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La pizza napoletana, la storia del piatto più famoso al mondoLa Redazione:La pizza napoletana è probabilmente il piatto ...
14/12/2025

La pizza napoletana, la storia del piatto più famoso al mondo
La Redazione:
La pizza napoletana è probabilmente il piatto più famoso al mondo. Le prime notizie vanno fatte risalire al 1700, notizie che abbiamo ricevuto dalle relazioni della Redazione sulle abitudini alimentari dei napoletani. Un testo scritto a metà del XVIII secolo. Dal trattato del Corrado si evince dell’abitudine dei napoletani di associare alla pizza i maccheroni ed il pomodoro. Rispetto alle focacce, altra pietanza presente un po’ in tutta Italia, ma oseremo dire in tutta Europa, la pizza napoletana si distinse sin dalle sue origini, sia per la forma, che per le modalità di cottura. L’originalità del piatto gli valse da subito grande successo, così da fargli valere nel corso degli anni e poi dei secoli, una fama sempre crescente; sino ad arrivare ad oggi, dove la pizza napoletana è considerato il piatto più famoso e più richiesto al mondo.

Ma esiste un solo tipo di pizza napoletana?

La pizza napoletana: differenze tra la pizza nel rutiello e la pizza tonda

La pizza napoletana in realtà ha almeno due nobili varianti, entrambe ricche di storia e di tradizione. La peculiarità della pizza è data anzitutto dal tipo di impasto : la farina deve essere quella usata proprio per fare il pane, ossia farina di grano tenero ‘00’. Per quanto concerne la pizza tonda, l’impasto è steso a mano, l’operazione della stesura forma il tipico cornicione, cioè la parte esterna della pizza di uno spessore massimo di 2cm, il suo tempo di cottura è di massimo 2 minuti,ad una temperatura di circa 450°.

La pizza nel rutiello invece segue una diversa modalità di cottura. La caratteristica peculiare di questo tipo di pizza è che l’impasto non viene steso sulla superficie del forno, ma viene inserito in un ruoto, il quale può essere di alluminio o di rame, e la pizza viene cotta ad una temperatura mediamente più bassa di quella stesa a mano. L’impasto però è più consistente: il panetto di una pizza tonda tendenzialmente è di circa 250 grammi, quello di una pizza nel rutiello invece è di 300 grammi. In ogni caso state certi che si tratta di una vera goduria per il palato!

Dove mangiare la pizza nel rutiello: oggi rappresente un punto di riferimento in campania sulla lo innamorato degli impasti si diverte a scoprire sempre nuove livitazioni da farle degustare ai suoi clienti.
Se volete assaggiare la vera pizza nel rutiello, non potete che recarvi alla Tenuta del Re. La Tenuta del Re é situata a Montoro su una zona collinare unica per la sua veduta.Lazzaro seleziona personalmente tutti i pridotti per garantire il massimo della qualità e della genuinità : dalla farina al pomodoro, dall’olio alla mozzarella. Insomma, la pizza nel rutiello vi aspetta, non mancate all’appuntamento con una delle più importanti tradizioni culinarie napoletane. La Tenuta del Re vi aspetta a Montoro in privincia di Avellino...

        Anna Dello Russo (Bari, 16 aprile 1962) è una giornalista italiana, ex direttrice creativa di Vogue Japan dal 20...
14/12/2025


Anna Dello Russo (Bari, 16 aprile 1962) è una giornalista italiana, ex direttrice creativa di Vogue Japan dal 2006[1][2].

Anna Dello Russo
Considerata un'icona nel suo campo,[3] è stata descritta dal fotografo tedesco Helmut Newton come «maniaca della moda».[4]

Si laurea in Arte e Letteratura a Bari, frequentando in seguito la Domus Academy di Milano dove nel 1986 consegue un master universitario in Design della moda.[5] Entra nel mondo della moda lavorando per la rivista Donna, dove conosce Annalisa Milella di Vogue Italia, che la introduce poi nella sua redazione. Successivamente lavora diciotto anni presso la Condé Nast Italia come redattrice moda per Vogue Italia e poi, dal 2000 al 2006, come direttrice di L'Uomo Vogue[6]. Nel 2006 si trasferisce quindi in Giappone per lavorare con Vogue Japan nel ruolo di direttrice creativa.[7]

Nel novembre 2010 realizza un profumo chiamato Beyond, la cui bottiglia ha la forma di una scarpa da donna.

Nel 2011 inizia a collaborare al programma radiofonico Pinocchio, in onda su Radio Deejay, con una rubrica fissa.[8][9]

Nell'ottobre 2012 presenta una collezione di accessori femminili in collaborazione con la catena di negozi di abbigliamento H&M[10]. Tra i pezzi da lei disegnati compaiono bigiotteria, clutch, occhiali da sole, scarpe, una veletta e un trolley[11]. Per l'anteprima promozionale è stato diffuso un video musicale diretto da Alex Turvey in cui Anna canta Fashion Shower, canzone originale prodotta da Emiliano Pepe, già nota in versione più corta e con diverso remix come sigla dei suoi interventi al sopraccitato programma radiofonico Pinocchio.[8]

Nel 2017 Anna Dello Russo entra anche a far parte della compagnia Rosewood Hotels & Resorts in qualità di curatrice e consulente di stile.[12]

Nel 2023 entra a far parte della giuria in una puntata della terza edizione di Drag Race Italia[13].

Nel febbraio 2024 è tra le opinioniste fisse della trasmissione Dopofestival.

      di:Michele De Maio "Ce ne andiamo in Serie B": che festa ad Avellino!sportweekBiancolino: "Facevo il barista, per ...
15/11/2025


di:Michele De Maio
"Ce ne andiamo in Serie B": che festa ad Avellino!
sportweek

Biancolino: "Facevo il barista, per amore quasi smisi di giocare. Mi chiamano pitone perché..."

L'unica bandiera in panchina sta ad Avellino, dove allena un uomo che ha centrato 4 promozioni in campo e una in panchina: “Quando venivo da avversario pioveva sempre e mi chiedevo questi come facessero, poi questa maglia mi ha dato qualcosa di speciale. Capii grazie a Novellino che potevo allenare, quando mi hanno chiamato di notte al presidente ho detto solo una cosa...”

Ad Avellino c’è qualcosa di romantico che altrove non vedi. Raffaele Biancolino è l’unico allenatore che è stato anche bandiera in campo della squadra che allena. Di ex scorrendo le liste ne trovate tanti, vero: Chivu ha giocato e vinto con l’Inter, Pisacane ha lottato per il Cagliari, Fabregas ha chiuso la carriera a Como, ma da qui a definirli bandiere ce ne corre. Biancolino è il secondo marcatore della storia biancoverde, ha guidato l’Avellino a quattro promozioni dalla C alla B da attaccante e ha fatto lo stesso l’anno scorso da allenatore. Sarebbero sei salti di categoria, se se ne conta anche uno da tecnico della Primavera. Dietro c’è una storia viscerale, a volte litigarella, scritta con la penna dell’amore.

Partiamo dall’inizio: come nasce Biancolino?

“Napoli, quartiere Capodichino, rione Amicizia. Al centro una chiesa, davanti un campo da calcetto dove praticamente facevo le notti bianche perché chi prima arrivava se lo prendeva. Poi mi prese una scuola calcio a San Giovanni a Teduccio, intanto studiavo e lavoravo: barista, consegnavo le casse d’acqua, volevo guadagnare per non chiedere ‘la settimana’ a mio padre. A scuola calcio provavano a farmi fare il terzino, ma ogni volta che giocavo davanti facevo gol e quindi si rassegnarono: Biancolino è un centravanti. Niente giovanili, a 16 anni ero nel Giugliano in D, dopo un anno mi vide l’Atalanta che mi mandò al Leffe: due montagne, tre case in mezzo, in una c’eravamo io e Ignoffo (ex difensore di Napoli e Palermo, ndr). Esordii tra i professionisti, poi arrivò l’amore...”.

E cosa fece l’amore?

“Mi fece smettere. Avevo 17 anni, lei si chiamava Mery, era del mio quartiere e la lontananza si sentiva. A un certo punto dissi: non gioco più, torno a Napoli. Mio padre soffriva, voleva sapere chi era questa ragazza, le telefonò e le fece: ‘Parlaci tu’. Così tornai a giocare, ad Anagni, più vicino a casa. Lì iniziò l’avventura”.

Biancolino, detto ‘il pitone’.

“Mio fratello a Napoli aveva un’iguana e un giorno mi chiese di accompagnarlo a prendere il mangime. Il proprietario del negozio mi fece: ‘Hai mai visto come mangia un pitone?’. ‘No’. Gli mise un coniglio nella teca e quello se lo mangiò. Appena lo vidi, dissi: ‘Fermi tutti, lo voglio’. Davanti casa mia si fece la fila: tutti volevano vederlo. Un giorno lo portai in spogliatoio, lo misi nella cesta dei panni sporchi e chiesi al magazziniere se gentilmente mi lavava le maglie. Lui prese la cesta, il serpente sbucò e mi ricordo ancora il salto che fece. Un giornalista della Gazzetta venne a sapere la storia e la scrisse. Da allora sono ‘Il pitone’".

Le storie d’amore iniziano sempre con qualcosa di strano che si conclude con un bacio.

“Gioco al Chieti, all’andata faccio gol all’Avellino, al ritorno in Irpinia gli avversari in campo mi bisbigliano: ‘Vai piano, ci servi, dobbiamo vincere il campionato’. ‘Voi, io no’, rispondo. E loro, su tutti Voria che mi marcava: ‘Tu vieni a giocare qua, lo sanno tutti’. Boh, perdiamo, faccio la doccia e uno mi chiama: ‘Casillo, il presidente dell’Avellino, ti vuole parlare’. Entro in una stanza e trovo le due dirigenze al completo col contratto in mano, avevano fatto tutto e solo io non lo sapevo”.

Biancolino, 479 partite e 179 gol in carriera mai oltre la B. Rimpianti?

“Sì, non aver dato a mio padre la soddisfazione di vedermi in Serie A. Ci sono andato vicinissimo, a un certo punto era fatta col Cagliari ma all’improvviso spensero il telefono. E io firmai al volo col Messina sul banco del check-in dell’aeroporto di Catania, con la gente dietro che protestava”.

In compenso però ha trovato una storia d’amore calcistica con pochi eguali.

“E all’inizio non c’era nemmeno tutto ’sto amore, quando venivo ad Avellino da avversario pioveva sempre e mi dicevo: ‘Ma come fanno?’. Però era una piazza che aveva fatto la Serie A, potevo mettermi in luce. Poi quando ho messo quella maglia ho provato qualcosa di speciale, l’ho sentita subito mia. Lei mi ha dato tanto, io ho dato tanto a lei. Sono orgoglioso di essere napoletano, ma guai a chi tocca Avellino”.

Biancolino ad Avellino è arrivato, se n’è andato, è tornato, se n’è riandato...

“Significa che è amore vero. Come con una fidanzata, può capitare che ci litighi o che fai una sciocchezza di una sera, ma sai pure che dall’altra parte c’è la tua vita, un pezzo di cuore. A un certo punto a Messina eravamo terzi, in hotel durante una trasferta a Mantova chiamai il presidente dell’Avellino: ‘Mi fai tornare?’. E lui: ‘Sei pazzo? Ti stai giocando il campionato’. ‘Sì, ma qua non mi trovo’. Non ne ho mai fatto una questione di soldi, ma di amore. Tornai anche due anni dopo ad Avellino: ero capitano del Venezia in B e scesi in C, solo un pazzo l’avrebbe fatto. Dovevo riportare la squadra dove l’avevo lasciata”.

Cosa comporta allenare una squadra di cui sei stato bandiera?

“Responsabilità, soprattutto: qui conosco generazioni intere di tifosi, non voglio illuderli né deluderli. Ma sono responsabilità che mi caricano, mi spingono a trasmettere il senso di appartenenza ai ragazzi che alleno. Ricordo ancora come mi sentivo durante una retrocessione quando ero in tribuna infortunato: ‘Se devo andare giù voglio farlo in campo, quella è roba mia’, pensavo”.

Ad Avellino nel 2018 ha anche sventato un femminicidio, bloccando un uomo che stava colpendo a martellate la sua ex compagna.

“In quel momento c’è poco da pensare. Sono fatto così, se c’è una persona in difficoltà la difendo”.

Come nasce Biancolino allenatore?

”Ero il club manager all’Avellino ma mi facevo vedere poco dalla squadra, pensavo di essere ingombrante. Un giorno mister Novellino davanti al presidente fa: ‘Ma lui perché rimane in tribuna? È un uomo di campo, deve stare con noi’. Avevo il compito di vedere gli avversari per fargli una relazione. Scrivevo pregi, difetti e osservazioni su un foglio e glielo davo. Lui se lo metteva in tasca, e vedevo che lo tirava fuori durante la riunione tecnica e dava le indicazioni mie. Voleva dire che si fidava, lì ho iniziato a pensarmi allenatore”.

Una notte l’Avellino esonera Pazienza e al suo posto mette lei, allenatore della Primavera. Traghettatore, si diceva.

“Quella notte al presidente chiesi una cosa sola: ‘Non voglio fare la velina, datemi almeno 2-3 partite’. E lui me le diede. Era l’occasione che avevo sempre sognato. Non ero e non sarò mai contento per l’esonero di un collega, ma da mesi vedevo quei ragazzi e prendevo appunti. Lo facevo inconsciamente, per non farmi trovare impreparato, così sapevo dove intervenire”.

Cos’ha Biancolino allenatore del Biancolino calciatore?

“Il rapporto coi giocatori. Devi essere chiaro e sincero, lo so perché qualcuno con me non lo è stato, e poi certe crepe si allargano a tutto lo spogliatoio. Ai miei dico sempre: non vi farò mai niente di quello che a me ha fatto male. Preferisco litigare, ma non colpirti alle spalle”.

I suoi maestri?

“Da ogni allenatore ho imparato qualcosa: da Zeman l’aggressività, da Sarri la tattica, da Galderisi la gestione del gruppo, da Vavassori le responsabilità da dare in campo... Metto insieme tutto col mio carattere, non mi accontento mai e voglio che i miei non si accontentino”.

Il rito di Biancolino: prima e dopo ogni partita bacia un braccialetto.

“La Madonna di Montevergine. Sono devoto, prima dell’esordio in panchina sono salito in pellegrinaggio al Santuario. Le grazie vere che fa la Madonna sono altre, questo è lavoro, ma da allora non smetterò mai di ringraziarla”.

Con Mery quest’estate avete festeggiato le nozze d’argento.

“Siamo fatti l’uno per l’altra. Abbiamo tre figli, due studiano a New York e il terzo gioca nelle giovanili dell’Avellino. Centravanti

13/11/2025

    di: Michele De Maio Nobu Hotel, quanto costa una notte nell'albergo di Robert De Niro a Roma? Camere da 995 euro: i ...
13/11/2025


di: Michele De Maio
Nobu Hotel, quanto costa una notte nell'albergo di Robert De Niro a Roma? Camere da 995 euro: i prezzi
Si chiama Nobu Hotel l'albergo recentemente aperto da Robert De Niro a Roma, il primo della catena in Italia. La struttura si trova in via Veneto, la «via della Dolce Vita» come lo stesso attore ha tenuto a ricordare, e punta a diventare un punto di riferimento nel settore dell'ospitalità di lusso nella Capitale. Un'esperienza non per tutti i portafogli, ma che ha attirato l'attenzione di tanti curiosi (anche) grazie al nome di De Niro a all'intramontabile fascino di una delle location più iconiche di Roma.
Cos'è il Nobu Hotel
Robert De Niro è comproprietario della catena insieme a due soci, chef Nobu Matsuhisa e Meir Teper. Nell'hotel minimalismo giapponese ed eleganza italiana si incontrano, dando vita a un'atmosfera unica nel suo genere fra linee essenziali, materiali naturali e luci soffuse. La location, come detto, non è casuale: quella via Veneto che evoca la Dolce Vita felliniana tanto cara a De Niro, uno dei luoghi preferiti dell'attore hollywoodiano in Italia.

La struttura si trova al numero 155, dove sorgeva il Grand Hotel Via Veneto, dopo una ristrutturazione da 135 milioni di euro affidata allo studio di architettura Rockwell Group.
Il Nobu Hotel Rome è composto da e 117 camere e suite, pensate come spazi di equilibrio e bellezza, dove il design contemporaneo incontra dettagli ispirati alla cultura giapponese.

Ma la struttura può offrire un'esperienza addirittura superiore: la Nobu Villa, un appartamento panoramico con tre camere da letto e una terrazza affacciata su via Veneto, ideale per chi desidera privacy assoluta e una vista privilegiata sulla città.
Quanto costa una notte
Le tariffe del Nobu Hotel Rome partono da circa 995 euro a notte per una camera doppia standard. Le camere Deluxe, più ampie e curate nei minimi dettagli, superano facilmente la soglia dei mille euro e si distinguono per l'uso di materiali pregiati, bagni in marmo di Carrara e vasche da bagno di grandi dimensioni.

Il vertice del lusso è rappresentato dalla Sakura Suite, una soluzione che unisce eleganza e comfort in un ambiente ispirato al fiore di ciliegio giapponese. Con il suo salotto indipendente e la vista su via Sicilia, questa suite porta il prezzo del soggiorno a oltre 2.200 euro a notte, collocando il Nobu Hotel tra gli indirizzi più esclusivi della Capitale.
Gli altri servizi
Ma l’esperienza non si limita alla camera. L'intero edificio è stato pensato come un'oasi di relax e riservatezza, in perfetta sintonia con lo stile raffinato del brand.

A completare l'offerta, il celebre ristorante Nobu, fiore all'occhiello del gruppo fondato dallo chef Nobu Matsuhisa insieme a Robert De Niro. Qui è possibile gustare la celebre cucina fusion giapponese-peruviana, con piatti iconici come il merluzzo nero in salsa miso, lo stesso che decenni fa conquistò l’attore newyorkese e diede origine alla loro lunga collaborazione.

L'hotel dispone inoltre di una spa di alto livello, spazi per eventi privati e di un servizio concierge dedicato a una clientela internazionale, abituata a standard di comfort e discrezione tra i più elevati al mondo.

      La Redazione: Massimo Boldi ci racconta:“Berlusconi prese male la mia decisione, mi massacrò fino a pignorarmi tut...
13/11/2025


La Redazione: Massimo Boldi ci racconta:
“Berlusconi prese male la mia decisione, mi massacrò fino a pignorarmi tutto. Poi si ricredette e mi regalò due miliardi e mezzo di lire”: parla Massimo Boldi
L'attore si è raccontato in una lunga intervista al settimanale Gente: "Devo tutto a Bettino Craxi..."

Suonava le canzoni dei Beatles nelle balere assieme a Claudio Lippi, in una band chiamata La Pattuglia Azzurra. Poi, per lui arrivò il Derby di Milano. Di chi siamo parlando? Di Massimo Boldi che si è raccontato in una lunga intervista al settimanale Gente e proprio a proposito del famosissimo locale meneghino in cui si sono “formati Diego Abatantuono, Teo Teocoli e tanti altri”, l’attore racconta che di lì passavano anche “i politici come Bettino Craxi: io gli devo tutto. Appassionato di cabaret, quando era assessore a Milano veniva a vedermi al Derby. Una sera del 1977 mi fece esibire a casa sua, in via Foppa. C’erano Ornella Vanoni, Renato Pozzetto, Lino Patruno, Caterina Caselli con il marito Piero Sugar. Alla fine della cena Bettino mi presentò uno degli ospiti: ‘Questo signore farà una televisione e tu lavorerai con lui’. Era Silvio Berlusconi, che l’anno seguente lanciò Telemilano 58, da cui sarebbe nato Canale 5″.
E Berlusconi per un lungo periodo fu prima di tutto fan di Boldi (“Io lo deliziavo perché parlavo in lissonese… Si ricordava a memoria tutti gli sketch del mio primo personaggio di successo al Derby: Fidelio Cam”), almeno fino a quanto l’attore non decise di andare in Rai per Fantastico: “La prese male, e aveva ragione… mi massacrò fino a pignorarmi tutto. Per fortuna si ricredette e un giorno mi disse: ‘Due miliardi e mezzo di lire te li regalo, gli altri (soldi che Boldi doveva a Berlusconi) invece me li ridai firmando con me un nuovo contratto e per ogni giorno passato in azienda ti conteggio dieci milioni di lire. Fu la mia salvezza”.
Ma nella lunga intervista c’è modo anche di parlare dell’amore per la moglie Marisa, scomparsa nel 2004: “Credo che la mia vita sia piena di vite: Marisa fa parte di una di queste, la più importante”. E l’attore racconta di averla conosciuta a Milano, in via Procaccini dove la sua famiglia aveva una latteria: “Mangiava in un angolo del nostro locale. Era taciturna la Marisa ma io, lentamente e con la mia simpatia, sono riuscito ad avvicinarla e anche a conquistarla… Le offrivo di accompagnarla sempre a casa a Rozzano, una città alle porte di Milano. Fin quando un giorno il papà di Marisa mi invita a entrare…”.

      di:Michele De Maio Nobu apre a Roma, i look dell'inagurazione: Alessia Marcuzzi stilosa (8), Elena Santarelli anim...
13/11/2025


di:Michele De Maio
Nobu apre a Roma, i look dell'inagurazione: Alessia Marcuzzi stilosa (8), Elena Santarelli animalier (7,5), De Niro a cena con Veronesi
La "dolce vita" riaccende via Veneto a Roma. L'occasione è l'inaugurazione del primo Nobu hotel & restaurant d'Italia. E per la sua presentazione è sbarcato nella Capitale proprio Robert De Niro, proprietario della catena di ristoranti e alberghi di lusso lanciata nel 1994 con lo chef giapponese Nobu Matsuhisa e il produttore cinematografico Meir Teper. Strada chiuso al traffico e parata di star. L'investimento da 135 milioni di euro ha portato a un completo restyling degli interni del complesso dei due palazzi ottocenteschi, - realizzato da Rockwell Group - che ospiterà 117 tra camere e suite, il rooftop, la spa e il ristorante tutti realizzati secondo l'estetica minimalista nipponica.
La regina di stile non delude mai. A dimostrazione che less is more (meno è meglio), la conduttrice si presenta con un abito nero alla caviglia, decollete dello stesso colore e per dare un tocco di orginalità accompagna il suo look con un cappotto kimono color tortora e una clutch coloro ciliegia della sua collezione.
Elena punto tutto sulle due tendenze di stagione: il completo giacca e minigonna color cioccolato e l'animalier. Il look di Parosh è grintoso ed esalta il suo fisico perfetto.
Il ballerino vincitore dell'undicesima edizione di Amici, oggi è un'artista internazionale che si esibisce sui palchi più famosi del mondo: da Taylor Swift a Kylie Minogue e Jennifer Lopez. Nella sua tappa romana non poteva mancare all'inaugurazione di Nobu dove ha sfoggiato un look burgundy: pantalone e t-shirt e giacca di pelle tono su tono. Super trendy.
Robert De Niro divo (9)
Il padrone di casa, Robert De Niro, è apparsao in splendida forma dall'alto dei suoi 82 anni e 7 figli. De Niro è arrivato sul piccolo palco allestito di fronte all'hotel alle 20, introdotto da colpi di tamburo e accolto da un boato, con qualche residente che si è affacciato dalla finestra. Poco dopo, insieme ai due soci, ha dato inizio alla "Kagami Biraki", una cerimonia che si ripete ad ogni apertura targata Nobu e che consiste nella rottura di una vecchia botte di sake per un brindisi di buona fortuna. Dopo i ringraziamenti, la star di Hollywood è rientrata in albergo per un party blindatissimo e ha cenato nel privè, accanto al regista Giovanni Verones

 #    la Redazione «Ci guardavano come una barzelletta… oggi il nostro nome è sinonimo di lusso.»Io ero Domenico Dolce, ...
04/11/2025

#
la Redazione
«Ci guardavano come una barzelletta… oggi il nostro nome è sinonimo di lusso.»

Io ero Domenico Dolce, figlio di un sarto siciliano.
Sono nato tra fili, aghi e forbici, ma senza un soldo in tasca.
Mentre i miei coetanei sognavano di diventare calciatori, io volevo solo una cosa: che il nome di mio padre non morisse tra le macchine da cucire.

La sartoria mi salvò dalla fame, ma anche dall’orgoglio ferito.
Tutti ridevano: “È un lavoro da donne”, dicevano.
Ma mentre ridevano, io imparavo a cucire meglio di chiunque altro.
Ogni punto era una promessa. Ogni tessuto, un riscatto. ✂️🧵

Poi arrivò Stefano.
Diverso da me, milanese, visionario, caotico.
Insieme cominciammo in un piccolo appartamento preso in prestito, usando lenzuola vecchie come stoffa.
Scrivevamo lettere, spedivamo bozzetti, bussavamo a tutte le porte.
Nessuno rispondeva.

Una volta vendemmo i mobili per pagare un défilé.
Quel giorno mancò pure la luce.
Un disastro totale.
Eppure, in quell’oscurità, giurammo che un giorno avremmo brillato. 💡

Ci dissero che non eravamo “eleganti”.
Che non eravamo “italiani”.
Che la moda non era per due ragazzi con accenti diversi e idee troppo grandi.
Ma non ci fermammo.
Andavamo alle feste indossando i nostri abiti, solo per farci notare.
E un giorno accadde: una celebrità indossò un nostro vestito.
E il mondo cominciò a pronunciare il nostro nome.

Dolce & Gabbana.

Nessuno sapeva che dietro quelle cuciture c’erano notti senza cena, mani tagliate, lacrime nascoste sul rovescio dei tessuti.

Oggi vedo le nostre boutique a Parigi, New York, Tokyo…
e penso a quel piccolo laboratorio in Sicilia dove tutto è cominciato.
A due ragazzi che non avevano nulla — tranne un sogno cucito addosso.

Perché se vuoi rischiare tutto per un sogno,
assicurati che sia uno che non ti lasci dormire.
Solo così potrai cucire il tuo nome nella storia. 🖤

— Domenico Dolce & Stefano Gabbana

      di:La RedazioneIn Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servo...
02/11/2025


di:La Redazione
In Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servono formazione e progettualità”
Dopo l’inchiesta di Italia a Tavola sui 21mila bar chiusi in dieci anni, il presidente provinciale FIPE Confcommercio riflette sul futuro degli esercizi pubblici: “Il nostro settore crea socialità e valore, ma va gestito con competenza”
Provincia. In Italia chiudono circa 6 bar al giorno (oltre 21mila bar in dieci anni). Quasi la metà non supera i cinque anni di vita. Numeri che Italia a Tavola ha messo nero su bianco in una recente inchiesta (“Il futuro del bar italiano”) e che raccontano una crisi profonda, che va oltre le bollette e i rincari.
Un allarme che trova eco anche nel savonese, dove molti locali storici faticano a resistere e le nuove aperture spesso durano lo spazio di una stagione.
Ne abbiamo parlato con Carlomaria Balzola, presidente provinciale di FIPE Confcommercio e titolare dell’omonima e storica caffetteria alassina. Con lui proviamo a capire quanto di quella “crisi culturale” denunciata a livello nazionale si respiri anche tra le vie e le piazze della Riviera.

Oltre i rincari
In Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servono formazione e progettualità”
Dopo l’inchiesta di Italia a Tavola sui 21mila bar chiusi in dieci anni, il presidente provinciale FIPE Confcommercio riflette sul futuro degli esercizi pubblici: “Il nostro settore crea socialità e valore, ma va gestito con
Provincia. In Italia chiudono circa 6 bar al giorno (oltre 21mila bar in dieci anni). Quasi la metà non supera i cinque anni di vita. Numeri che Italia a Tavola ha messo nero su bianco in una recente inchiesta (“Il futuro del bar italiano”) e che raccontano una crisi profonda, che va oltre le bollette e i rincari.

ASCOLTA “LA TELEFONATA” CON CARLOMARIA BALZOLA

Un allarme che trova eco anche nel savonese, dove molti locali storici faticano a resistere e le nuove aperture spesso durano lo spazio di una stagione.

Ne abbiamo parlato con Carlomaria Balzola, presidente provinciale di FIPE Confcommercio e titolare dell’omonima e storica caffetteria alassina. Con lui proviamo a capire quanto di quella “crisi culturale” denunciata a livello nazionale si respiri anche tra le vie e le piazze della Riviera.

Presidente, l’inchiesta di “Italia a Tavola” parla di una crisi “culturale” del bar italiano, più che economica. Lei la riconosce anche nel savonese?
L’aspetto positivo è che il settore dei servizi, e in particolare quello della ristorazione, resta molto appetibile. Parliamo di un comparto con margini lordi del 40-60% e un aumento del valore aggiunto del 8,3% nel 2024: è un settore in crescita. Tuttavia condivido l’idea che serva tornare a una visione più “culturale” del bar, non solo economica. Il bar non è solo caffè: è servizio, qualità, formazione, accoglienza. Purtroppo oggi tanti entrano nel settore attratti dalla redditività, senza avere competenze o visione. Bisogna cambiare approccio: non più solo numeri e costi, ma organizzazione qualitativa e cultura del mestiere. Solo così il bar può tornare ad essere un punto di riferimento sociale e non un semplice esercizio commerciale.

Nella nostra provincia, quante attività hanno abbassato la serranda negli ultimi anni? C’è un fenomeno simile ai dati nazionali (47% di chiusure entro cinque anni)?
�La situazione savonese riflette quella nazionale. Le liberalizzazioni hanno portato molta libertà di apertura, ma anche una certa confusione. Oggi chiunque può aprire un bar: basta trovare un locale adatto e spesso, grazie ai comodati d’uso, l’investimento iniziale è minimo. Questo ha creato una saturazione di mercato evidente. Dove una volta c’erano due bar che lavoravano bene, oggi ce ne sono quattro, e inevitabilmente uno o due chiudono. È un ciclo continuo di aperture e chiusure, segno che manca una pianificazione di lungo periodo.

L’inchiesta denuncia che “chiunque può aprire un bar”, grazie ai pacchetti chiavi in mano offerti dalle torrefazioni. È così anche qui? Quanto pesa il sistema dei comodati d’uso nel savonese?
�È una realtà anche da noi. Il comodato d’uso permette di partire con spese minime, ma questo spesso porta a un’idea sbagliata del mestiere. Aprire un bar non può essere una scelta “rapida”, deve essere una progettualità di lungo periodo. Chi entra nel settore deve ragionare con una prospettiva di almeno 7-8 anni, con un piano economico solido e una visione di sviluppo. Troppe volte si apre senza competenze e si chiude poco dopo. La formazione e una corretta analisi di mercato sono indispensabili, perché le tendenze cambiano in fretta e ciò che funzionava un anno fa oggi può non avere più mercato.

La facilità con cui si apre un locale senza competenze ha influito sul livello medio della qualità del caffè e del servizio nella nostra provincia?
�Sì, inevitabilmente. Quando si entra in un settore solo per calcolo economico, la qualità tende a risentirne. Gestire i costi, adattarsi alle tendenze e mantenere alta la qualità dell’offerta sono elementi che vanno di pari passo. La qualità paga sempre, indipendentemente dal tipo di locale o dal target di clientela. È la qualità che fa la differenza e che fidelizza il cliente nel tempo.

FIPE Confcommercio cosa può fare, o sta già facendo, per restituire valore e professionalità a questo mestiere?
�Il nostro impegno è su più fronti: promuoviamo la formazione e il confronto tra operatori, ma serve anche un cambio di mentalità collettivo. Non basta formare chi sta dietro al bancone: anche il consumatore deve essere “educato” alla qualità. Pensiamo a quanto è cambiato il mondo del vino: fino a qualche anno fa sembrava tutto uguale, oggi il pubblico riconosce le differenze e sa apprezzare la qualità. Lo stesso deve avvenire per il caffè. Il cliente medio magari non distingue ancora un’arabica da una robusta, ma comincia a percepire il valore di un prodotto curato e ben servito. È un passo culturale importante.

Oltre alla parte datoriale, è cambiato qualcosa anche dall’altra parte del bancone? C’è un cambiamento nella domanda? Le persone chiedono qualità o cercano solo prezzo e velocità?
�Il consumatore oggi è più consapevole, ma purtroppo in Italia continuiamo a sottovalutare il valore del caffè. Un espresso a 1,50 euro viene percepito come “caro”, mentre all’estero un’arabica in autogrill costa tranquillamente 1,80 o 2 euro. Dobbiamo difendere l’italianità del nostro rito quotidiano, che è un vero e proprio “rito laico”. Il bar italiano è un presidio sociale e culturale, non solo un luogo dove si beve in fretta e si va via. Serve un’offerta coerente con questa identità.

Se dovesse dare un consiglio a un giovane savonese che sogna di aprire un bar, quale sarebbe la prima cosa da imparare prima di firmare un contratto con una torrefazione?
�Gli direi di studiare, formarsi e soprattutto di costruire una progettualità. Il nostro settore crea economia e socialità, ma va affrontato con consapevolezza. Bisogna imparare a leggere i numeri, capire i costi, conoscere i prodotti e soprattutto avere una visione di lungo periodo. Aprire un bar significa entrare in un mondo complesso ma pieno di opportunità: chi lo fa con serietà e qualità, trova sempre spazio.

Indirizzo

Viale A. Gramsci
Montoro
83025

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