19/07/2023
19 LUGLIO 1992: LO STATO ESPLODE DALL’INTERNO
Una domenica di luglio, calda ed assolata, fa da cornice all’attentato che vede soccombere il giudice Paolo Borsellino ed i ragazzi della sua scorta.
É Domenica, ho 12 anni e la zia ci coinvolge tutti per una gitarella fuori porta, ed anche io, che di solito a Palermo vado malvolentieri (perché mi manca la mamma, con la quale vivo a Bari) accetto contento. Andiamo a Bosco Ficuzza, nei pressi di Corleone (all’epoca non la conoscevo) per prendere un po' di fresco, e mangiare due panini lì nell’erba, a godere del fresco in pineta, e per vedere da vicino che faccia hanno i cinghiali e nel primo pomeriggio, (i nonni sono già anziani), decidiamo di ritornare a casa: guardo l’orologio, sono le 17:00 appena scoccate.
Appena arrivati a casa accendiamo il televisore, quasi un presentimento, e scopriamo attraverso l’edizione straordinaria del TG1, che c’è stato un attentato ai danni del giudice Borsellino, proprio li in città, ad un paio di chilometri in linea d’aria da casa dei miei: un botto ha scosso la mia estate.
Sarà solo qualche anno dopo, tramite gli studi e la ricerca, che comprenderò davvero l’accaduto: il giudice istruttore di Palermo, un uomo profondamente impegnato nella lotta contro la mafia, e con lui cinque agenti della scorta (non un privilegio, come spesso l’hanno inteso alcuni simpaticoni nel recente passato, ma una specie di gabbia portatile che lo Stato ti regala quando diventi scomodo e sospetta che qualcuno, per dirla alla palermitana “vuole farti la festa”) vengono fatti letteralmente a pezzi. Viene utilizzato il più vigliacco dei mezzi, il tritolo, con un radiocomando azionato a distanza, il che vuol dire, che qualcuno ti sta osservando per trovare il momento giusto per farti fuori, non sia mai dovessi sbagliare: così come era successo nel maggio dello stesso anno, viene fatto fuori Giovanni Falcone, alto magistrato ed intimo amico di Borsellino, mentre rientra dall’aeroporto di Punta Raisi.
Anni dopo, Giorgio Faletti porta il suo personalissimo necrologio a Sanremo, dove si classifica inaspettatamente secondo e come un pugno alla bocca dello stomaco, sovvertendo per una sera l’ordine naturale delle cose, che al Festival vincono sempre le canzoni d’amore, canterà così:
“Gettati in aria come uno straccio
Caduti a terra come persone
Che han fatto a pezzi con l'esplosivo
Che se non serve per cose buone
Può diventare così cattivo che dopo
Quasi non resta niente”
Oggi quel ragazzino ha ormai quarant’anni, tanti studi e letture alle spalle e si é reso conto che la mafia quel pomeriggio ha dato il peggio di sè stessa, alleandosi con chi i buoni avrebbe dovuto proteggerli, anziché mandarli al massacro, in balia di sè stessi. Quello stesso Stato che, su espressa richiesta della famiglia del giudice, non venne invitato ai funerali: perché la famiglia lo sapeva, Paolo lo aveva capito, che qualcuno tramava contro di lui, come un cancro che ti divora dall’interno, che stava aspettando il momento giusto per infliggere il colpo del KO e dire alle Istituzioni che “qui comando io”. Se guardo il mio Paese oggi, leggo di politicanti che sfregiano orribilmente la memoria di quegli uomini, appropriandosi delle loro parole ma non del loro significato, di attacchi senza senso alle istituzioni tacciate di ogni nefandezza, mi interrogo e penso: ma il coraggio di Paolo, Giovanni, e di quei ragazzi che hanno provato a difendere la liberà di tutti noi, è stato vano?
“La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.” - Paolo Borsellino
Massimiliano Alongi