17/12/2025
Vite vere, l’app per vivere la disabilità con maggiore autonomia
Lo scorso maggio, durante il TEDx a Padova, è salito sul palco un ingegnere informatico che ha presentato un progetto dal forte impatto sociale. Si chiama Guido Marangoni e ha realizzato l’applicazione Vite Vere, un supporto innovativo che aiuta ragazzi con disabilità intellettiva a svolgere attività quotidiane in autonomia. Guido è il papà di Anna, una bambina con sindrome di Down. Per chi, come lei, affronta ogni giorno sfide legate all’autonomia, ha sviluppato un’ app capace di fornire assistenza concreta nella gestione domestica e lavorativa. Grazie all’intelligenza artificiale di Google Gemini, integrata nel sistema, l’applicazione analizza le foto scattate dagli utenti e restituisce istruzioni precise tramite una guida audio. Lo scorso anno Vite Vere è stata premiata alla competizione mondiale “Gemini API Developer Competition” di Google, ottenendo due riconoscimenti: Most Impactful App e People’s Choice Award. Questo risultato ha portato il progetto di Guido all’attenzione internazionale.
Prima dell’app esisteva già la Fondazione Vite Vere. Come ti sei avvicinato al mondo della disabilità?
Ho sempre frequentato ambienti parrocchiali e ho fatto il volontario in realtà che si occupano di persone diverse, come l’Opera della Provvidenza S. Antonio di Padova. Poi è arrivata Anna, la mia terza figlia, che ha la sindrome di Down. Da quel momento ho iniziato a frequentare la cooperativa Vite Vere. Successivamente ho contribuito alla nascita della Fondazione Vite Vere Down Dadi, di cui sono co-fondatore.
Qual è il tuo background professionale?
Sono un ingegnere informatico, ma in parallelo ho sempre coltivato la passione per il teatro e la comicità. Ho frequentato diversi laboratori di Zelig, che mi hanno aiutato a raccontare meglio la disabilità in chiave leggera. L’arrivo di Anna è stato per me un punto di svolta: ho deciso di unire le competenze tecniche a quelle comunicative, iniziando con una rubrica sul Corriere della Sera dal titolo “Buone notizie secondo Anna”. Il messaggio è semplice: la disabilità, specialmente quando viene annunciata, può sembrare una br**ta notizia. Ma la persona che c’è dietro è sempre una buona notizia.
Dalla fondazione alla realizzazione dell’app: come è nata questa scelta?
All’interno della fondazione abbiamo creato appartamenti-palestra, luoghi dove ragazzi e ragazze possano sperimentare momenti di autonomia: cucinare, fare la spesa, riordinare la stanza. Attività che per molti sono scontate, ma che per chi ha una disabilità intellettiva richiedono tempo e supporto. Da qui è nata la volontà di utilizzare l’intelligenza artificiale in modo “buono”, creando un prototipo che ha attirato l’attenzione di Google. L’app Vite Vere fornisce istruzioni passo-passo per svolgere le attività quotidiane, aiutando così chi la utilizza a diventare più indipendente. Hai partecipato a un concorso internazionale di Google API Gemini.
Com’è stata questa esperienza?
L’anno scorso Google ha lanciato un concorso globale invitando gli sviluppatori a creare app basate sull’intelligenza artificiale Gemini. Il concorso è andato al di là di ogni aspettativa e di ogni sogno. L’app è stata premiata come applicazione a maggiore impatto e più votata al mondo. Questo mi ha dato grande visibilità, specialmente nell’ambito tecnico. Ho potuto partecipare all’evento mondiale di Google a Las Vegas e il ministro della Disabilità, Alessandra Locatelli, mi ha invitato a presentare l’app come buona pratica alle Nazioni Unite a New York. Ora sto lavorando alla creazione di una startup tecnologica, perché se l’app verrà utilizzata da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, serviranno strumenti solidi per garantirne la scalabilità.
Come l’app favorisce davvero l’autonomia?
C’è una frase che ripeto spesso: ognuno di noi vuole essere autonomo, ma per esserlo davvero ha bisogno degli altri. Autonomia non significa fare tutto da soli, ma essere messi nelle condizioni di dare il proprio contributo, di partecipare alla vita sociale. Questa frase mi sta molto, molto a cuore perché voglio comunicare che quando si pensa all’autonomia questa comporta dignità, possibilità di partecipare alla vita del mondo sociale. Significa essere messo nella condizione di scegliere le cose, di mettere a posto la camera, fare la spesa, cose all’apparenza molto semplici. La mia paura è quella che l’intelligenza artificiale venga vista come uno strumento un po’ pericoloso e alienante, capace di sostituire in qualche modo l’aiuto degli altri. Invece è il contrario. Vuole essere di supporto a tutte le attività che vengono fatte da genitori, da operatori, da strutture, per questi percorsi di autonomia.
In un TEDx, Power of Weakness sulla potenza e fragilità, hai detto che le persone, quando si parla di disabilità, tirano fuori il lato migliore e che le paure che si riescono a guardare in faccia si trasformano in coraggio.
In quale momento hai imparato questa lezione e come hai trasformato la tua paura in coraggio?
La diversità ci fa paura, soprattutto quella che non conosciamo o, meglio ancora, la diversità con la quale non siamo abituati a relazionarci normalmente. Questo capita spesso con la disabilità, che è un amplificatore di questa dinamica. Quando proviamo quell’imbarazzo, c’è la possibilità di avere un incontro. Molto spesso rinunciamo a questi incontri, definendo già chi c’è dall’altra parte. Dobbiamo rendere la zona di imbarazzo un po’ più accogliente, ma anche più leggera, non prendendoci troppo sul serio. Ho notato che nel momento in cui racconto la mia fragilità, dall’altra parte ho un riscontro positivo. Io sono convinto che gli incontri più potenti fatti nella nostra vita li abbiamo quando ci siamo sentiti liberi di raccontare le nostre fragilità o comunque come siamo realmente.
Puoi fare un esempio?
Quando vado a parlare nelle scuole con i ragazzi, dico loro: adesso dobbiamo fare un patto. Quando nominerò Anna, nella vostra mente sostituitela col vostro nome, e quando nominerò sindrome di Down, sostituitela con una vostra fragilità, con una cosa che non dite a nessuno, che vi pesa. E’ un esercizio semplice ma potente, che ci aiuta a guardare dentro di noi e a capire che la fragilità, condivisa, può trasformarsi in forza. La leggerezza e l’auto-ironia si allenano entrando nella zona di imbarazzo, e sono due qualità fondamentali per mantenere aperti i canali di comunicazione.
Articolo di Marco Camporese