26/10/2025
Questo articolo voglio proprio scriverlo finché le emozioni sono intense, profonde, urlano dentro un corpo e una mente che rivivono dolore e ricordi.
Scrivo per narrare un passato, una morte che persevera da 27 anni, e quelle del presente, unite da un profondo silenzio che, come dicono spesso nelle canzoni, fa “un rumore assordante”, che non si dimentica, che ci accompagna e vive nella vita di chi è rimasto.
Mio fratello, un brutto incidente, la telefonata di mio zio, il riconoscimento in ospedale e il grande senso di vuoto… tutto in un colpo solo, anzi, tra un muretto e un platano, in quella strada.
Fabrizio, “Pedro”, fu l’inizio di un cambiamento nella vita che condiziona la mia esistenza senza averne coscienza, senza renderme conto.
Il viaggio che sto ancora vivendo — di abbandono, impotenza, mancata condivisione — è lungo. Spesso non ne parlo, evito, ci giro intorno, non affronto, faccio finta di nulla per sopravvivenza. Ma il trauma non è ancora somatizzato e trasformato. Mi dico sempre che, prima o poi, ci sarà la svolta e il dolore che sento svanirà, ma è un’illusione allo stato puro.
È proprio vero: chi lo vive sa di cosa parlo, chi non lo vive può solo esserne amareggiato. È diversa la sofferenza che devasta il presente e il futuro e si trasferisce nella quotidianità dei familiari. Nel mio caso, le mie figlie me lo fanno notare, è più forte di me.
“Finché non hai la tua patente non vai in auto con i tuoi coetanei.”
“Finché non guidi, ti portiamo e ti veniamo a prendere in discoteca o alle serate con gli amici.”
E tanto altro ancora.
Ma c’è una cosa che lega il tutto: la speranza.
La speranza di saperlo sereno, felice e sapere che è quell’energia che a volte si proietta in situazioni, in attimi, in gesti inconsueti che avvolgono la mia giornata. Spesso mi chiedo come possano avvenire, ma lo stupore dura poco: hanno solo un nome, “Pedro”.
In questa settimana, come ho scritto nei social, le candele sui davanzali delle mie finestre non si spegneranno: la loro fiamma riscalda e porta calore, testimoniando la condivisione della perdita di altre giovani vite. Si chiamano Nicola e Pietro, due ragazzi del paese dove vivo.
Due giovani che ora sono energia, sono anima, sono vita al di là di un corpo, di una presenza fisica, ma tangibile come quella luce che si è innalzata al tramonto l’altra sera, prima del loro funerale. Credo che in paese l’abbiamo vista tutti: dopo una giornata di “burrasca”, tra forti raffiche di vento e pioggia, verso le 17-18, un fascio di luce dal colore giallo ocra si vedeva a ridosso della piazza del paese. Un cielo improvvisamente diverso, all’orizzonte un barlume di sole. Mi sono detta: “Eccoli, ciao ragazzi, ci state osservando e accompagnando. Questa è la vostra mano tesa verso tutti noi.”
Questo mio sentire non riconduce a Dio, a Cristo, alla fede, ma all’amore, all’altruismo e alla solidarietà.
Pietro e Nicola li conosco attraverso i racconti delle mie figlie: le chat di Nora con Pietro, “Sono il più figo del Veneto” — era sempre divertente ed ironico! — il suo sorriso contagioso, il suo altruismo, il volontariato come animatore al Grest, gli innumerevoli scherzi come la farina lanciata a mia figlia al campo scuola appena dopo la doccia, la sua presenza fissa alla sagra del paese, sempre disponibile ad aiutare tutti, cordiale, generoso, rispettoso.
Nicola, “il bello che balla”, intelligente, determinato, simpatico, sempre sorridente e scherzoso, con le idee chiare. Ambito in paese dalle ragazze per la sua bellezza, ma anche per la sua educazione e il suo rispetto: quasi “irraggiungibile” per il suo carisma e l’impegno nel costruirsi un futuro.
Questa perdita lancia un segnale forte: un coro di voci che racchiude la voglia di vivere, i valori dell’amicizia, dell’unione. È un nuovo inizio per i ragazzi di questa comunità, e non solo. Sono convinta che Nicola e Pietro stiano trasmettendo, nel cuore e nell’anima dei nostri figli, la consapevolezza del valore della vita.
A questi due ragazzi è stato dato un compito molto difficile: ci guideranno, ci aiuteranno tutti a capire come essere “più intensamente UMANI”.
Questa umanità l’ho sentita dentro, e mi ha dato la voglia di condividere ciò che mi era possibile, nel giorno del loro arrivederci: attraverso le bevande calde servite ai ragazzi infreddoliti, il bagno di casa divenuto un bagno pubblico — le auto sistemate nella mio giardino, le ore in attesa di poter aiutare o essere utile agli alpini, ai volontari, ai carabinieri… insomma, a chiunque avesse bisogno di qualsiasi cosa.
In queste ore ho avuto la fortuna di conoscere alcune insegnanti di Nicola, soprattutto una docente incinta, palesemente commossa, che — usando il bagno di casa mia — mi ha raccontato la bellezza umana di questo giovane ragazzo. Ho conosciuto dei ragazzi di altri paesi di pianura che si sono avventurati in questo piccolo paesino di montagna, alcuni sperduti, infreddoliti, avvolti dalle mie tisane calde, commossi e provati, increduli e ancora storditi dalla funzione toccante, che io ho vissuto a distanza, con discrezione ma con tanta condivisione.
Ho conosciuto ragazzi di altri paesi che non conoscevano Nicola e Pietro, ma, parcheggiando da me, hanno detto: “Siamo qui perché poteva essere uno di noi.” Sono venuti spinti dalla solidarietà e questo mi ha fatto provare un’intensa gioia.
Ho conosciuto alpini e volontari che, a me e al mio vicino, hanno affidato la coordinazione delle operazioni di parcheggio all’interno della nostra corte comune privata.
Questa mattina alcuni dei nostri ragazzi sono in direzione Asiago, quella rotonda oggi avrà fiori nuovi, freschi, si aggiungeranno agli altri posti nei giorni scorsi. I nostri giovani credo abbiano iniziato a realizzare quanto perduto firmando e lasciando dediche in quelle bare bianche, ciò che è scritto è indelebile quanto il senso di amicizia e stima verso due anime meravigliose.
Il cuore di una comunità
Ci sono momenti in cui una comunità smette di essere solo un insieme di persone e diventa un unico respiro.
È quando il dolore bussa alle porte che scopriamo quanto siamo legati, quanto le mani degli altri possano sostenere il peso del nostro silenzio.
La solidarietà non è solo un gesto: è presenza, è uno sguardo, è un “ci sono” sussurrato tra le lacrime.
È la forza invisibile che ci unisce anche quando tutto sembra crollare.
In quei giorni, in quelle ore di attesa e commozione, ho sentito la coesione vera, quella che nasce dal cuore e non dall’abitudine.
Una comunità che si stringe, che condivide, che non lascia nessuno indietro: questa è la forma più pura della devozione verso la vita e verso l’altro.
Perché essere comunità significa proprio questo: sapersi riconoscere nel dolore e rinascere insieme, ogni volta.
Di Carol Agostini
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