31/10/2024
In un articolo sul New Statesman, il barone Maurice Glasman, membro della Camera dei Lord, rimpiange con nostalgia il passato sovietico della località ucraina. Una pericolosa testimonianza della retorica filorussa in Occidente
La storica rivista della sinistra britannica New Statesman ha pubblicato un commento del barone Maurice Glasman, membro della Camera dei Lord per il partito laburista. Nel lungo articolo, intitolato “Silent voices in the once-free city of Odesa”, l’economista racconta il suo viaggio per partecipare insieme ad altri quattrocento ospiti all’Odesa Economic Revival Forum, che si è svolto il 20 settembre nel porto ucraino.
Il racconto è intramezzato da divagazioni storiche e paralleli con i pogrom degli ebrei orientali negli anni Quaranta, condito da citazioni letterarie. Il viaggio, racconta Glasman, inizia con un volo verso «la città che conoscevo come Kishinev, ma ora è chiamata Chișinău», quasi a dispiacersi del fatto che il retaggio russo dell’occupazione sovietica sia stato spazzato via e ora la lingua ufficiale sia il romeno.
Questo sospetto trova conferma quando Glasman si duole del fatto che «non ci sono più statue di Marx a Odesa, e nemmeno di Pushkin». In realtà, la statua di Pushkin c’è ancora e si trova proprio davanti al museo a lui dedicato, benché il poeta russo visse in città solo nel 1823. È stata fasciata in una cassa di legno protettiva, come altre centinaia di statue in Ucraina, per proteggere il patrimonio culturale dai bombardamenti, ma per Glasman si tratta invece di una forma di iconoclastia e censura.
La sua narrazione fa leva sul fatto che a luglio il governatore dell’oblast, Oleh Kiper, ha deciso di rinominare una serie di vie e piazze, tra cui via Pushkina, ribattezzata via Italiana in onore degli architetti che hanno contribuito a costruire Odesa nell’Ottocento. Scelta certamente opinabile, ma comprensibile in un clima esasperato di guerra in cui ogni notte piovono missili russi sulla città ed è in corso un’evoluzione dell’identità nazionale.
Ad ogni modo, Glasman si supera quando afferma che «Odesa è storicamente una città russofona ma la lingua russa è bandita in ogni luogo pubblico, quindi è muta». È sufficiente camminare per le sue strade, come ho fatto anch’io a ottobre, per rendersi conto che è completamente falso: si sente parlare russo a ogni angolo, nei ristoranti e sui taxi. Secondo alcuni osservatori, nel suo articolo Glasman avrebbe persino mentito su piogge torrenziali mai avvenute durante la sua permanenza e su bombardamenti che non combaciano con quelli registrati.
L’immagine di una città repressa, mista a una certa nostalgia per i simboli sovietici, è il messaggio centrale dell’articolo del New Statesman, che su Twitter ha ricevuto solo ventuno mi piace a fronte di migliaia di reazioni negative e commenti indignati. La propaganda del Cremlino cerca di dipingere Odesa come una città russa solo perché russofona, ma se passeggiate per le sue strade noterete qualcosa che non si vede neppure a Kyjiv: gli abitanti hanno dipinto e issato la bandiera ucraina letteralmente a ogni portone.
Glasman, che si dilunga a raccontare dei pogrom degli ebrei del 1941, commessi dalle truppe di occupazione romene, non dedica nemmeno una parola a cosa fu Odesa durante lo stalinismo. Eppure, tra una citazione letteraria di Isaac Babel, autore dei “Racconti di Odesa” con il sobborgo della Moldavanka e la malavita ebraica, avrebbe calzato anche una citazione di Simenon. Come quando in “Europa 33” lo scrittore belga racconta della polizia politica che lo pedinava appena usciva dall’Hotel Londonskaya sul Prymorsky boulevard, a due passi dalla famosa scalinata Potemkin, o della miseria estrema che la guida assegnata dal regime cercava di nascondergli.
La statua di Babel è ancora al suo posto nel centro città, mentre a fine 2022 il consiglio comunale ha votato per la rimozione dal piedistallo di quella dell’imperatrice russa Caterina la Grande, nell’ambito della politica ucraina di “decolonizzazione” dal retaggio imperialista russo. Proprio mentre mi trovavo a Odesa, una sera alla base di quel piedistallo una donna in evidente stato di alterazione ha cercato di sventolare una bandiera russa. I passanti indignati hanno chiamato la polizia che ha proceduto al fermo.
La donna si chiamava Elena Chesakova e anni fa si era trasferita dalla città russa di Perm a Odesa con la madre. Ha ripetuto in modo maniacale la propaganda russa sul «regime di Kyjiv» e sul rogo alla Casa dei Sindacati di Odesa del 2014, grande cavallo di battaglia dei filorussi. Qualche giorno dopo, la disinformazione di Mosca e persino il presentatore Solovyev hanno fatto circolare la notizia falsa secondo cui la donna era stata torturata a morte durante la detenzione.
È stata presto smentita: la donna è viva e si trova agli arresti domiciliari. È già nota alla polizia locale per ubriachezza molesta, atti vandalici e altri comportamenti simili. La madre, che si definisce «russa fino al midollo», condivide le opinioni della figlia sulla necessità di riunire l’Ucraina nel Russkij Mir putiniano, ma grazie al passaporto ucraino ottenuto a Odesa vive ipocritamente in Repubblica Ceca, come molti altri russi.
https://www.linkiesta.it/2024/10/odessa-putin-filoputiniana-cremlino-retorica-new-statesman-pugliese-sovietico-ucraina-pericolosa-cremlino-voce-russia/