcosa di sensato sul presente, di rifugio impenetrabile in un limbo che non esiste, un tutto amorfo ormai irricevibile. Mi sono sempre chiesto, per esempio, se qualcuno da Gucci ha mai pensato al fatto che nella loro storia c’è un omicidio e una lunga serie di tragedie familiari. Magari esiste un modo per riflettere su quel momento che, si voglia o no, fa parte del brand tanto quanto Jackie Onassis a Capri. Anche morte e separazione possono rendere una storia credibile. E magari più interessante.

Dietro il mega trend del quiet luxury o, come lo chiamano su TikTok, old money, non c’è solo il tentativo di vendere cos...
18/10/2024

Dietro il mega trend del quiet luxury o, come lo chiamano su TikTok, old money, non c’è solo il tentativo di vendere cose costosissime ai super ricchi della terra ma c’è, soprattutto, un grande abbaglio. Il pre requisito per vendere cachemire beige e cappotti blu è un’idea di gusto borghese understated che risale all’ottocento, un momento storico in cui la scelta di non apparire rappresentava l’accesso al potere. L’uniformità estetica della classe dominante era facile da nutrire e gestire perché i ricchi erano pochi, si conoscevano, leggevano e vedevano tutti le stesse cose. Oggi i milionari sono sparsi in tutto il mondo, provengono da culture diversissime e si nutrono fondamentalmente della melma dei social media perché, al contrario dell’Ottocento, sono spesso analfabeti. Pensare che comprino Chanel o Hermès perché sono maestri di gusto è, oltre che utopico, oggettivamente falso. Per loro il quiet luxury è solo un altro trend passeggero che sarà presto sostituito da qualcos’altro. La moda ha pensato in blocco di aver superato il problema del continuo cambiamento del gusto globale non riflettendo sul fatto che il mondo è in frantumi, il caos regna sovrano e le persone, anche se analfabete, non credono che vestirsi come Nicole Kidman in The Perfect Couple possa portarli alla gioia terrena. E non è neanche vero che, sempre i soliti proprietari di mega yacht, abbiano improvvisamente bisogno di oggetti duraturi, simbolicamente riconoscibili e tali da essere passati alle generazioni successive. Questi se ne fregano di figli e nipoti, tanto quanto figli e nipoti se ne fregano di loro. Sarebbe bello, lo so, che il mondo avesse compreso la differenza tra bello e brutto ma non è così. Il problema dell’umanità è, anche, fortemente estetico e i parametri per articolare un discorso sensato sull’argomento sono talmente tanto complessi che nessuno ci prova più. Voi per caso mi volete dire che nell’era del Calippo tour i nuovi ricchi hanno la stessa capacità di analisi di Maggie Smith in Downton Abbey? Ecco. Io non penso.

Mentre in molti si domandano chi prenderà la direzione creativa una volta che re Giorgio decide di ritirarsi, tirando in...
11/10/2024

Mentre in molti si domandano chi prenderà la direzione creativa una volta che re Giorgio decide di ritirarsi, tirando in ballo nomi come Hedi Slimane, Maria Grazia Chiuri o Stefano Pilati, non ci si accorge che la questione da porsi è un’altra, ben più profonda. Giorgio Armani è uno dei creatori di quello che comunemente viene chiamato Made in Italy. Il suo brand, nato nel 1975, ha contribuito fortemente a stabilire un modello creativo e produttivo che ha, tra le altre cose, rilanciato l’immagine dell’Italia nel mondo. In un momento in cui il Bel Paese era devastato da crisi economiche, terrorismi rossi e neri e un’ondata di rapimenti, la moda è diventata un simbolo di resurrezione, riportando l’attenzione su capacità imprenditoriali e di design che il mondo aveva dimenticato più o meno dai tempi del Rinascimento. Questo meraviglioso ma delicato momento non solo è stato poco indagato ma ha subito una falsa mitizzazione che ha portato ad avere un’immagine distorta di una storia che è molto complessa e che comincia nel 1946. Personaggi come Armani, Versace, Krizia, Trussardi ma anche Albini, Missoni, Caumont o Silvano Malta non sono stati studiati, non sono mai stati analizzati con una prospettiva se non quella dell’elogio acritico. Giorgio Armani non è solo un brand ma un pezzo importante di storia italiana e come tale andrebbe studiato e il suo patrimonio conservato. Mentre il design è stato storicizzato e valutato criticamente la moda non ha ancora attraversato questa fase lasciando molte domande sospese. Perché Armani dopo solo 5 anni dalla nascita del brand veste Gere in America Gi**lo e due anni dopo conquista la copertina di Time? Perché in brevissimo diventa un esplosivo successo commerciale negli Stati Uniti? Qual è il ruolo del GFT, l’azienda produttrice dei Rivetti, in questa parabola? E qual è il ruolo dei department store che tra poco a New York lo celebreranno? È venuto il momento di cercare risposte a queste domande che, immagino, a volte saranno frustranti, a volte sorprendenti, a volte semplicemente nuove.

Siamo in un momento in cui chi sbaglia, sbaglia pesantemente. Come chi guida un’auto, non troppo veloce né troppo lento,...
02/10/2024

Siamo in un momento in cui chi sbaglia, sbaglia pesantemente. Come chi guida un’auto, non troppo veloce né troppo lento, tenendo gli occhi sulla strada, lucido e attento ma non si rende conto che sta andando contro mano e che quel tir che arriva non farà in tempo a frenare. McQueen è un marchio che ha una storia di genialità e incontinenza creativa, seguita poi da un lungo periodo di adattamento a un mercato rigido e assolutista come quello degli abiti eleganti o da sera. Un mercato dove stanno Elie Saab, Gianbattista Valli e quasi tutti i designer inglesi da Simone Rocha a Erdem. Riattivare il senso e la clientela di una brand così complesso ma anche così monodimensionale è difficile, difficilissimo. Per uscire dal vicolo cieco dei cocktail e dei matrimoni milionari è stato deciso di prendere un giovane direttore creativo, Seán McGirr, proveniente da Loewe, e di affidargli l’ardito compito. Dopo una prima collezione caotica ma quantomeno personale, ora McGirr è rientrato nei canoni cari a McQueen del dressing up, con un grande sfoggio di pizzi, paillettes e chiffon. Saranno contenti i soliti del commerciale e del merchandising e immagino anche molti clienti ma forse non avranno pensato che se volevano questo tipo di prodotto potevano tenersi Sarah Burton. Questo gigantesco errore strategico, in un momento in cui di errori non se ne possono fare, mi sa di pressioni dall’alto, di estenuanti riunioni di controllo sul prodotto e di redifinizione della collezione fino allo sfinimento. In una parola mi sa di paura. La paura è un’emozione animale e da un punto di vista evolutivo serve a scatenare reazioni di fuga o di difesa davanti ad un aggressore. Il problema è che i miei gatti quando vedono una biscia fuggono, quando vedono una lucertola la intrappolano. Non si sognano di aspettare, rimuginare, riflettere e rotolarsi a terra. Agiscono.

Stella McCartney è da tempo una sincera alfiera della sostenibilità nella moda. La sua profondità di ricerca a tutti i l...
02/10/2024

Stella McCartney è da tempo una sincera alfiera della sostenibilità nella moda. La sua profondità di ricerca a tutti i livelli della catena produttiva è probabilmente l’esempio più fulgido di come la moda dovrebbe essere concepita e prodotta. Ma Stella ha presentato la sua prima collezione nel 1995 e degli anni ‘90 rimane una discendente diretta. In quel momento storico, a lato di tutti i Margiela e Galliano, si sviluppa nella moda il concetto di copia d’autore. Le immagini delle sfilate circolano sempre di più e chiunque nel mondo può usarle come meglio crede, ritagliandole, mescolandole, sezionandole. Quando nel 2010 nasce Pinterest l’abitudine alla copia è già per tutti una pratica quotidiana senza che più nessuno si domandi se abbia un senso. Zara e H&M ne sono una triste conseguenza. Nascono anche account come Diet Prada che mettono inizialmente in luce queste imbarazzanti distonie ma presto la copia riesce a suscitare al massimo un sorrisetto mentre diventa un indicatore di contenuti moda ad un prezzo più basso. Stella McCartney non ha prezzi bassi ma di certo è stata una delle iniziatrici di un trend che ha portato oggi marchi come Coperni, Toteme, Gauchere, Gabriela Hearst, Isabelle Marant, Carven, Patou e molti altri, a definirsi marchi, non essendolo in realtà neanche un pó. Questa abitudine ha di certo inondato il mondo di bei vestiti, portabili e con prezzi più contenuti ma ha anche cancellato il muro divisorio tra autorialità e spirito derivativo. A nessuno pare interessare più che la ricerca creativa è una cosa costosa, lunga e faticosa, mentre si moltiplicano i profili TikTok che urlano allo scandalo per i prezzi troppo alto dei brand del lusso. Essere sostenibili, oltre ad usare tessuti vegani, dovrebbe comprendere anche il concetto di rispetto del lavoro altrui e se nel caso di Stella non si può mai parlare di vera copia, il suo lavoro continua ad appoggiarsi sui trend del momento, su idee pre digerite che hanno già affrontato il test del mercato. Tracciare una linea chiara tra innovazione e derivazione dovrebbe essere un tema centrale per chi critica e per chi compra.

Secondo la Treccani il dissenso è una “Critica vivace e serrata, operata dall’interno (ma che può talora risolversi in d...
01/10/2024

Secondo la Treccani il dissenso è una “Critica vivace e serrata, operata dall’interno (ma che può talora risolversi in decisa opposizione) alle strutture di partiti, di organizzazioni sociali, politiche o religiose, per profonde divergenze circa le posizioni teoriche e ideologiche, le direttive, le linee d’azione sia in generale sia riguardo a problemi particolari”. Basterebbe questo a definire il lavoro di Demna da Balenciaga che si fa sempre più complesso, stratificato, interessante. In una stagione dominata dalla paura di cambiamento ma anche dalla necessità, intrinseca alla moda, di sgomberare il campo e riscrivere tutto, Balenciaga ha di nuovo dimostrato come avere una voce non allineata, dissonante e non consolatoria sia, appunto, quello che ci si aspetta dalla moda. L’equivalenza, scritta su due giacconi, tra fashion designer e esseri umani è un manifesto non solo alla libertà creativa ma al senso di fare questo mestiere, alla responsabilità di dire cose che hanno a che fare con la vita. E la vita per Demna è un affare caotico in cui sesso, strada, caos e atelier si scontrano in un’amalgama pre-razionale e invece di dissolversi a vicenda si nutrono, come tutti ci dovremmo nutrire di quello che viene dal basso, da dentro i nostri corpi, dal basso dei nostri corpi. Qui è tutto splendidamente dionisiaco, bollente come la lava, gelido come un iceberg, libero come la naturale tendenza degli esseri umani a rotolarsi nel fango nudi, ridere e succhiarsi a vicenda le lingue impastate di fragole. Demna non ha paura del buio, del giudizio, del passato, degli altri. Gli altri sono il suo territorio di espansione, la sua esperienza creativa. Sono/siamo quelli a cui parla, chiede, prega, incita a non rimanere fermi, a non lavarsi troppo, a non vestirsi troppo, a non pensare troppo perché è impossibile, in fondo, liberarsi completamente dalla polvere sottile e minacciosa della vita.

Per i pochi che ancora non lo sanno, pare che Hedi Slimane sia stato candidato per la direzione creativa di Chanel ma al...
30/09/2024

Per i pochi che ancora non lo sanno, pare che Hedi Slimane sia stato candidato per la direzione creativa di Chanel ma alla fine la cosa non si sia conclusa. I motivi veri nessuno li conosce ma i ben informati dicono che Hedi avrebbe voluto il controllo totale su tutto, profumi compresi e che i fratelli Wertheimer abbiano rifiutato. La risultanza di questa sconfitta (molto più per Chanel che per Slimane) è una delle collezioni più riuscite che Hedi abbia mai fatto per Cèline. Perché è, in effetti, una collezione di Chanel. In un meraviglioso plot twist di cui la moda sta facendo finta di non accorgersi, Hedi Slimane ha riletto la seconda parte della carriera di Coco, quella dal 54 al 71, evitando di fare un’operazione nostalgia ma anzi riflettendo su quanto Madame abbia reinventato il vestire femminile alla tenera età di 71 anni. In netta opposizione agli imperanti artifici dello stile di Dior, Chanel pensa a un tailleur per le donne che lavorano, che magari non prendono l’autobus ma sicuramente hanno una vita propria e non dipendono da maschi ricchi. Sono le nuove borghesi che hanno certo bisogno di segni di riconoscimento ma anche di una praticità quotidiana che le renda libere dai condizionamenti di una società fortemente maschilista. Quale momento più adatto di questo per tornare a quel tempo e raccontare una storia di vestiti, di funzione d’uso, di chiarezza? Slimane, nel ridicolizzare la scelta dei vertici di Chanel, è riuscito a fare uno statement sulla moda di oggi, uscita dall’inutile tunnel del quiet luxury e dalla bolla dello streetwear, alla disperata ricerca di qualcosa da dire. E il finale del video di presentazione della collezione, in cui i lampadari settecenteschi fracassano al suolo, cosa può essere se non un monito non solo ai Wertheimer ma a tutto il mondo della moda? Un’allusione chiarissima al pericolo di digerire sè stessi a forza di guardarsi, di compiacersi, di rileggersi ma soprattutto di stare in un posto che non ha più niente a che vedere con il presente.

A chi si aspettava una rivoluzione Alessandro Michele non ha mandato a dire che secondo lui non è tempo di rivoluzioni. ...
29/09/2024

A chi si aspettava una rivoluzione Alessandro Michele non ha mandato a dire che secondo lui non è tempo di rivoluzioni. Nella sua prima sfilata per Valentino ha richiamato tutti i suoi segni di riconoscimento per ribadire innanzitutto la sua identità. Come ho già scritto in occasione della sua prima pre collezione, la sua identità, massimalista, decorativista e fortemente basata sul decennio degli anni 70, coincide quasi completamente con ciò per cui storicamente Valentino Garavani è diventato famoso. Da un punto di vista filologico Michele è stato quindi molto rispettoso. Il problema qui non è la prospettiva archeologica e nostalgica. La questione su cui farsi delle domande è il metodo. Le sfilate di Alessandro sono un caos di mescolanze estetiche che intossicano volutamente gli occhi e che rifiutano l’attenzione al singolo prodotto. Sono anti narrative. Nel senso che non c’è una storia, un’ispirazione o un tema ma anzi c’è la volontà di frantumare il messaggio in mille pezzi e lasciare a chi guarda il compito di ricostruirlo. Questo aveva sicuramente un senso nel 2015, quando ha iniziato da Gucci, ma nel frattempo il mondo è cambiato e in giro si sente bisogno di ordine, di recupero di punti fermi. Il potere taumaturgico e dionisiaco di Alessandro Michele temo funzioni un po’ meno e il suo spirito anarchico ha ormai riempito le vetrine dei fast fashion. In questo momento le narrazioni, anche al cinema, tornano ad essere solide, anche dolorose ma sicuramente vere. Ecco. Nella sfilata di Alessandro non c’era dolore. E si sentiva. Non per caso la versione originale della colonna sonora diceva “È un sogno la vita/che par sì gradita/ è breve gioire/bisogna morire”. Nessuno vuole morire. Ma nessuno vuole neanche vivere con l’idea che la morte non esista.

Si scrive Schiaparelli ma si legge disastro. Mentre eravamo distratti Daniel Roseberry ha creato un moodboard con immagi...
28/09/2024

Si scrive Schiaparelli ma si legge disastro. Mentre eravamo distratti Daniel Roseberry ha creato un moodboard con immagini di Mugler, Balmain e Saint Laurent e ha spostato il brand verso il sexy/glam/bodycon per motivi che non ci sono chiari. Al contrario di Elsa Schiaparelli che rivisitava l’abbigliamento borghese degli anni 30 con l’occhio disincantato e ossessivo di chi ne ha passate di tutti i colori, Roseberry ci racconta di una vita spensierata vissuta tra una festa e un club possibilmente in Costa Azzurra. La realtà non ha posto sul foglio bianco in cui Daniel fa le sue belle illustrazioni seduto su una panchina in Central Park. Rimane fuori ad aspettare che qualcuno si interessi a lei. La questione interessante però è il clamore e il successo di critica (ma non di pubblico) che questo progetto continua a destare anche quando fa sfilare Naomi (ops!) con la testa di un orso sulla spalla. È probabile che questo segmento della vita del brand rimanga nella storia come segno della decadenza in cui ci troviamo e dell’impossibilità di dire cose sensate. Oppure potrebbe essere ricordato per essere uno degli ultimi marchi che si sono dimenticati da dove vengono e per questo non sanno dove vanno. Siamo in un momento in cui il racconto e il rispetto per le origini è tornato ad essere centrale. Elsa si era inventata un modo per mettere in ridicolo le ricche signore francesi e per costruire un senso di appartenenza intellettuale a qualcosa di più alto. Miuccia Prada viene da lì. È difficile pensare che tutta questa gigantesca forza innovativa si possa perdere in un abitino di maglia stretch metallizzato. Quei tempi temo che siano finiti.

Mentre il mondo si interroga su cosa sarà del mondo senza riuscire a darsi risposte sensate, la moda, che del mondo è un...
28/09/2024

Mentre il mondo si interroga su cosa sarà del mondo senza riuscire a darsi risposte sensate, la moda, che del mondo è un riflesso, sta faticosamente uscendo da un lungo torpore. Lo abbiamo visto a New York con il punto di vista politico di W***y Chavarria, a Milano con l’autorialità di Simone Bellotti da Bally e con la riflessione sulla quotidianità del prodotto di Matthieu Blazy da Bottega Veneta e infine a Parigi con Anthony Vaccarello per Saint Laurent che ha esplorato il momento storico in cui la moda è arrivata alle masse. Sono tutte strade diverse che portano però ad uno stesso punto: riaffermare la centralità della moda come elemento di critica sociale e di costruzione culturale. In questo contesto l’intellettualismo minimalista di JW Anderson, come quello di Lucie e Luke Maier da Jil Sander, sembra vecchio. Le collezioni surrealiste fatte di sproporzioni ardite di Loewe sono diventate improvvisamente obsolete perché assomigliano a un giochetto autoriferito comprensibile solo a chi sta nella bolla della moda. Sono distanti dalla realtà e hanno un tasso di autocompiacimento che non è più interessante. In molti dicono che JW sarà il prossimo direttore creativo di Dior. Se fosse vero il brand più amato in casa LVMH riprenderebbe la strada della scissione tra realtà e fantasia dei tempi di Galliano e Raf Simons, abbandonando la coscienziosa vicinanza al prodotto di Chiuri. La mossa riporterebbe a Dior la coolness persa da tempo ma mancherebbe di centrare il nuovo obiettivo che la moda si è data: tornare a parlare in maniera sincera della vita reale. Una cosa che accadeva fino a prima che la gente smettesse di usare le mani per accarezzare un tessuto per spostarle nervosamente sulla liscia tastiera di vetro di un telefono.

Ci sono delle sfilate che radono al suolo tutto quello che è successo prima e costruiscono, nell’arco di pochi minuti, t...
25/09/2024

Ci sono delle sfilate che radono al suolo tutto quello che è successo prima e costruiscono, nell’arco di pochi minuti, tutto quello che succederà poi. Anthony Vaccarello ha frantumato una volta per tutte l’orribile questione del quiet luxury, l’indigenza creativa perdurante, la mancanza di direzione diffusa e ha riportato al centro dell’attenzione una cosa che in molti si erano dimenticati: il senso. In questa collezione c’era tutto Yves, incarnato in maniera matematica e rispettosa, ma c’era anche un nuovo messaggio detto con grande assertività. Spaccando in due metà esatte la sfilata, Vaccarello ha recuperato una roba vecchia che si chiama occasione d’uso che quasi tutti gli esseri umani continuano a rispettare. Di giorno ci vestiamo da giorno, di sera ci vestiamo da sera. In queste sue fasi separate i codici della prima sono la comodità, il tailoring maschile e lo sportswear, mentre nella seconda stanno il lusso esibito, la decorazione e il colore. Questa diarchia è nata tra la fine dei 70 e l’inizio degli 80 e infatti è lì che Vaccarello è andato. Riabilitare le fondamenta del vestire quotidiano è fondamentale per cancellare il senso di dispersione in cui siamo. Non è controriformistico ma rigenerativo. Da Saint Laurent c’era decisamente la luce in fondo al tunnel. Forte e chiara. Ora basta seguirla.

Indirizzo

Milan
20124

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Andrea Batilla pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Condividi

“Make it simple, but significant.” — Don Draper

Sono un creative strategist cioè mi occupo di strategie di brand nella moda seguendo prodotto, comunicazione e marketing, fondendo la parte creativa con quella economica e commerciale. Mi interessa tutto quello che è nuovo, mi interessa capirne i meccanismi e farli conoscere agli altri.

www.andreabatilla.com