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 #    la Redazione «Ci guardavano come una barzelletta… oggi il nostro nome è sinonimo di lusso.»Io ero Domenico Dolce, ...
04/11/2025

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la Redazione
«Ci guardavano come una barzelletta… oggi il nostro nome è sinonimo di lusso.»

Io ero Domenico Dolce, figlio di un sarto siciliano.
Sono nato tra fili, aghi e forbici, ma senza un soldo in tasca.
Mentre i miei coetanei sognavano di diventare calciatori, io volevo solo una cosa: che il nome di mio padre non morisse tra le macchine da cucire.

La sartoria mi salvò dalla fame, ma anche dall’orgoglio ferito.
Tutti ridevano: “È un lavoro da donne”, dicevano.
Ma mentre ridevano, io imparavo a cucire meglio di chiunque altro.
Ogni punto era una promessa. Ogni tessuto, un riscatto. ✂️🧵

Poi arrivò Stefano.
Diverso da me, milanese, visionario, caotico.
Insieme cominciammo in un piccolo appartamento preso in prestito, usando lenzuola vecchie come stoffa.
Scrivevamo lettere, spedivamo bozzetti, bussavamo a tutte le porte.
Nessuno rispondeva.

Una volta vendemmo i mobili per pagare un défilé.
Quel giorno mancò pure la luce.
Un disastro totale.
Eppure, in quell’oscurità, giurammo che un giorno avremmo brillato. 💡

Ci dissero che non eravamo “eleganti”.
Che non eravamo “italiani”.
Che la moda non era per due ragazzi con accenti diversi e idee troppo grandi.
Ma non ci fermammo.
Andavamo alle feste indossando i nostri abiti, solo per farci notare.
E un giorno accadde: una celebrità indossò un nostro vestito.
E il mondo cominciò a pronunciare il nostro nome.

Dolce & Gabbana.

Nessuno sapeva che dietro quelle cuciture c’erano notti senza cena, mani tagliate, lacrime nascoste sul rovescio dei tessuti.

Oggi vedo le nostre boutique a Parigi, New York, Tokyo…
e penso a quel piccolo laboratorio in Sicilia dove tutto è cominciato.
A due ragazzi che non avevano nulla — tranne un sogno cucito addosso.

Perché se vuoi rischiare tutto per un sogno,
assicurati che sia uno che non ti lasci dormire.
Solo così potrai cucire il tuo nome nella storia. 🖤

— Domenico Dolce & Stefano Gabbana

      di:La RedazioneIn Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servo...
02/11/2025


di:La Redazione
In Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servono formazione e progettualità”
Dopo l’inchiesta di Italia a Tavola sui 21mila bar chiusi in dieci anni, il presidente provinciale FIPE Confcommercio riflette sul futuro degli esercizi pubblici: “Il nostro settore crea socialità e valore, ma va gestito con competenza”
Provincia. In Italia chiudono circa 6 bar al giorno (oltre 21mila bar in dieci anni). Quasi la metà non supera i cinque anni di vita. Numeri che Italia a Tavola ha messo nero su bianco in una recente inchiesta (“Il futuro del bar italiano”) e che raccontano una crisi profonda, che va oltre le bollette e i rincari.
Un allarme che trova eco anche nel savonese, dove molti locali storici faticano a resistere e le nuove aperture spesso durano lo spazio di una stagione.
Ne abbiamo parlato con Carlomaria Balzola, presidente provinciale di FIPE Confcommercio e titolare dell’omonima e storica caffetteria alassina. Con lui proviamo a capire quanto di quella “crisi culturale” denunciata a livello nazionale si respiri anche tra le vie e le piazze della Riviera.

Oltre i rincari
In Italia chiudono 6 bar al giorno, Balzola: “Chi apre solo per guadagnare, chiude in fretta. Servono formazione e progettualità”
Dopo l’inchiesta di Italia a Tavola sui 21mila bar chiusi in dieci anni, il presidente provinciale FIPE Confcommercio riflette sul futuro degli esercizi pubblici: “Il nostro settore crea socialità e valore, ma va gestito con
Provincia. In Italia chiudono circa 6 bar al giorno (oltre 21mila bar in dieci anni). Quasi la metà non supera i cinque anni di vita. Numeri che Italia a Tavola ha messo nero su bianco in una recente inchiesta (“Il futuro del bar italiano”) e che raccontano una crisi profonda, che va oltre le bollette e i rincari.

ASCOLTA “LA TELEFONATA” CON CARLOMARIA BALZOLA

Un allarme che trova eco anche nel savonese, dove molti locali storici faticano a resistere e le nuove aperture spesso durano lo spazio di una stagione.

Ne abbiamo parlato con Carlomaria Balzola, presidente provinciale di FIPE Confcommercio e titolare dell’omonima e storica caffetteria alassina. Con lui proviamo a capire quanto di quella “crisi culturale” denunciata a livello nazionale si respiri anche tra le vie e le piazze della Riviera.

Presidente, l’inchiesta di “Italia a Tavola” parla di una crisi “culturale” del bar italiano, più che economica. Lei la riconosce anche nel savonese?
L’aspetto positivo è che il settore dei servizi, e in particolare quello della ristorazione, resta molto appetibile. Parliamo di un comparto con margini lordi del 40-60% e un aumento del valore aggiunto del 8,3% nel 2024: è un settore in crescita. Tuttavia condivido l’idea che serva tornare a una visione più “culturale” del bar, non solo economica. Il bar non è solo caffè: è servizio, qualità, formazione, accoglienza. Purtroppo oggi tanti entrano nel settore attratti dalla redditività, senza avere competenze o visione. Bisogna cambiare approccio: non più solo numeri e costi, ma organizzazione qualitativa e cultura del mestiere. Solo così il bar può tornare ad essere un punto di riferimento sociale e non un semplice esercizio commerciale.

Nella nostra provincia, quante attività hanno abbassato la serranda negli ultimi anni? C’è un fenomeno simile ai dati nazionali (47% di chiusure entro cinque anni)?
�La situazione savonese riflette quella nazionale. Le liberalizzazioni hanno portato molta libertà di apertura, ma anche una certa confusione. Oggi chiunque può aprire un bar: basta trovare un locale adatto e spesso, grazie ai comodati d’uso, l’investimento iniziale è minimo. Questo ha creato una saturazione di mercato evidente. Dove una volta c’erano due bar che lavoravano bene, oggi ce ne sono quattro, e inevitabilmente uno o due chiudono. È un ciclo continuo di aperture e chiusure, segno che manca una pianificazione di lungo periodo.

L’inchiesta denuncia che “chiunque può aprire un bar”, grazie ai pacchetti chiavi in mano offerti dalle torrefazioni. È così anche qui? Quanto pesa il sistema dei comodati d’uso nel savonese?
�È una realtà anche da noi. Il comodato d’uso permette di partire con spese minime, ma questo spesso porta a un’idea sbagliata del mestiere. Aprire un bar non può essere una scelta “rapida”, deve essere una progettualità di lungo periodo. Chi entra nel settore deve ragionare con una prospettiva di almeno 7-8 anni, con un piano economico solido e una visione di sviluppo. Troppe volte si apre senza competenze e si chiude poco dopo. La formazione e una corretta analisi di mercato sono indispensabili, perché le tendenze cambiano in fretta e ciò che funzionava un anno fa oggi può non avere più mercato.

La facilità con cui si apre un locale senza competenze ha influito sul livello medio della qualità del caffè e del servizio nella nostra provincia?
�Sì, inevitabilmente. Quando si entra in un settore solo per calcolo economico, la qualità tende a risentirne. Gestire i costi, adattarsi alle tendenze e mantenere alta la qualità dell’offerta sono elementi che vanno di pari passo. La qualità paga sempre, indipendentemente dal tipo di locale o dal target di clientela. È la qualità che fa la differenza e che fidelizza il cliente nel tempo.

FIPE Confcommercio cosa può fare, o sta già facendo, per restituire valore e professionalità a questo mestiere?
�Il nostro impegno è su più fronti: promuoviamo la formazione e il confronto tra operatori, ma serve anche un cambio di mentalità collettivo. Non basta formare chi sta dietro al bancone: anche il consumatore deve essere “educato” alla qualità. Pensiamo a quanto è cambiato il mondo del vino: fino a qualche anno fa sembrava tutto uguale, oggi il pubblico riconosce le differenze e sa apprezzare la qualità. Lo stesso deve avvenire per il caffè. Il cliente medio magari non distingue ancora un’arabica da una robusta, ma comincia a percepire il valore di un prodotto curato e ben servito. È un passo culturale importante.

Oltre alla parte datoriale, è cambiato qualcosa anche dall’altra parte del bancone? C’è un cambiamento nella domanda? Le persone chiedono qualità o cercano solo prezzo e velocità?
�Il consumatore oggi è più consapevole, ma purtroppo in Italia continuiamo a sottovalutare il valore del caffè. Un espresso a 1,50 euro viene percepito come “caro”, mentre all’estero un’arabica in autogrill costa tranquillamente 1,80 o 2 euro. Dobbiamo difendere l’italianità del nostro rito quotidiano, che è un vero e proprio “rito laico”. Il bar italiano è un presidio sociale e culturale, non solo un luogo dove si beve in fretta e si va via. Serve un’offerta coerente con questa identità.

Se dovesse dare un consiglio a un giovane savonese che sogna di aprire un bar, quale sarebbe la prima cosa da imparare prima di firmare un contratto con una torrefazione?
�Gli direi di studiare, formarsi e soprattutto di costruire una progettualità. Il nostro settore crea economia e socialità, ma va affrontato con consapevolezza. Bisogna imparare a leggere i numeri, capire i costi, conoscere i prodotti e soprattutto avere una visione di lungo periodo. Aprire un bar significa entrare in un mondo complesso ma pieno di opportunità: chi lo fa con serietà e qualità, trova sempre spazio.

Il giorno in cui vidi mia madre piangere perché non aveva i soldi nemmeno per comprare il pane… capii che, se volevo una...
30/10/2025

Il giorno in cui vidi mia madre piangere perché non aveva i soldi nemmeno per comprare il pane… capii che, se volevo una vita diversa, avrei dovuto costruirla con le mie mani.

Mi chiamo Amancio Ortega, e sono nato in un piccolo villaggio della Spagna, figlio di un ferroviere e di una donna che faceva le pulizie.
Da bambino, in casa mia abbondavano i silenzi… e mancava quasi tutto il resto.

Ricordo ancora quel giorno: mia madre andò a chiedere del cibo “a credito” in una bottega.
La proprietaria la guardò freddamente e disse che non poteva più.
Siamo tornati a casa in silenzio, ma le sue lacrime dicevano tutto.
Avevo dodici anni. E quel giorno ho giurato che la povertà non sarebbe stata la mia condanna.

Lasciai la scuola e iniziai a lavorare come fattorino in una camiceria.
Consegnavo pacchi, ma imparavo ogni dettaglio: come si cuciva, come si vendeva, come si parlava ai clienti.
Ogni sera tornavo a casa con le dita segnate dal filo e la mente piena di sogni.

Con il tempo, insieme a mia moglie, iniziai a confezionare vestaglie da bagno.
Andavamo porta a porta a offrirle, senza negozio, senza soldi, senza nome. Solo con la nostra determinazione.

Abbiamo avuto freddo per risparmiare sul riscaldamento.
Un Natale ci rubarono tutto.
Ho pensato di arrendermi… ma non l’ho fatto.

Nel 1975 aprii una piccola bottega a La Coruña. Non immaginavo che da lì sarebbe nato qualcosa di così grande: Zara.
Ho creduto in un’idea semplice ma rivoluzionaria: vestiti belli, di qualità, a un prezzo che tutti potessero permettersi.

Oggi quella idea ha raggiunto più di 90 Paesi.
E anche se il mondo mi chiama imprenditore, io resto quel ragazzo che vide piangere sua madre per un pezzo di pane.
Senza lussi, senza abiti costosi.
Perché ho imparato che il rispetto non si compra. Si costruisce.

Il passato non decide chi sei.
Ma può essere la scintilla che ti accende.

- Amancio Ortega

    la redazione:Rita De Crescenzo, il ristoratore di Castel di Sangro chiede 20mila euro di risarcimento: «Danno all'im...
04/10/2025

la redazione:
Rita De Crescenzo, il ristoratore di Castel di Sangro chiede 20mila euro di risarcimento: «Danno all'immagine dell'attività»
Era gennaio 2023 quando Alessandro Coscia, gestore del ristorante "Antica Neviera" a Castel di Sangro, aveva scoperto i video pubblicati sui social da Rita De Crescenzo. Poi la querela, la multa di 258 euro, e ora la richiesta di ventimila euro di risarcimento per danni all'immagine dell'attività e alla reputazione personale. Ma cosa ha detto di grave la De Crescenzo tanto da ritenere neccessaria un'udienza dibattimentale al tribunale di Sulmona (dove però non era presente la tiktoker campana da oltre 2 milioni di follower)?
Era la notte di Capodanno del 2023 quando la tiktoker Rita De Crescenzo (nota a tutti per il "caso Roccaraso") aveva pubblicato immagini e commenti relativi alla serata trascorsa all'interno del ristorante Antica Neviera" a Castel di Sangro allora gestito da Alessandro Coscia. «La serata del 31 abbiamo fatto digiuno al ristorante - affermò la creator. A Capodanno sono stata presentata come ospite d'onore e invece ho pagato e ringraziato. A Castel di Sangro si sono messi tutti a disposizione, tranne il ristorante Antica Neviera». A distanza qualche giorno, aveva poi postato un altro video con la dicitura: «Il conto solo all'andata, il ristorante si è fatto con andata senza ritorno».

Lo scontento del ristoratore
Le parole della tiktoker campana non sono piaciute al ristoratore Coscia, il quale ha presentato querela ai carabinieri della Compagnia di Castel di Sangro e ha commentato così la vicenda: «Lei ha puntualizzato che noi abbiamo fatto la serata in funzione della sua presenza. Che noi abbiamo approfittato della sua notorietà a scopo pubblicitario. Io neanche la conoscevo. Mi è stata raccomandata da un amico il 31 mattina. Ha trascorso la serata in allegria, festeggiando e ballando. I problemi sarebbero sorti a fine serata, nel momento in cui è stato chiesto il conto delle consumazioni. Siccome erano tanti, ho fatto uno sconto alla comitiva e, dopo qualche giorno, è arrivata la cattiva pubblicità sui social».
I pareri degli avvocati
«La mia assistita ritiene di non aver offeso nessuno - dichiara all'ANSA l'avvocato Alfonso Quarto, difensore di Rita De Crescenzo - ma di aver fatto una semplice recensione, come per qualunque altro ristorante». Non la pensa così l'avvocato Gaetana Di Ianni: «Il mio assistito è stato travolto da messaggi offensivi e non veritieri. Non è mai stata invitata come ospite. Anche il presunto digiuno non corrisponde al vero: hanno chiesto mezze porzioni per bambini. È stata raccomandata da un amico, altrimenti il locale era già al completo. L'attività ha poi subito un calo e oggi è chiusa perché il titolare si è trasferito».
Udienza nel 2026
La prossima udienza è fissata per il 23 aprile 2026: saranno ascoltati i quattro testimoni dell'accusa, tutti dipendenti del ristorante presenti quella sera. «E sarà presente anche Rita De Crescenzo, perché dovrà rendere dichiarazioni spontanee», conclude l'avvocato Quarto.

    un ns lettore ci ha inviato qst foto....di:Michele De Maio A bordo di Ferrari F40 non crede ai suoi occhi, sorpassat...
08/09/2025

un ns lettore ci ha inviato qst foto....
di:Michele De Maio
A bordo di Ferrari F40 non crede ai suoi occhi, sorpassato da una leggenda
Scopri la storia della Porsche 962C omologata per la strada, l'auto da corsa che ha sorpassato la Ferrari F40 e ridefinito il concetto di esclusività
Quando si parla di leggende a quattro ruote, l’immaginario collettivo corre subito verso modelli iconici, protagonisti indiscussi della storia dell’automobilismo. Ma cosa succede quando una leggenda incontra il mito, e una Porsche 962C con omologazione stradale riesce a sorprendere persino una delle più celebri supercar italiane di sempre, la Ferrari F40? La risposta è diventata virale sui social, dove un fortunato proprietario della rossa di Maranello si è visto superare da una delle auto più rare e affascinanti mai circolate su strada.
Il mondo delle supercar è costellato di modelli straordinari, capaci di far ba***re il cuore anche ai collezionisti più navigati. Tuttavia, esistono vetture che riescono ancora a lasciare senza fiato, riscrivendo i limiti di ciò che si credeva possibile. È il caso della Porsche 962C stradale, un esemplare unico, capace di ridimensionare persino la fama della Ferrari F40, spesso considerata il vertice dell’eccellenza automobilistica italiana. Questo incontro ha messo in discussione le gerarchie consolidate, dimostrando che, anche tra le auto più esclusive, esiste sempre qualcosa di più raro, più estremo, più sorprendente.
Nata per le corse
La Porsche 962C è una creatura nata sulle piste, forgiata nella leggenda del Gruppo C, la categoria che negli anni ’80 e ’90 ha visto alcune delle più spettacolari auto da corsa sfidarsi nelle gare di endurance più dure del mondo. Pensata esclusivamente per dominare il mondo delle competizioni, questa vettura ha attraversato un percorso di omologazione stradale tanto complesso quanto affascinante, che le ha permesso di abbandonare i cordoli dei circuiti per affrontare il traffico quotidiano. Un processo che richiede modifiche profonde, ma che restituisce un fascino irresistibile a chi sogna di vivere le emozioni della pista anche tra i semafori cittadini.
Sotto il cofano di questa icona batte un cuore da record. Nella sua versione americana, la Porsche 962C stradale m***a un motore da 3.2 litri capace di erogare circa 700 cavalli, una cifra che già di per sé la colloca tra le auto più performanti di sempre. Ma il vero salto di qualità si trova nella variante europea, quella destinata al campionato sport prototipi, dove la potenza 850 cavalli in assetto da qualifica la rende semplicemente inarrivabile. Numeri che mettono in ombra persino i 478 cavalli della Ferrari F40, già considerata una delle vetture più potenti e veloci mai prodotte dalla casa di Maranello.
Confronto tra regine
Il confronto tra queste due regine della velocità va ben oltre la semplice scheda tecnica. Da un lato abbiamo la Ferrari F40, ultima vettura approvata personalmente da Enzo Ferrari, prodotta in circa 1.300 esemplari e simbolo di una filosofia che unisce tradizione, innovazione e un’anima profondamente italiana. Dall’altro lato, la Porsche 962C stradale rappresenta un unicum assoluto: un’auto da corsa trasformata in veicolo omologato per la strada, esemplare unico nel suo genere, frutto di un progetto visionario e coraggioso. Questo scontro mette in luce due mondi diversi: quello della produzione limitata ma “accessibile” a pochi eletti, e quello dell’esclusività assoluta, dove l’unicità diventa valore supremo.
Sotto il cofano di questa icona batte un cuore da record. Nella sua versione americana, la Porsche 962C stradale m***a un motore da 3.2 litri capace di erogare circa 700 cavalli, una cifra che già di per sé la colloca tra le auto più performanti di sempre. Ma il vero salto di qualità si trova nella variante europea, quella destinata al campionato sport prototipi, dove la potenza 850 cavalli in assetto da qualifica la rende semplicemente inarrivabile. Numeri che mettono in ombra persino i 478 cavalli della Ferrari F40, già considerata una delle vetture più potenti e veloci mai prodotte dalla casa di Maranello.

    Storie vere. La Redazione“C’era un ragazzo delle pulizie, si lamentava perché non aveva la macchina per portare fuor...
05/09/2025


Storie vere. La Redazione
“C’era un ragazzo delle pulizie, si lamentava perché non aveva la macchina per portare fuori una ragazza.
Diego era lì, ascoltava in silenzio. Poi si avvicina e gli chiede: ‘Ma dimmi… è bella questa ragazza?’
‘Sì, bellissima’, risponde timido.

Allora Diego, con quel sorriso unico, gli mette in mano le chiavi della sua auto:
‘Tieni, portala tu. Me la ridai domani, io torno a casa con un amico’.

Il ragazzo incredulo prova a rifiutare: ‘Ma dai Diego, non scherzare…’
E lui, serio e semplice: ‘Prendila. Vai, divertiti.’

Come fai a spiegare uno così? Non era solo un genio del pallone, era un uomo capace di regalare sogni anche nei gesti più umili, di rendere grande una vita normale.”

Julio Velasco

    di:Michele De Maio Armani, l’impero da 7 miliardi. Il piano per la successione, le mire francesi e quel “no” alla Bo...
05/09/2025


di:Michele De Maio
Armani, l’impero da 7 miliardi. Il piano per la successione, le mire francesi e quel “no” alla Borsa
Il gruppo resta uno degli ultimi baluardi indipendenti del lusso italiano. Rimangono aperti i dossier sulle alleanze. Il patto per la successione
adesso che Re Giorgio non c’è più, è l’ora del grande riassetto. Delle mire francesi, delle manovre che possono far restare «in casa» uno dei pochi grandi gruppi del lusso ancora indipendenti in un mercato dominato dai giganti Lvmh e Kering, cresciuti a colpi di acquisizioni. I dossier sul futuro del gruppo rimbalzano da anni tra gli studi delle grande banche d’affari, ma Armani, negli ultimi tempi della sua vita, ha lavorato per preparare un futuro «blindato», affinché la maison restasse coerente con il suo spirito anche ora, dopo la sua scomparsa. «Il piano l’ho preparato con il mio usuale pragmatismo, ma non lo rivelo. Perché ci sono ancora», spiegava nel libro autobiografico Per Amore, uscito nel 2023.

la storia
La famiglia, gli amori e la beneficenza: Giorgio Armani dietro le quinte

Con un giro d’affari da due miliardi e mezzo l’anno, secondo le stime degli analisti la Spa fondata a Milano nel 1975 dallo stilista e dal socio Sergio Galeotti può valere oggi tra i 6 e i 7 miliardi di euro. La valutazione tiene conto non solo dei ricavi e della redditività, ma anche del prestigio del brand e del patrimonio immobiliare: palazzi nel Quadrilatero milanese, sedi iconiche a New York, Parigi, Londra e Hong Kong, boutique, hotel, ristoranti e spazi multifunzionali. A questo si aggiunge un know-how creativo e produttivo che resta saldamente in Italia, con oltre 9.000 dipendenti nel mondo.

La domanda ora è: quale strada prenderà il gruppo? Restare indipendente o entrare, in parte o del tutto, nell’orbita di una multinazionale? Se nel passato si era parlato di un interesse di Exor, smentito, le tentazione di un’alleanza strategica o di una quotazione selettiva, alla fine, non è stata più un tabù neppure per lo stesso Armani, che negli ultimi tempi aveva ammorbidito posizioni storicamente rigide: «Sarebbe poco imprenditoriale escludere qualsiasi opzione», riconosceva, consapevole che la crescita richiede capitali e infrastrutture che forse non si possono più generare in solitaria.

Re Giorgio ha posseduto fino all’ultimo il 99% del capitale della sua creatura. Solo lo 0,1% fa capo alla Fondazione Giorgio Armani, creata nel 2016 con una doppia funzione: promuovere progetti di utilità sociale e gestire nel tempo la governance del gruppo. È in quella cornice che ha preso forma il “piano postumo” del fondatore, un documento articolato, tenuto riservato per anni e svelato dall'agenzia internazionale Bloomberg, che prevedeva sei categorie di azioni, con differenti diritti e poteri, e l’ingresso nel consiglio di amministrazione di figure chiave: le nipoti Silvana e Roberta Armani, Andrea Camerana (figlio della sorella Rosanna), il compagno Leo Dell’Orco e l’imprenditore digitale Federico Marchetti, il fondatore di Yoox cooptato nel 2020. Un’organizzazione pensata per ridurre al minimo i conflitti e preservare la visione originaria.

Lo statuto fissa paletti stringenti: divieto di quotazione in Borsa per almeno cinque anni, distribuzione del 50% degli utili agli azionisti, norme severe per eventuali operazioni di acquisizione, da limitare esclusivamente a rafforzare competenze non presenti all’interno del gruppo. Tutto, nei pensieri di Armani, ruotava attorno all’equilibrio tra sviluppo e identità. «L’indipendenza può essere ancora un valore anche in futuro, ma non escludo nulla», aveva spiegato in una delle sue ultime interviste. Lasciando aperte le porte a una possibile trasformazione, senza mai tradire la sua ossessione per il controllo e la coerenza.

Agire, non dichiarare. Continuare a lavorare fino all’ultimo giorno, curando personalmente ogni sfilata, ogni dettaglio, ogni campagna. È sempre stata questa la grammatica di uno stile che rifugge l’eccesso e la semplificazione. La governance collegiale prevista dallo statuto ha ora il compito di valutare, ponderare, decidere. In un momento in cui i grandi gruppi si muovono come conglomerati finanziari, la sfida è restare rilevanti senza snaturarsi.

«Io preferisco la ricerca del dettaglio che invita a osservare e conoscere meglio», ripeteva. Un approccio distante dalle logiche del fast fashion e dalle sirene del digitale a ogni costo. Ma anche questo, forse, dovrà essere riletto alla luce dei cambiamenti generazionali.

Family first, ma con regole precise. Non a caso, mentre in Italia ci si interroga sul destino della maison, in Francia Bernard Arnault – patron di Lvmh – ha portato cinque figli nel consiglio del gruppo, preparando la successione con disciplina imperiale.

Ora anche il gruppo Armani entra nella sua seconda vita, con una bussola chiara: fare come avrebbe fatto lui, il fondatore. Con discrezione, ma con fermezza.

Le tappe del gruppo Armani

Da Milano al mondo, la storia di un impero discreto

• 1975 – Giorgio Armani e Sergio Galeotti fondano la Giorgio Armani S.p.A. a Milano.
• 1981 – Nascono Emporio Armani e Armani Jeans: il marchio si apre ai giovani.
• 1982 – Armani è il primo stilista vivente a finire sulla copertina del Time.
• 1998-2000 – Espansione nei settori beauty, arredamento e accessori.
• 2000 – Inaugurazione della sede di via Bergognone, progettata da Tadao Ando.
• 2005 – Apre l’Armani Hotel di Dubai, seguito da Milano.
• 2016 – Nasce la Fondazione Giorgio Armani, con finalità sociali e di governance.
• 2023 – Pubblicazione dell’autobiografia Per Amore.
• 2024 – Il gruppo conta oltre 9.000 dipendenti, 2,4 miliardi di fatturato e 500 boutique nel mondo.

    di:Michele De Maio Il nuovo Vacheron Constantin è riuscito a inserire un calendario perpetuo in uno spazio pari a qu...
31/08/2025

di:Michele De Maio
Il nuovo Vacheron Constantin è riuscito a inserire un calendario perpetuo in uno spazio pari a quello tra due carte di credito
Otto millimetri per ospitare uno dei movimenti automatici più sofisticati dell'alta orologeria contemporanea
nuovo Vacheron Constantin Overseas Quantième Perpétuel Ultra-Plate è sicuramente uno di quei modelli in grado di ridefinire il concetto stesso di tempo. È un pezzo dove si uniscono maestria tecnica, design ed eleganza discreta, il tutto racchiuso in una cassa così sottile che è difficile credere possa ospitare una complessità meccanica di tale portata. Otto millimetri per ospitare uno dei movimenti automatici più sofisticati dell'alta orologeria contemporanea, il calibro 1120 QP/1. In altre parole, Vacheron Constantin è riuscito a piegare le leggi della fisica per inserire un calendario perpetuo, con i suoi 276 componenti e 36 rubini, in uno spazio pari a quello tra due carte di credito. A questo livello di raffinatezza, non si parla più di orologio da polso, ma di gioielleria indossabile.
Il bordeaux è il nuovo nero?
La prima cosa che salta all'occhio dell'Overseas Quantième Perpétuel Ultra-Plate non è la cassa in oro bianco, né il suo famoso bracciale a mezza croce di Malta. È il quadrante laccato bordeaux. Un rosso intenso, quasi vinoso, che crea un bel contrasto con il bianco degli indici e delle indicazioni del calendario. Una scelta cromatica audace e incredibilmente elegante, che dà all'orologio un look unico: abbastanza classico da stare bene con un abito a tre pezzi, ma anche così particolare da diventare un must-have al polso. I quadranti secondari del calendario perpetuo (data, giorno, mese) sono disposti in modo quasi simmetrico alle ore 3, 9 e 12. A ore 6, la fase lunare si svela in oro bianco, posizionata discretamente sopra la scritta Vacheron Constantin e la famosa croce di Malta. Dietro, un fondello trasparente in vetro zaffiro rivela la massa oscillante in oro, decorata con una rosa dei venti: una firma Overseas, che strizza l'occhio allo spirito di esplorazione della collezione.
Un orologio di tale livello non è fatto per stare nascosto sotto la manica di una camicia e Vacheron Constantin l'ha pensato come un camaleonte dell'eleganza. L'Overseas ha tre cinturini intercambiabili: in oro bianco per un look solenne, in caucciù bordeaux per un'armonia cromatica, o in caucciù bianco per un tocco sportivo meno elegante, ma deciso. Il sistema di sostituzione rapida permette di passare dall'ufficio alla spiaggia (o dal gala allo yacht) in pochi secondi, senza perdere un briciolo di stile.
Il cuore pulsante: Calibro 1120 QP/1
Dietro la raffinatezza del nuovo segnatempo si nasconde un vero e proprio colosso tecnico. Il movimento 1120 QP/1 è un capolavoro di miniaturizzazione: solo 4,05 mm di spessore, ma abbastanza potente da fare funzionare un calendario perpetuo completo, con tanto di fasi lunari. La complicazione, considerata una delle più straordinarie dell'orologeria, calcola automaticamente le irregolarità del calendario gregoriano: mesi di 28, 30 o 31 giorni, anni bisestili... L'Overseas si adatta a tutto, senza bisogno di intervento umano, e non richiederà alcuna correzione fino al 2100. Il calibro batte a 19.800 alternanze all'ora (2,75 Hz), offre 40 ore di riserva di carica ed è protetto da un cerchio di incasso in ferro dolce che garantisce la resistenza antimagnetica. Una precisione chirurgica, nascosta in uno scrigno di eleganza.
All'incrocio tra ultrapiatto, complicazione orologiera e design contemporaneo, l'Overseas Quantième Perpétuel Ultra-Plate incarna l'ossessione di Vacheron Constantin per l'eccellenza. Il prezzo? 134.000 euro. A ricordarci che il vero lusso non è mai una questione di necessità, ma di desiderio. Ultra-sottile ma super potente, sportivo ed elegante, versatile anche se super esclusivo, il Vacheron Constantin Overseas Quantième Perpétuel Ultra-Plate riesce nell'impossibile: trasformare un capolavoro tecnico dell'orologeria in un accessorio di stile assoluto. E questo, nel mondo del lusso, è esattamente ciò che si chiama leggerezza.

    di:Michele De Maio La torta italiana di Madonna per il suo compleanno è un Labubu giganteLe star non vanno troppo su...
19/08/2025

di:Michele De Maio
La torta italiana di Madonna per il suo compleanno è un Labubu gigante
Le star non vanno troppo sul sottile quando si tratta di festeggiamenti. Se la classe non è sempre la firma delle e dei VIP al momento di spegnere le candeline, l’originalità è di certo un fil rouge che ha accompagnato anche la celebrazone della 67° primavera di Madonna. La regina del pop ha scelto la Toscana per festeggiare il grande giorno, portando una ristretta cerchia di amici e parenti a Siena, dove il 16 agosto – giorno del compleanno della cantante – si è svolto il celebre Palio. A siglare la parte gastronomica della festa, la firma dello chef Luca Ciaffarafà e una torta di compleanno che segue le mode del momento.

La cena di compleanno di Madonna
“I sogni si realizzano davvero”, scrive Madonna sulla sua pagina Instagram, condividendo i momenti salienti del suo compleanno festeggiato a Siena in occasione del Palio. Veronica Ciccone si è goduta la storica manifestazione dall’alto di palazzo Pannocchieschi d’Elci in Piazza del Campo, prima di passare alla parte gastronomica dei festeggiamenti.

La cantautrice statunitense ha scelto di trascorrere la serata del suo 67° compleanno presso il Grand Hotel Continental della cittadina toscana. L’albergo cinque stelle lusso ha accolto lei e i suoi ospiti (tra cui i figli Rocco Ritchie e David Banda, il compagno Akeem Morris, e il cantante Sting) per un’elegante cena sulle note di un pianoforte, presieduta dallo chef Luca Ciaffarafà.

A ospitare l’evento il sontuoso e affrescatissimo Salone delle Feste, al cui lungo tavolo, secondo le indiscrezioni, sarebbero stati gustati piatti come il risotto all’ortica e scaglie di tartufo estivo mantecato con olio evo e formaggio di anacardi, e la sinfonia di zucca e zucchini, ricotta vegana e confettura di finocchi.

Tutto abbastanza sobrio? Fino all’arrivo della torta, forse: un dessert di puro rosa su cui troneggiava un gigantesco Labubu, i pupazzetti per cui il mondo sta inspiegabilmente impazzendo. A completare il dolce, la scritta “Happy Birthday Madudu”, un gioco di parole fra il nome dell’artista e quello dei pelosi personaggi cinesi.

Indirizzo

Viale A. Gramsci
Montoro
83025

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