Negrar di Valpolicella News

Negrar di Valpolicella News Storia locale, curiosità, aneddoti
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LA PASTISSADA DE CAVAL NACQUE DA UNA GUERRA? ( tra probabile leggenda e realtà il tesoro della cucina veronese )Come un ...
19/09/2025

LA PASTISSADA DE CAVAL NACQUE DA UNA GUERRA?
( tra probabile leggenda e realtà il tesoro della cucina veronese )

Come un evento tragico, quale una battaglia, avrebbe dato vita a uno dei piatti tipici della tradizione veronese... “el piato da carestia”.. perchè non vi erano i frigoriferi.

Secondo numerose antiche leggende la ricetta per questo famoso piatto tipico, che per qualcuno dovrebbe risalere al quinto secolo dopo Cristo, si fa riferimento precise date storiche.
Tra il 28 ed 30 settembre del 489 fu combattuta nelle campagne attorno a Verona una furiosa battaglia tra il Re d'Italia Odoacre ed il Re degli Ostrogoti Teodorico.

Nel 489, tredici anni dopo che Odoacre, re degli Eruli, aveva deposto l'ultimo imperatore romano, Romolo Augustolo, l'imperatore d'Oriente, Zenone, temendo che il barbaro diventasse troppo potente, gli mandò contro Teodorico, re degli Ostrogoti. Questo drammatico scontro fra principi barbari ha avuto come sfondo Verona. Gli Ostrogoti di Teodorico batterono gli Eruli di Odoacre, pirma, il 20 agosto 489, sull'Isonzo, e poi, il 30 settembre, alle porte di Verona, nella campagna minore tra San Michele e San Martino.Al termine dello scontro, vinto da Teodorico, rimasero sul terreno migliaia di cavalli, che il popolo stremato dalla fame fu autorizzato a recuperare per far provvista e per nutrirsi e darsi sostentamento.. Per disporre a lungo della grande quantità di carne, questa venne tagliata e lasciata macerare nel vino rosso, con dovizia di spezie e verdure. La successiva cottura a fuoco lento portò alla scoperta di questo squisito piatto, la cui ricetta tramandata di generazione in generazione è arrivata fino ai nostri giorni Ecco, dunque, la pastissada de cavàl: questa abbondante carne, per poter conservare a lungo, venne fatta macerare nel vino e negli aromi, con molte cipolle.
Così la storia o la leggenda?

Ma in realtà, in epoca recente, lo storico Andrea Brugnoli ridimensiona a giusta leggenda quanto sopra, citando nella sua pubblicazione “_Studi Veronesi_” che la pastissada apparve presumibilmente nella seconda metà del XIX secolo, quando si iniziò a superare il disgusto per il consumo della carne di cavallo, ma come specialità veronese probabilmente si è divulgata tra le due guerre mondiali del ventesimo secolo.

p.s. la battaglia fu veramente una strage di uomini; Odoacre schierò 25000 uomini. mentre Teodorico circa 20000; il primo ne ebbe oltre 8000 morti e l’altro 6000 da una stima prudenziale

p.p.s. era tradizione che alla fine della battaglia in campo aperto il lasciare i cavalli morti alla popolazione la cui area era stata invasa; fu così ad esempio dopo la battaglia di Castagnaro dell’11 marzo 1387 tra gli Scaligeri e i vincitori i Carraresi di Padova. Ma in epoca più recente nelle due battaglie di Custoza del 23-25 luglio 1848 e nella vicina Oliosi il 24 giugno 1866

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA, E NELLA LESSINIA, NELL’OTTOCENTO E DURANTE LA DOMINAZIONE AUSTRIACA ( XIX secolo) LA  ...
14/09/2025

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA, E NELLA LESSINIA, NELL’OTTOCENTO E DURANTE LA DOMINAZIONE AUSTRIACA ( XIX secolo)
LA CUCINA DEL POPOLO E L’INFLUENZA MITTELEUROPEA.

Dopo la caduta di Venezia, la Valpolicella passò sotto l’Impero Austriaco fino all’Unità d’Italia (1866).
Questo periodo segnò un ritorno alla cucina contadina, con influenze mitteleuropee.
Gnocchi e canederli divennero piatti comuni, influenzati dalla cucina austriaca e trentina.
La carne di manzo e il bollito con la pearà (salsa a base di midollo, pangrattato e pepe) divennero tipici della zona, anche se non tutti potevano permettersi regolarmente la disponibilità della carne.
Nel frattempo l’economia locale , seppur lentamente, migliorava, come in tutto il Veneto
Per questo la carne divenne un alimento più accessibile nella dieta; si consumavano carni bovine, suine e ovine, spesso cotte in umido o stufate, anche se nella maggioranza delle famiglie i pasti erano principalmente composti da grano, segale e orzo, consumati sotto forma di pane, zuppe e minestre. Fagioli e altri legumi erano un'importante fonte di proteine
e si continuò ad utilizzare sia verdure coltivate che selvatiche, come lattughe, r**e, cipolle, zucche e cavoli.
Però grande importanza ebbe la polenta che era un alimento base nella dieta della nostra valle , nonché in Lessinia dove , per farla, divenne abituale scambiare un chilo di castagne con un chilo di frumento coltivato in valle, spesso poi accompagnata da latte b***o e formaggi degli alpeggi.

Più ricca era la cucina borghese, più facilmente influenzata dalla cultura austriaca
dell'epoca che era caratterizzata da piatti ricchi e sostanziosi, spesso serviti in occasione di banchetti e feste.
Nel contempo gli Austriaci introdussero nuovi ingredienti nella cucina locale ,come ad esempio il cacao e il caffè.

Si diffusero tanti piatti, oggi ormai divenuti comuni , come i *Bigoli in salsa*: un piatto fatto con bigoli (una sorta di spaghetti grossi) serviti con una salsa a base di carne e cipolle.
La *Pastissada de caval*: un piatto tradizionale veronese fatto con carne di cavallo stufata e servita con polenta.
Anche i dolci, tipicamente austriaci, iniziarono a diffondersi, come lo strudel e gli strauben, una sorta di frittelle. E molte osterie locali servivano birra , oltre al vino.

Nel contempo, Negrar e Fumane si specializzarono nella produzione di formaggi di malga, grazie alla vicinanza con la Lessinia.
San Pietro in Cariano sviluppò una cucina però con piatti più simili a quelli veronesi, grazie alle migliori disponibilità economiche della zona.
Sant’Ambrogio e Marano mantennero comunque una cucina più legata alle tradizioni locali, con l’uso di ingredienti quali verdure ed erbe selvatiche per minestre, zuppe e farinate.

“IL TILIO”: IL PATRIARCA DELLA LESSINIA. Anche chi non l’ha conosciuto molto probabilmente avrà sentito parlare di Attil...
06/09/2025

“IL TILIO”: IL PATRIARCA DELLA LESSINIA.

Anche chi non l’ha conosciuto molto probabilmente avrà sentito parlare di Attilio Benetti, da tutti noto come “el Tilio”.
Un uomo, un paleontologo o, più semplicemente, una leggenda?

Sicuramente una leggenda, questo uomo nato nel 1923 e mancato novantenne, nel 2013, profondo amico di altri due grandi personaggi che diedero le loro forze per la conoscenza del vicino altipiano della Lessinia, don Alberto Benedetti ( el prete dei castagnari) e fratel Giuseppe Perin ( “l’inventore della Valle delle Sfingi e delle Cascate di Molina”).

Era nato vicino Camposilvano, praticamente autodidatta, fin da piccolo attratto dai fossili, tanto da studiarli fino a diventare uno più grandi esperti mondiali del settore della geopaleontologia.
Ha fatto l’operaio in Belgio, Francia e Inghilterra. Ma, alla fine di ogni viaggio, è sempre ritornato sui Lessini, un territorio con il quale conservava un legame speciale.

Dal 1975 , accanto alla sua abitazione, sorge il Museo Geopaleontologico. Nella sede museale si possono vedere resti di dinosauri, coccodrilli preistorici, minerali, calcari, ammoniti, insetti, vegetali pietrificati, ed il mitico orso speleus. Fossili dai nomi curiosi (almeno per chi non è del mestiere) come lamellibranchi, gasteropodi, nautiloidi, pesci macroforaminiferi…
Esemplari perfettamente conservati e provenienti, per la maggior parte, dalla montagna scaligera e dal suo “Covolo di Camposilvano”.

Attilio Benetti è diventato memoria storica della Lessinia e autorità riconosciuta nel mondo della geopaleontologia, che gli ha dedicato due nuove scoperte: il brachiopode «Benetticeras Benettii», esemplare unico al mondo e l'ammonite «Lessinorhynchia Benettii», di cui sono stati trovati altri esemplari, ma la prima scoperta e classificazione è universalmente riconosciuta a Benetti.

La curiosità e la ricerca delle spiegazioni lo avevano portato a calarsi anche nel cuore della montagna, scendendo da speleologo tra i pionieri della Spluga della Preta, l'abisso più profondo e misterioso allora conosciuto.
Una scorza dura come le pietre dei suoi fossili e un animo sensibile e attento come quello di un bambino: così era «El Tilio», capace di avviare in un garage di casa una raccolta di fossili ai quali poi la Comunità montana della Lessinia ha dato dignità di Museo Geopalentologico; capace di raccontare favole ai bambini ma anche di scrivere in modo documentato di storie e tradizioni lessiniche; rispettoso di tutti, ma capace di essere sempre libero.

Allora, dalla vicina nostra Valpolicella, andiamo a visitare il museo, favolosa eredità de “ el Tilio”.

IL CAPOLAVORO IGNORATO : LA PIERA SUL CANTÓN A NEGRAR DE VALPOLESELA. Chi passa il più delle volte la trascura, o le lan...
01/09/2025

IL CAPOLAVORO IGNORATO : LA PIERA SUL CANTÓN A NEGRAR DE VALPOLESELA.

Chi passa il più delle volte la trascura, o le lancia uno sguardo di sfuggita, senza realizzare di essere davanti ad un grandioso capolavoro.di elevatissima precisione e bellezza.

Da oltre un decennio all’angolo tra via Mazzini e piazza Vittorio Emanuele , proprio davanti il Municipio, la scultura in marmo rosa broccato di Sant’Ambrogio, grazie al disegno del grande, e famoso, Shigeru Saito scultore giapponese, dal titolo: la dolcezza domina la fortezza .
Scultura stupenda realizzata -in alta tecnologia- da una scuola del marmo valpollicelese, nei 2001

Però ciò che manca é una semplice targa con indicazione del titolo, dell'autore e della data di realizzazione dell'opera.
Peccato per questa dimenticanza, da parte di dovrebbe avere a cuore il decoro e la cultura del paese, che aiuterebbe a valorizzarla perché merita proprio l’attenzione di ogni passante.

Forme che si fondono, dal cono all’iperbole, dal cerchio alla parabola, in perfetta lucida superficie dagli spigoli vivi, il trionfo dell’espressione geometrica.

Il suo posto potrebbe essere il MART di Rovereto se non, addirittura, il MOMA di New York.

Nel suo anonimato…ehi…dove se trovema dimàn? A la piera sul cantón? Vala ben?

É STATO UN VOTO!Era il 19 marzo 2020, in piena pandemia, quando, in una chiesa vuota, quella di San Martino di Tours, pa...
27/08/2025

É STATO UN VOTO!

Era il 19 marzo 2020, in piena pandemia, quando, in una chiesa vuota, quella di San Martino di Tours, parrocchia di Negrar di Valpolicella, i quattro nostri sacerdoti fecero un voto: dedicare per l’anno successivo un mosaico a San Giuseppe. Coerenti con quella promessa, che si può ascoltare nella parte finale del filmato YouTube , che ora, nel retro della canonica, sul viale Rizzardi, San Giuseppe, nella sua bottega con il piccolo Gesù, si può ammirare.
ll mosaico raffigurante San Giuseppe che è stato realizzato dal noto artista e sacerdote sloveno Padre Marko Ivan Rupnik e dal suo team venne inaugurato il 19 marzo 2021 coerentemente con l’impegno preso dodici mesi prima .
Dalla rotonda della Meridiana in direzione del Pronto Soccorso il mosaico è visibile sul muro dell’ultima casa a destra.
Dopo oltre cinque anni un ricordo da rinnovare con una visita a questa immagine.

https://www.youtube.com/watch?v=7NNHBsZlRAY&t=2s

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA, E NELLA LESSINIA, DURANTE IL RINASCIMENTO E LA DOMINAZIONE DELLA  SERENISSIMA  (XV – X...
20/08/2025

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA, E NELLA LESSINIA, DURANTE IL RINASCIMENTO E LA DOMINAZIONE DELLA SERENISSIMA (XV – XVIII secolo): L’INFLUENZA VENEZIANA ED I PIATTI NOBILIARI.

Con l’arrivo della Serenissima Repubblica di Venezia, la cucina della Valpolicella si arricchì di nuovi ingredienti e tecniche culinarie. Le nobili famiglie veneziane investirono nel territorio, costruendo ville e introducendo piatti più raffinati, con imponenti cucine e numerosi cuochi e personale di servizio.

Il risotto, cucinato con brodi di carne o verdure, divenne un piatto fondamentale grazie alla diffusione del riso portato da Venezia.
L’uso di spezie come zafferano e cannella iniziò a comparire nelle cucine più abbienti.

La carne più accessibile era quella del maiale, allevato con gli avanzi dei pasti dei più ricchi, e i suoi derivati come salsicce, sopressa e pancetta.
La selvaggina, come cervi, cinghiali e uccelli, era più comune tra i nobili e i cacciatori, ma veniva consumata anche dai contadini quando disponibile.
Il pesce, spesso essiccato, era più diffuso nelle zone vicine ai corsi d'acqua, come il fiume Adige.

Si diffusero i dolci come la brasadela e i primi antenati della sbrisolona.

Negrar e Fumane videro la nascita delle prime cantine organizzate, che portarono alla produzione sempre più sofisticata dell’antenato del Recioto, oltre ad un profumato vino classico..

San Pietro in Cariano e San Ambrogio diventarono famosi per le loro osterie e trattorie, frequentate dai mercanti veneziani in viaggio verso il Trentino.

Marano, più isolata, mantenne una cucina più rustica, con abbondanza di piatti a base di erbe selvatiche e legumi.

In Lessinia nel periodo del Rinascimento , l'alimentazione era basata su ciò che offriva la terra e il bestiame, con un'enfasi su cereali, carne di maiale, formaggi, e prodotti del bosco. Le erbe selvatiche erano utilizzate per arricchire zuppe e minestre, e si consumavano anche prodotti caseari come ricotta e b***o. La selvaggina, quando disponibile, era una prelibatezza, e il consumo di vino e olio d'oliva era in aumento.

Iniziò, in questo periodo, una graduale disponibilità di cibo, specialmente per le classi non nobiliari.

BATTAGLIA AEREA SUI CIELI DELLA VALPOLICELLLA NELL'OTTOBRE 1944UNA STORIA POCO CONOSCIUTA. Durante la Seconda Guerra Mon...
14/08/2025

BATTAGLIA AEREA SUI CIELI DELLA VALPOLICELLLA NELL'OTTOBRE 1944
UNA STORIA POCO CONOSCIUTA.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Valpolicella, pur non essendo un teatro di grandi battaglie aeree, fu attraversata da aerei in missione, e vi furono anche alcuni incidenti e duelli aerei, in particolare durante i bombardamenti notturni su Verona e dintornI due aerei della RAF inglese furono abbattuti dai Flak -posizionati in aerea Arbizzano-Novare,- la notte tra il 10 e l'11 ottobre 1944 in missione di bombardamento notturno su Verona.

Autunno 1944, la città di Verona é ormai obiettivo primario per le forze alleate, da mesi le formazioni di bombardieri martellano notte e giorno i depositi e stazioni di Porta Nuova e Porta Vescovo, ma anche avendo come obbiettivi il ponte ferroviario sull'Adige a Parona, la stazione di Parona e quella di Domegliara.

La contraerea a difesa di Verona, tra cui la postazione Flak di Arbizzano-Novare, guidata da potenti fari puntati sul cielo notturno, spara con un fuoco incessante di sbarramento, uno dei bombardieri viene colpito e in fiamme si dirige verso nord / ovest oltre le colline: si tratta del B24 siglato EW106 con otto membri di equipaggio, che precipitò nella zona boscosa di Montecchio di Negrar, ove vennero trovati i corpi degli otto aviatori.
Un secondo aereo - un Vickers Wellington - venne colpito e, mentre precipitava verso la valle di Fumane, tre piloti si lanciarono con il paracadute atterrando verso la Valsorda.
I tedeschi che occupavano il paese li videro scendere ma le ricerche iniziarono solo alle prime luci, tempo che servì ai para' per nascondersi e miracolosamente trovarono un luogo talmente sicuro da non essere trovato.
Si nascosero, dopo affannosa corsa, in una grotta sotto una Cengia che sovrasta la Valsorda.
Il caso volle che alcuni uomini andando a far legna li trovarono seppero che erano inglesi e li aiutarono con cibo e altre cose fino alla fine. Le donne portavano loro da mangiare partendo da Mondrago per il bosco finché, con l'aiuto di un gruppo di partigiani, furono guidati fino ad incontrare le forze inglesi che stavano risalendo la Pen*sola, dove trovarono finale salvezza.

Foto 1 : Il Flugabwehrkanone (Flak) antiaereo da 88 millimetri fu uno dei cannoni di maggior successo della Seconda Guerra Mondiale
Foto 2: B24 Liberator
Foto 3: Vickers Wellington

COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO IN VALPOLICELLA E NELLA BASSA LESSINIA Nel Medioevo (V – XV secolo) divenne tipica  la cuc...
07/08/2025

COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO IN VALPOLICELLA E NELLA BASSA LESSINIA

Nel Medioevo (V – XV secolo) divenne tipica la cucina dei monaci e dei contadini.

Dopo la caduta dell’Impero Romano, la Valpolicella entrò in un lungo periodo di dominazione longobarda e successivamente scaligera. Questo periodo fu caratterizzato da una cucina povera e contadina, influenzata dai monasteri e dalla transumanza, questa da e per la Lessinia.

Si sviluppò la pasta fatta in casa, come gli gnocchi di pane e i primi formati di pasta all’uovo, mentre le patate non erano ancora state introdotte se non dopo la scoperta delle Americhe.
L’uso del maiale divenne sempre più diffuso: salsicce, sopressa e pancetta erano prodotte in tutte le contrade, mentre il formaggio vaccino era popolare.
La polenta iniziò a diffondersi nel XIV secolo, prima con il farro e poi con il mais dopo la scoperta dell’America.

Nel contempo, in Lessinia, l’alimentazione prevedeva anche pecore brogna.

Vi erano differenze tra i territori comunali : Negrar e Marano avevano una forte influenza monastica, e le ricette a base di pane, miele e latticini erano molto diffuse nei conventi della zona, oltre che di pollame.

Fumane e San Pietro in Cariano svilupparono una maggiore tradizione venatoria, con l’uso di selvaggina e carni stagionate.

San Ambrogio di Valpolicella era un crocevia commerciale grazie alla vicinanza all’Adige, e quindi influenzato da spezie e prodotti provenienti da altre regioni, oltre che al consumo di pesce essiccato.

Nel contempo il consumo di olio d’oliva e di vino iniziò ad incrementare.

L’ANTICA CHIESA DI SAN PIETRO A TORBE DI NEGRAR DI VALPOLICELLA (LA  CESA VECIA DE TORBE): UN PATRIMONIO DA SALVARE. Mol...
01/08/2025

L’ANTICA CHIESA DI SAN PIETRO A TORBE DI NEGRAR DI VALPOLICELLA (LA CESA VECIA DE TORBE): UN PATRIMONIO DA SALVARE.

Molti anni indietro si perdono le origini della chiesetta di San Pietro, presumibilmente alla seconda metà del secolo XII, quando la presenza di uno stanziamento di abitazioni, censito nel 1184 dal procuratore del Comune di Verona sotto il toponimo di Torbe, giustifica anche la supposta presenza di un edificio chiesastico che altro non doveva essere se non questa chiesa.
Infatti la prima notizia inerente la chiesa di Torbe risale al 30 marzo 1222, anno in cui tale Januario de Pevecano, redigendo a Prun il proprio testamento, lasciava in eredità un legato ad alcune chiese della valle di Negrar, tra le quali figura anche quella di "Sancti Petri de Capua", il che significa che nel 1222 a Torbe esisteva già un edificio di culto, dipendente dalla vicina pieve di S. Martino in Negrar, condizione che manterrà fino a quando, come s’apprende dalla visita pastorale del Vescovo Ermolao Barbaro il 14 maggio 1458, non verrà affidata alle cure del Rettore di San Paolo di Prun, nel frattempo costituitasi in parrocchia. A quella data era Luca da Cremona il Rettore a Prun, e aveva sotto di sè la chiesa di Sant’Antonio di Fane, la chiesa di San Giovanni Evangelista di Cerna e appunto la chiesa di San Pietro di Torbe.
Si apprende inoltre che il Vescovo Barbaro decise che i parrocchiani di Torbe dovevano contribuire alla spesa per i ceri “ par le celebrationi e le funsioni de la cesa”

Accanto alla chiesa vi era la casa canonica, ove si trova una lapide datata 11 aprile 1307. Nel pavimento della chiesa si trovano le pietre tombali di due parroci, Don Michele Criscini (1737) e Don Giovanni Battista Perusi (1860), e di due della nobile casata dei Manfredi:

L’aspetto odierno della chiesa, ormai sconsacrata, appare la componente di più interventi, operati nel corso dei secoli, dettati di volta in volta da canoni estetici o dalle esigenze del momento. Quanto rimane dell’originario edificio è poca cosa: il corpo centrale della facciata sul cui spiovente spicca una cornice romanica a dentelli in tufo; qualche brano di muratura; il campanile quadrangolare che svetta sul lato nord, tranne la cella campanaria e la cuspide che appaiono rifacimenti del secolo XVI. La primitiva chiesa doveva infatti essere ad un’unica navata, con facciata a capanna ed abside semicircolare.
Durante il periodo della seconda guerra mondiale fu adibita a stalla, e poi fu venduta all’asta a privati, che però non proseguirono in alcun restauro.
Di questo primitivo edificio oggi rimane solo una parte del basamento dell'abside che allora doveva essere semicircolare anziché rettangolare come si presenta oggi. A navata unica aveva tetto a capriate lignee e campanile a pianta quadrata, edificato interamente in pietra locale.

Purtroppo San Pietro di Torbe versa in uno stato di abbandono e di degrado tali da comprometterne non soltanto l’integrità materiale, ma pure la memoria storica, un processo di deperimento ancora in atto per cui si richiama l’improcrastinabile necessità di adeguati interventi di restauro e di conservazione.

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA AI TEMPI DEI ROMANI.Per comprendere meglio l’evoluzione gastronomica della Valpolicella...
25/07/2025

COSA SI MANGIAVA IN VALPOLICELLA AI TEMPI DEI ROMANI.

Per comprendere meglio l’evoluzione gastronomica della Valpolicella, esploriamo la sua storia attraverso i secoli e analizziamo le differenze e le similitudini tra i cinque comuni della Valpolicella Classica.

La cucina della Valpolicella ha origini molto antiche, che risalgono all’epoca romana ( I sec. a.C. - V sec. d.C.) Grazie al clima mite e alla fertilità della terra, i Romani coltivarono vite, olivo e cereali, elementi centrali della loro dieta., nonché dell’autonomia alimentare.

Il vino retico, citato da autori come Plinio il Vecchio, era considerato di altissima qualità ed esportato in tutto l’Impero Romano.

La cucina era semplice e basata su pane di farro, focacce, legumi e carne suina.
L’olio extravergine d’oliva, coltivato soprattutto nelle zone più basse e più vicine al Lago di Garda (San Pietro in Cariano e San Ambrogio), veniva utilizzato per condire e conservare i cibi.
Negrar e Marano, situati più in altura, erano centri di produzione di cereali e legumi, ingredienti fondamentali nella dieta romana.
San Pietro in Cariano e San Ambrogio di Valpolicella, più vicini a Verona e al Garda, svilupparono maggiormente la produzione di olio e vino, destinati anche ai mercati cittadini.
Fumane, con le sue numerose grotte e sorgenti, era un luogo ideale per la conservazione naturale degli alimenti, come formaggi e carne essiccata.

Inoltre in tutta la valle si allevavano, oltre i maiali, galline, oche, pecore e mucche che offrivano carne, anche se solo ai più abbienti , e latte per tutti.

MONTERICCO DI NEGRAR DI VALPOLICELLA Montericco prende il nome da un’antica fortezza medievale, oggi scomparsa, che domi...
17/07/2025

MONTERICCO DI NEGRAR DI VALPOLICELLA

Montericco prende il nome da un’antica fortezza medievale, oggi scomparsa, che dominava la valle. Il castello di Montericco era un importante baluardo difensivo della Valpolicella, controllato dai Vescovi di Verona e poi dai Signori della Scala. Purtroppo, nel corso dei secoli, la struttura fu distrutta e oggi ne restano solo alcuni resti nei boschi.

Accanto al sito del castello sorge la Chiesa di San Giuseppe, un piccolo gioiello architettonico immerso nella quiete dei vigneti.

Alcune leggende locali parlano di un tesoro nascosto sotto i ruderi del castello, protetto dallo spirito di un antico cavaliere.
Montericco è famoso per le sue albe nebbiose, che avvolgono la collina creando un’atmosfera quasi surreale.

DA NEGRAR DI VALPOLICELLA FINO IN SUD AFRICA ED OLTRE IN CAMPER.Due coraggiosi concittadini, Chiara e Giulio, accompagna...
11/07/2025

DA NEGRAR DI VALPOLICELLA FINO IN SUD AFRICA ED OLTRE IN CAMPER.

Due coraggiosi concittadini, Chiara e Giulio, accompagnati dalla cagnolina Yuki, ci hanno ora raccontata la loro pazza avventura, a volte non facile. Tutta da leggere e vedere nella prima immagine il loro percorso, per vivere insieme a loro il lungo viaggio.
Ecco cosa ci hanno detto, nell’intervista a distanza. Una profonda riflessione da condividere.
———
Quando siamo partiti la prima volta, non sapevamo che sarebbe stata solo l’inizio. Avevamo sistemato alla meglio un vecchio camper, comprato con pochi soldi e tanta incoscienza, per inseguire una sensazione che ci tirava forte dentro: la libertà. Era il 2020. L’Italia era ferma, ma noi sentivamo il bisogno di muoverci. Così siamo partiti per il Nord Europa.

Quel primo viaggio, fino alle isole Lofoten, passando per la Svezia, la Finlandia e i fiordi norvegesi, è stato il nostro battesimo. Il freddo, le notti infinite, le docce gelate, i pasti improvvisati e i parcheggi sperduti tra i boschi. Ma anche i silenzi potenti, la connessione ritrovata tra di noi, l’aurora boreale che squarcia il cielo, le albe che ti spingono le lacrime fuori dagli occhi. Quella prima volta ci ha insegnato che potevamo farcela. Che potevamo vivere diversamente.
Quando l’abbiamo capito, ci siamo detti che dovevamo andare oltre e siamo rientrati in Italia con un solo obiettivo: una nuova casa per poter viaggiare ovunque nel mondo.
Così è nato Simba: il nostro camper attuale, costruito con le nostre mani, pezzo per pezzo, giorno dopo giorno. Ci abbiamo messo dentro un anno della nostra vita, delle nostre speranze, delle nostre paure. Era molto più di un mezzo: era la nostra casa nel mondo. Era la promessa di una nuova direzione.

Siamo saliti su Simba in Italia, con poche certezze e nessuna scadenza. La prima rotta è stata verso ovest: la Francia, poi la Spagna e il Portogallo per un anno di “rodaggio”.

Ad ottobre 2023 salpiamo per il Marocco e abbiamo messo le ruote per la prima volta nel continente africano.
È stato come sbarcare in un mondo parallelo: le strade caotiche, i colori saturi, i profumi forti, la lentezza delle cose e delle parole. Eppure ci siamo sentiti a casa. Forse perché l’Africa non chiede di essere capita: chiede solo di essere vissuta.
Ci siamo lasciati sorprendere, abbiamo messo da parte i giudizi e i pregiudizi e abbiamo iniziato per la prima volta davvero a sentirci non dei semplici viaggiatori ma dei cittadini del mondo.
Poi senza un piano di viaggio né una meta precisa decidiamo di continuare: per dove? Più a sud che si può.

Arriviamo in Mauritania, dopo aver attraversato l’intero Sahara Occidentale, dove il deserto comincia a parlarti davvero. Lì, nel silenzio che copre tutto, abbiamo imparato a fidarci di chi non conoscevamo. La frontiera più complicata, le ore sotto il sole, i volti tesi dei doganieri. E poi un tè offerto da un ragazzo qualunque, il sorriso di chi non parla la tua lingua ma ti capisce lo stesso.

Il Senegal ci ha avvolti con la sua energia. Dakar è stato il primo impatto urbano africano vero, vivo, ruvido e affascinante. Ma è nei villaggi che ci siamo persi, siamo stati ospitati, accolti e ci siamo guardati dentro vedendo che qualcosa stava cambiando.
La Costa d’Avorio è stata il nostro primo vero tempo di pausa. Simba aveva bisogno di attenzioni, e noi di respirare. Lì abbiamo cominciato a sentire il peso e la bellezza della lunga strada che ci aspettava. Non era più solo un viaggio, era diventata una vita vera senza andata né ritorno.
Abbiamo dovuto anche combattere contro la malaria, giusto per farci mancare nulla.
Poi Ghana, Togo e Benin. Ogni paese con la sua anima, il suo ritmo, i suoi confini mentali da attraversare.
In Nigeria ci siamo arrivati con il fiato corto: un passaggio difficile, intenso, ma necessario: attraversiamo quella che è considerata la strada più difficile dell’Africa e lo facciamo con quell’incoscienza che da sempre ci contraddistingue ma senza la quale non saremmo mai arrivati dove siamo oggi.
Poi il Camerun, dove abbiamo vissuto la foresta tropicale, la stagione delle pioggie, la fatica fisica e mentale nel renderci conto che da qui, non si torna più indietro ma si può solo andare avanti.

E ancora il Congo, Cabinda e la Repubblica Democratica del Congo, dove l’Africa mostra i suoi contrasti più duri. Strade che non sono strade, ore passate a scavare Simba fuori dal fango, lunghe attese ai check-point, ma anche bambini che ci salutano con occhi lucenti, uomini che ci aiutano senza voler nulla in cambio, donne che ci insegnano cosa significa forza.

L’Angola ci ha regalato spazi aperti e solitudine. Sabbia, luce, cieli infiniti. Era come attraversare un quadro. Poi la Namibia, che ci ha lasciati senza fiato. La natura più potente che abbiamo mai visto. Ogni giorno un paesaggio che sembrava irreale: deserti scolpiti dal vento, canyon che raccontano la storia della terra, animali liberi.
Il Botswana, natura selvaggia che ti si infila delle viscere, dormire con il respiro degli elefanti a pochi metri dalla tua casa, sorrisi veri e persone buone che ti accolgono come fossi un figlio solo per il piacere di farlo.
Ed eccoci in Sudafrica. Il traguardo simbolico, perché non è mai stato il punto d’arrivo. Ma qui, per la prima volta, ci siamo fermati a guardarci indietro. E ci siamo detti: ce l’abbiamo fatta.

Nel mezzo di tutto questo ci sono state le paure: i momenti in cui ci siamo chiesti se stessimo facendo la cosa giusta. Le notti insonni per le frontiere, le difficoltà con i visti, le spese impreviste, la stanchezza mentale. Ma ogni volta la risposta è arrivata dal fuoco acceso vicino a un fiume, dal caffè bevuto in silenzio, da una chiacchierata improvvisata con qualcuno che non ci aveva mai visti prima ma che ci ha fatto sentire al posto giusto.
Ora siamo di nuovo in Namibia.
Ci riposiamo, sistemiamo Simba, riflettiamo sul prossimo passo. Il nostro sogno è completare tutti i paesi africani visitabili via terra. Mancano Mozambico, Zimbabwe, Zambia, Malawi, Tanzania e infine il Kenya. Lo sentiamo, sarà una parte speciale del viaggio. Un’ultima curva prima di decidere verso quale altro continente continuare.

Stiamo valutando due rotte: spedire Simba in Sudamerica, oppure in Oman per risalire verso l’Asia. Ma il Medio Oriente è instabile, e ogni giorno leggiamo notizie che ci fanno pensare che forse, ancora una volta, sarà l’oceano a chiamarci.

Non abbiamo risposte chiare. Ma sappiamo che vogliamo continuare a camminare – o meglio, a rotolare – dove la strada ci porta. Perché questa vita, per quanto complicata, ci ha insegnato il valore della lentezza, dell’imprevisto, della diversità.
E soprattutto ci ha insegnato che vivere in viaggio non è una vacanza.
Non è svegliarsi ogni giorno in un posto da cartolina, né fare il pieno di tramonti o spiagge deserte. Non è nemmeno sentirsi sempre leggeri e liberi.
La verità è che questa scelta costa. Costa in fatica, in incertezze, in rinunce quotidiane.
Non abbiamo uno stipendio sicuro né rendite a farci vivere sereni, non abbiamo sponsor che ci aiutano nel viaggio, né una base dove tornare a riprendere fiato.
Ogni chilometro percorso è il risultato di un lavoro fatto con costanza, sacrificio e determinazione. Lavoriamo mentre ci spostiamo, incastrando connessioni instabili, ore rubate al sonno, editing in spazi angusti, budget da limare ogni giorno. Non possiamo permetterci tutto, e spesso dobbiamo scegliere cosa lasciar andare: un’attività a pagamento, un’esperienza troppo costosa, un pezzo di ricambio che dovrà aspettare.

Ma non ci manca nulla di ciò che avevamo prima.
Anzi, spesso ci sembra di averci guadagnato. Perché ogni cosa che oggi abbiamo è nostra davvero. Ogni tappa raggiunta, ogni piccolo traguardo, ogni chilometro in più… sono frutto della nostra volontà.
E anche quando ci chiedono se non sia tutto troppo faticoso, troppo incerto, troppo “estremo”, la risposta è sempre la stessa:
sì, è faticoso. Ma è vero.
Non abbiamo scelto di viaggiare per fuggire, ma per andare incontro: incontro a noi stessi, agli altri, al mondo così com’è, senza filtri.
E questo – pur tra mille difficoltà – è il privilegio più grande.

In un mondo che tende ad avere paura di ciò che è diverso, noi abbiamo scelto di attraversarlo. Non per raccontarlo da fuori, ma per viverlo da dentro. E ogni volta che ci fermiamo in un posto e un bambino ci guarda curioso, ogni volta che Simba si sporca di fango o polvere, ogni volta che ci manca una doccia o un letto vero, ci ricordiamo perché lo stiamo facendo.
Perché questa vita non è perfetta, ma è piena.
Perché non ci siamo mai sentiti così vivi.
Perché, in fondo, la strada è casa.

Chiara, Giulio e Yuki
IVagamondi

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