16/05/2025
C’è chi dice che questo sia un libro rivoluzionario, femminista, quando in realtà di rivoluzionario non ha proprio nulla. Kim Ji-Young è una bambina, ragazza e donna come tante altre; a volte preferisce trattenere la lingua, ingoiare il disagio e andare avanti perché “questo è quello che fanno tutte”. Tentare di cambiare le cose è così difficile che, non potendo partecipare lei stessa, inizia ad impersonare altre donne nella sua vita e rivelare il suo io interiore attraverso di loro. La sua amica dell’università la spinge a non tirarsi indietro con un ragazzo che le piace, mentre la madre esorta i parenti del marito a lasciarla tornare a trovarla più spesso.
Anche quando si tratta di affrontare decisioni importanti come lasciare il lavoro per dedicarsi alla bambina in arrivo, Kim Ji-Young sprofonda in una sorta di apatia, consolandosi con il pensiero che “prima o poi questo momento sarebbe dovuto arrivare” perché per tutta la vita nessuno le ha proposto una strada alternativa.
Dice più volte dopo esperienze vissute almeno una volta da qualsiasi ragazza che io abbia mai conosciuto (anche in Italia), come cat-calling, molestie sui mezzi pubblici, e commenti inappropriati al lavoro, che “non si fiderà mai più di un uomo”. Allora perché si sposa, lascia il lavoro e partorisce una bambina? Kim Ji-Young non ha mai visto via d’uscita in un sistema che l’ha sempre classificata come un essere umano di seconda classe fin da quando da piccola di tutto ciò che aveva, il doppio andava al fratello minore solo perché era un maschio.
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