11/11/2025
In libreria da domani
Il male è di famiglia
di Walter Mosley
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Nella corsa in taxi verso Downtown scivolai in una fantasticheria sui miei genitori: Tolstoj, l’autoproclamato sindacalista e rivoluzionario comunista radicale, e Lena, la pia donna di Harlem che amava il marito più di quanto avrebbe mai immaginato qualsiasi paroliere jazz. Lui se la svignò per unirsi a una brigata cubana in Sudamerica subito dopo il mio dodicesimo compleanno, lasciandomi senza padre e praticamente senza madre, dato che Lena fu costretta a letto e morì di lì a poco. Fu l’unica prova che mi fosse mai servita che una persona poteva morire di crepacuore.
Fu così che ebbe inizio il mio lungo e travagliato rapporto con le varie branche amministrative di New York, compreso il dipartimento di polizia. Mi davo continuamente alla fuga dalle case adottive, mi cacciavo nelle risse e facevo lavoretti per criminali da strapazzo. Entravo e uscivo dai riformatori. I miei genitori adottivi non erano cattive persone. Molti di loro, suppongo, mi volevano bene sul serio. Ma mio padre aveva addestrato alla vita rivoluzionaria me e Nikita, mio fratello minore, fin da quando avevamo iniziato a gattonare. Io odiavo Tolstoj, ma al tempo stesso era il mio eroe, per cui avevo ben poco a che spartire coi parrocchiani piccoloborghesi che cercavano di instradarmi sulla retta via.
Finché, un giorno, mi imbattei nella Gordo’s Gym. Lui aveva appena passato i quaranta ma sembrava già vecchio, grinzoso. Mi infilò i guantoni e mi buttò sul ring contro un ragazzo più grande e più esperto. Persi il round ma non mi tirai indietro nemmeno un secondo, così Gordo divenne il mio allenatore, per sette anni.
Forse se avessi fatto più attenzione a Gordo, se mi fossi lasciato guidare dalla sua mano, non avrei preso l’addestramento rivoluzionario di mio padre per trasformarlo in lavoro a cottimo per la mafia. Ma non potevo restare sulla bicicletta della boxe: non c’erano strade, e nemmeno sentieri, che conducessero alla mia destinazione.