07/10/2025
DJ Max Bondino riscopre la fame o quantomeno un certo appetito, in BPM, il podcast che si può anche leggere, la rubrica che si ascolta su Spotify ed Apple Podcasts.
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BPM (Beats Per Matches)
Juventus – Milan 0-0 ovvero “I WANT MORE” (Faithless)
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C’è sempre una linea sottile tra ciò che hai e ciò che senti di meritare.
Una zona grigia fatta di controllo ed equilibrio.
È lì che nascono le squadre mature: quando smettono di cercare conferme e cominciano a pretendere di più da loro stesse. Questo Milan vive esattamente in quel punto. Non deve dimostrare di essere solido: lo è.
Non deve più difendersi dagli errori: li conosce, li accetta, li corregge.
Ma non basta. Perché quando senti che puoi spingerti oltre, la stabilità diventa solo un trampolino.
E allora un pareggio, in un altro tempo comodo da accettare, oggi pesa.
Perché non nasce dal timore, ma dall’ambizione. È la fame che resta anche a stomaco pieno.
È la voce che sussurra, dentro e fuori dal campo:
“I want more”.
Poco meno di un anno fa, a San Siro, questa stessa partita fu l’apocalisse del calcio.
La negazione di tutto ciò che, da sempre, ci spinge a sincronizzare le nostre vite con questi colori.
Una squadra spaccata, svuotata, in rotta con il proprio allenatore, incapace di sfiorare la dignità.
In settimana, Allegri l’ha definita “una sfida fantastica”, per storia, rivalità e per la sua stessa biografia.
Non lo è stata neppure stavolta.
Ma sarebbe un errore accomunarla a quell’Armageddon.
Perché, piaccia o meno a chi riesce ad esprimersi solo nella disgrazia, quella “fine dei tempi” è già avvenuta.
E il nuovo mondo, questo Milan solido e affamato, è già qui da un pezzo.
“Four walls and a roof
Electricity, stable mind, but still you whine: I want more”
Il primo tempo è una gigantesca comfort-zone.
Decidiamo di uscirne, timidamente, solo dopo la mezz’ora: una combinazione tra Modrić e Rabiot porta il francese a scagliare il primo tiro della partita, alto non di molto.
Due minuti dopo, un grande recupero in mezzo al campo di Pulisic innesca Giménez, che fa tutto benissimo: porta palla sino al limite, sterza in area, dribbla in accelerazione mezza difesa bianconera ma si defila troppo, lasciando partire un sinistro potente ma centrale.
Ancora Giménez, al 42’, sul cross dal vertice di Pavlović: altro gran movimento, colpo di testa sul palo lontano, fuori di poco.
Per la Juve, da segnalare soltanto una goffa caduta cartoonesca di Jonathan David al momento del tiro e una serie infinita di dribbling di Conceição a tenere a battesimo Bartesaghi.
Il primo tempo è davvero tutto qui: ordine, equilibrio, ma zero pericolo reale.
“Hills to climb, sights to see, seas to cross”
Il viaggio di questa squadra profondamente nuova è appena iniziato ma la ripresa si apre con una vecchia conoscenza. L’unico vero pericolo della partita nasce in un’area piccola improvvisamente affollata, un rimpallo, il tiro a botta sicura di Gatti, e poi: Maignan.
Una parata irreale, da guardiano antico: più istinto che gesto, più destino che riflesso. Come avesse espanso la superficie del suo corpo fino a oscurare tutto il panorama, come se il suo corpo avesse assorbito la luce stessa, inghiottendo anche il bersaglio da colpire.
Un gesto che non vale solo un gol evitato, ma una dichiarazione di identità.
“Show me a man without guilt, or a soul that ain’t lied.”
Nessuno tocchi Christian Pulisic. Partiamo da qui.
Anche perché qualunque milanista con funzioni cognitive medie ha sperato andasse lui, sul dischetto, quando al 52’ Kelly ha steso Giménez in piena area. Di Gregorio è spiazzato, ma la palla vola sopra l’incrocio.
Ne abbiamo visti sbagliare di peggiori, in questi anni.
Ciò che non vedevamo mai, invece, era la reazione nervosa dopo una difficoltà.
Un anno fa, in una situazione simile, la squadra avrebbe cercato corda, sapone e una trave resistente per farla finita. Stavolta no.
Nell’azione successiva è proprio Christian a cercare il riscatto con un’iniziativa personale e un tiro da fuori.
Poi ancora Fofana, e un paio di lampi.
Ma è l’atteggiamento collettivo (dentro al rimpianto) a lasciare davvero intravedere un futuro interessante.
L’enigma resta Rafa Leao.
E non è questione solo di prestazioni, ma di percezione.
Ogni allenatore che passa di qui, prima o poi, si lascia ossessionare dall’idea di trasformarlo in centravanti.
Forse perché, fatta eccezione per la discesa dal cielo di Olivier Giroud, è da vent’anni che non ne troviamo uno senza qualche turba da risolvere.
Ma Rafa non è quel giocatore, e non lo sarà mai.
Dopo sei anni assieme, sappiamo perfettamente cosa sa fare in modo straordinario e cosa no, nel modo più assoluto. Entra alla mezz’ora al posto del miglior Giménez stagionale (forse) e subito tenta un tiro da sessanta metri, per sorprendere Di Gregorio fuori dai pali.
Poi apre il dibattito da quindici giorni con cui riempire la sosta delle nazionali.
Due occasioni, entrambe oltre il clamoroso.
Ognuno può scegliere la propria preferita, o la più dolorosa.
Minuto 73: palla dentro di Pulisic, la difesa bianconera si ferma e Rafa, solo nell’area piccola, a un metro dalla porta, ha tutto il tempo del mondo.
Il modo in cui chiude male col sinistro, mandandola sul fondo, resta inspiegabile - persino per la sua visione periferica, che da lì vicino gli aveva fornito ogni info utile possibile.
La seconda, allo scadere. Modric esce regalmente da uno scambio stretto con Saelemaekers e imbuca una palla immaginifica in area, Leao si ritrova una voragine verso la porta e per usare un’espressione infantile: “si corre addosso”, arrivando scoordinatissimo sulla palla, “ciabattandola”, rendendo facile la respinta di Di Gregorio.
“Seeds to sow, things to know, life’s a gift.
And still…I want more.”
Il rimpianto è legittimo, quasi necessario.
Perché questa partita si poteva vincere, e pure con poco sforzo.
Ma proprio questo è il segno di maturità: sapere di aver lasciato qualcosa per strada e, invece di disperarsi, usarlo come misura della propria crescita. Questo Milan non vive più di fiammate o miracoli: è una squadra compatta, quadrata, difficilissima da scalfire. È giusto volere di più. È giusto lamentarsi.
Ma farlo da questa posizione, a un anno esatto da quando non sapevamo nemmeno da dove ricominciare, significa aver già vinto una parte invisibile del gioco.
Lamentarsi di non essere primi, oggi, è la prova più limpida che il momento vale la pena di essere vissuto.
E che quella voce, dentro e fuori dal campo, continua a sussurrare la cosa più vera di tutte:
“I want more.”