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L’Italia discute e si divide da venti anni su una legge per la difesa del suolo. L’Istituto per la Protezione Ambientale...
25/07/2025

L’Italia discute e si divide da venti anni su una legge per la difesa del suolo. L’Istituto per la Protezione Ambientale vi dedica studi e ricerche di valore, da cui emerge che più di due terzi del Paese è a rischio sismico, idrogeologico, climatico con effetti immaginabili sui territori. Dal punto di vista ambientale ed economico un suolo non protetto è una falla da riparare. Dove mettiamo i piedi, viviamo e lavoriamo è un elemento inseparabile della condizione umana. Dovremmo averne tutti maggiore consapevolezza. Ma non succede. In Veneto in questi giorni prende vita una collaborazione tra la Regione, Veneto Agricoltura, Arpav, Avepa, Università, per fare qualcosa di concreto. Un progetto che mira a mettere sotto controllo ettari ed ettari di terreno a cominciare dall’agricoltura. Il progetto usa dati satellitari, i quali dovranno avere effetti anche sull’impiego delle macchine agricole. Partire dall’agricoltura, per la Regione è un passo fondamentale. ”I dati satellitari assumono un ruolo di primo piano nel controllo del consumo del suolo e nelle attività di monitoraggio dell’ambiente e del territorio che si trova a essere colpito con maggiore frequenza da eventi meteo estremi” ha spiegato l’assessore alla Pianificazione territoriale Cristiano Corazzari. É stato lui a presentare tre accordi di collaborazione con Enti e Università per imprimere una svolta a livello regionale. Il primo accordo è tra Regione e Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto (Arpav) per attività di monitoraggio dell’uso e del consumo di suolo in generale. Il secondo accordo coinvolge Veneto Agricoltura – Agenzia veneta per l’innovazione nel settore primario e Agenzia veneta per i pagamenti (Avepa)- e interessa attività per produzione e acquisizione di dati satellitari per il posizionamento di alta precisione. L’obiettivo del terzo accordo con l’Università di Padova interessa, infine, le attività geologico-idrogeologico, geografico, geodetico-cartografico, idraulico, agrario, energetico e ambientale.Tutti e tre insieme gli accordi dovrebbero fare del Veneto la Regione italiana all’avanguardia nella costruzione di azioni di tutela del suolo. La collaborazione tra la Regione e gli altri soggetti consentirà la diffusione sul territorio delle più innovative tecniche di utilizzo dei dati satellitari. Un pacchetto integrato su cui si concentrano interessi convergenti. L’atteggiamento è di fiducia anche perché l’Università dí Padova avrà un ruolo determinante nella ricognizione di ciò che accade in concreto. Già allo studio strumenti di indagine basati sull’Intelligenza Artificiale. Il proseguimento della collaborazione con l’Ateneo, rinnovato per altri cinque anni, assieme a quella con Veneto Agricoltura e Avepa garantiranno a imprese, professionisti e cittadini anche l’accesso gratuito ai dati satellitari. Se le tre collaborazioni andranno in porto, sarà poi difficile non riportare nella pratica e nelle politiche ambientali i dati satellitari. Tutto andrà reso compatibile con il quadro normativo nazionale e regionale, ma il traguardo devono essere proposte concrete per ridurre il consumo indiscriminato di suolo. Una Regione martoriata dice di voler creare un quadro “solido e armonizzato e il miglioramento del flusso di informazioni ai diversi livelli locale, nazionale ed europeo”.Vediamo la partenza.

di Nunzio Ingiusto

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C’è un mondo che ci hanno promesso e un mondo che stiamo costruendo. Il primo è quello raccontato dalle pubblicità: bril...
23/07/2025

C’è un mondo che ci hanno promesso e un mondo che stiamo costruendo. Il primo è quello raccontato dalle pubblicità: brillante, connesso, comodo. Il secondo è quello in cui viviamo davvero: fragile, inefficiente, dominato da dispositivi che si parlano solo tra loro – quando va bene – e che ci impongono regole che non abbiamo scelto. Siamo circondati da 15 miliardi di oggetti connessi nel 2023, destinati a diventare oltre 50 miliardi entro il 2030, secondo la stima dell’International Data Corporation (IDC) . Dalla lavatrice al termostato, dalla serratura al frigorifero, ogni oggetto pretende di essere “intelligente”. Ma cos’è l’intelligenza se non sa funzionare quando la rete va giù? Se non protegge la nostra privacy? Se ci trasforma in automi obbedienti che dicono “Siri, apri la porta”, mentre dimenticano dove stanno le chiavi di casa?Amber Case – antropologa del futuro e autrice del concetto di Calm Technology – lo dice con chiarezza: “Il mondo non è un desktop”. Ma noi lo stiamo progettando come se lo fosse, caricandolo di pop-up, notifiche, aggiornamenti forzati, dipendenza dal cloud. Invece di liberarci, la tecnologia ci trattiene. Ci isola. Ci prosciuga l’attenzione, che diventa la risorsa più rara e contesa dell’epoca digitale. Abbiamo barattato la solidità dell’hardware con l’effimero del software. Un tempo un computer durava dieci anni. Oggi il ciclo vitale di uno smartphone si aggira tra i 18 e i 24 mesi. E non lo dico io, ma Greenpeace: ogni anno vengono generati oltre 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici. Oggetti concepiti non per durare, ma per essere scartati. Obsolescenza programmata? No: obsolescenza accettata. Il design, che un tempo era arte, mestiere, visione, oggi è spesso complice. Progetta per vendere, non per durare. Progetta per sedurre, non per servire. Eppure ci sono voci che resistono. Come quella di Jonathan Chapman, che parla di emotional durability, la durabilità emozionale degli oggetti. “È una questione di amore, attaccamento, significato. Non solo di materiali e circuiti”. Un oggetto dovrebbe migliorare con l’uso, non degradarsi. Come un paio di jeans che si scoloriscono con orgoglio, non come uno smartphone che rallenta con ogni aggiornamento. Come le tazze di Andy Brayman, che rivelano un messaggio segreto solo dopo essere state usate e lavate decine di volte. Un design che sa invecchiare, come noi. Non uno che ci umilia appena esce il modello nuovo.
Ma il vero scandalo non è solo nella fragilità. È nella dipendenza. Stiamo costruendo un mondo dove l’accesso alla luce, all’acqua, perfino all’aria condizionata, può dipendere dal funzionamento di un’app. E se il server si blocca? Se il cloud si spegne? Resteremo al buio, assetati, accaldati. Bloccati. Impotenti. Come lo fu l’autrice del saggio quando, in un parcheggio di Denver, si ritrovò con un’auto a noleggio che non superava i 30 all’ora, senza nessuno in grado di aiutarla. Perché? Perché i sistemi non si parlavano. Perché nessun essere umano era previsto come backup. Il paradosso è che chi più connette, più isola. Il frigorifero non parla alla stampante. Il termostato non dialoga con il bracciale fitness. Il cittadino non riesce a capire chi ha i suoi dati. E quando le cose vanno storte – come vanno sempre, in questo mondo reale – ci ritroviamo soli. A spiegare il problema dieci volte a dieci operatori diversi. A mendicare assistenza da sistemi progettati senza empatia. Vogliamo davvero un futuro così? Un futuro dove “la rete” sa tutto di noi, ma non ci conosce? Dove Google anticipa i nostri desideri, ma non ci ascolta quando diciamo “basta”? Dove l’esperienza utente è più importante dell’esperienza umana? La risposta non è un altro gadget. Non è l’ennesima start-up con una soluzione per un problema inventato. È tornare all’essenza del design. Fare meno, ma farlo bene. Semplice, modulare, trasparente. Progettare per la durata, non per l’effetto wow. Costruire un’estetica della sobrietà, non della seduzione. E infine: restituire al design una missione politica. Perché ogni oggetto progettato oggi è un atto che definisce il mondo di domani. O scegliamo un design che emancipa, o avremo un design che sorveglia. O scegliamo un design che dura, o avremo un pianeta sommerso dai rifiuti. O scegliamo un design che ci somiglia, o finiremo per somigliare noi ai nostri oggetti. Il futuro non è un giocattolo. È una responsabilità. E chi progetta, chi produce, chi compra – anche chi scrive – dovrebbe ricordarselo ogni giorno.

di Isabella Zotti Minici

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✍️ di Isabella Zotti Minici

Ho letto il nuovo report di Klecha & Co. come si legge un bollettino di guerra. Non solo perché si intitola “Aiming at W...
21/07/2025

Ho letto il nuovo report di Klecha & Co. come si legge un bollettino di guerra. Non solo perché si intitola “Aiming at World Domination”, ma perché racconta, con brutale chiarezza, ciò che molti fingono di non vedere: siamo dentro una guerra fredda. Non tra ideologie, ma tra civiltà tecnologiche. E, come sempre, l’Europa dorme. Mentre ci trastulliamo con regolamenti, commissioni e buone intenzioni, il mondo corre. O meglio: corre a est e a ovest. Gli Stati Uniti, tornati sotto Trump, hanno deciso che la supremazia tecnologica è una questione di sopravvivenza nazionale. Palantir, SpaceX, Anduril non sono più aziende: sono ministeri paralleli. Il Pentagono li finanzia, li ascolta, li usa. La nuova corsa agli armamenti non si combatte con i carri armati, ma con i chip quantistici e gli algoritmi generativi. Nel 2023, gli USA hanno investito 67,2 miliardi di dollari in intelligenza artificiale, contro i 7,8 miliardi della Cina e le briciole dell’Europa. E nel gennaio 2025, è nato il Progetto Stargate: un’iniziativa da 500 miliardi guidata da OpenAI, SoftBank e Oracle per costruire l’infrastruttura AI del secolo. Non è fantascienza. È politica industriale. Dall’altro lato, la Cina. Non ha bisogno di Wall Street. Ha lo Stato. E lo usa. Ha lanciato il modello DeepSeek a 5 milioni di dollari, quando GPT-4 ne è costati cento. E ha già costruito il suo “Sole artificiale” – un reattore a fusione che ha mantenuto 100 milioni di gradi per oltre 1.000 secondi. Intanto, stringe patti in Africa, in America Latina, nel Sud-est asiatico. Il futuro che sognava Marco Polo sta diventando realtà. Solo che ora si chiama Digital Silk Road. E l’Europa? L’Europa balbetta. Regola. Sanziona. Discute. Pubblica rapporti. Come quelli di Draghi e Letta, che dicono cose sensatissime: investire 800 miliardi all’anno in innovazione, creare una “quinta libertà” per la ricerca, costruire una difesa comune, finanziare con eurobond la nuova rivoluzione industriale. Ma sono parole. Senza il coraggio politico per trasformarle in potere, resteranno carta. Nel frattempo, perdiamo terreno. Nel 2000, l’Eurozona rappresentava il 27% dei brevetti globali. Oggi siamo al 6%. La Cina è al 47%. Noi ci vantiamo del GDPR, dell’AI Act, della regolazione etica. Ma con l’etica non si vincono le guerre. E questa è una guerra. Una guerra per l’energia (fusione, idrogeno, batterie), per il cervello (AI), per il tempo (quantistica), per il controllo dei dati. Una guerra per la sopravvivenza industriale. Gli USA costruiscono supercomputer e missili ipersonici con le startup. La Cina integra AI e esercito con le sue SOE. L’Europa chiude centrali nucleari e discute la tassonomia verde. Draghi lo dice chiaro: se non cambiamo rotta, finiremo nella “middle technology trap”. Saremo competitivi quanto basta per sopravvivere, ma mai abbastanza per guidare. Come un atleta costretto a correre col freno a mano tirato. Eppure, un’altra via esiste. Non può ve**re solo dai palazzi di Bruxelles. Deve partire anche dalle imprese. Dall’industria, dal mondo finanziario, dai centri di ricerca. Serve un’alleanza nuova tra pubblico e privato, tra capitale e visione, tra tecnologia e responsabilità. Non possiamo limitarci a essere regolatori del passato. Dobbiamo diventare architetti del futuro. Investire, rischiare, attrarre talenti. Costruire, non solo correggere.

di Isabella Zotti Minici

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Climate Change lancia un messaggio chiaro (e allarmante): se la temperat...
20/07/2025

Un nuovo studio pubblicato sulla rivista Nature Climate Change lancia un messaggio chiaro (e allarmante): se la temperatura media globale supererà anche solo temporaneamente il limite di 1,5 °C rispetto all’era preindustriale, i danni ai ghiacciai del mondo saranno in gran parte irreversibili. Anche se in futuro riuscissimo quindi a contenere o ridurre il riscaldamento, molte delle perdite subite non potrebbero più essere recuperate.

Il gruppo internazionale di ricercatori, provenienti dall’Università di Bristol e Innsbruck, che ha condotto lo studio ha analizzato cosa accadrebbe in due scenari: uno in cui la temperatura resta stabilmente sotto la soglia critica dei 1,5 °C, e uno in cui si supera temporaneamente (fino a +3 °C), per poi scendere di nuovo. I risultati purtroppo non lasciano spazio all’ottimismo: nello scenario con “overshoot”, cioè con superamento temporaneo, i ghiacciai perderebbero fino all’11% di massa in più entro il 2500 rispetto a uno scenario senza superamento, e si tratta di una perdita che non verrebbe più recuperata.

Negli ultimi anni si è molto discusso sulla possibilità di superare temporaneamente il limite dei +1,5 °C, con l’idea che si possa poi “raffreddare” il clima grazie a nuove tecnologie, energia pulita e strumenti di cattura della CO₂. Questo studio mette in dubbio quella visione ottimistica, l’effetto del surriscaldamento momentaneo resterebbe infatti impresso nei ghiacciai per secoli.

I ghiacciai reagiscono notoriamente con estrema lentezza ai cambiamenti climatici; quindi, una volta iniziato il processo di scioglimento, anche se le temperature dovessero scendere di nuovo, il danno sarebbe ormai fatto. Il ghiaccio impiegherebbe poi secoli, se non millenni, per riformarsi.

Lo studio [1] ha analizzato 144 regioni glaciali in tutto il mondo e i ghiacciai più colpiti da questo meccanismo irreversibile sono quelli di grandi dimensioni e situati alle alte latitudini, come quelli in Alaska, Canada, Islanda e Patagonia. Per questi, anche un ritorno sotto i +1,5 °C non basterebbe a fermare il declino. Invece, gli ammassi glaciali delle zone montuose a latitudini più basse, come nelle Alpi, sull’Himalaya o in Nuova Zelanda, hanno una reazione più rapida. In alcuni casi mostrano una lieve capacità di riprendersi nel lungo periodo, ma comunque mai tornando ai livelli pre-overshoot.

Una delle scoperte più interessanti, ma anche preoccupanti, riguarda il cosiddetto “trough water”, cioè una diminuzione del deflusso d’acqua dai ghiacciai dopo il superamento della soglia climatica. È l’effetto opposto del noto “peak water”, in cui lo scioglimento dei ghiacci porta a un aumento temporaneo dell’acqua disponibile.

Con l’overshoot, il cambiamento si inverte: i ghiacciai iniziano a fornire meno acqua rispetto allo scenario senza sforamento, e lo fanno per decenni, se non secoli. Questo significa che in molte regioni del mondo, specie in quelle che dipendono fortemente dall’acqua dei ghiacciai per irrigazione, energia o consumo umano, si rischia una crisi idrica latente, nonostante il ritorno a condizioni climatiche più stabili. Questo calo del deflusso toccherà circa la metà dei bacini fluviali glaciali entro il 2100, e, ancora una volta, sarà un cambiamento difficile da invertire.

Con la scomparsa progressiva dei ghiacciai, il primo effetto visibile sarà l’innalzamento del livello del mare, ma il problema più urgente, specie per le popolazioni di montagna o per intere regioni dipendenti dall’acqua glaciale, sarà la perdita di una risorsa essenziale.

Pensiamo all’Asia centrale, al bacino del Gange, alle Ande o alle Alpi. In tutte queste aree, milioni di persone usano l’acqua dei ghiacciai per irrigare i campi, produrre energia idroelettrica e dissetarsi. Una riduzione del flusso significa più siccità, meno energia, più competizione per le risorse.

In breve: anche se vincessimo la battaglia climatica a lungo termine, rischiamo nel frattempo di perdere risorse vitali.

Il messaggio che arriva da questo studio è inequivocabile: non possiamo permetterci neppure un superamento temporaneo della soglia di 1,5 °C, che in molte parti del mondo è però già una realtà. I costi, in termini ambientali e economici, sarebbero troppo alti. I ghiacciai, in qualità di sentinelle del clima, ci stanno lanciando un allarme silenzioso e, per una volta, non possiamo dire di non essere stati avvisati. In questo caso non esistono “riparazioni” per alcune ferite del clima.

Lo studio aggiunge una prospettiva innovativa ai rischi associati al superamento della soglia del riscaldamento globale. Molte valutazioni “classiche” si concentrano su ecosistemi, atmosfera, permafrost, ma questa ricerca mette al centro i ghiacciai come indicatori e vittime irreversibili dell’overshoot. In particolare, l’effetto “trough water” evidenzia come, anche se si riesce a riportare le temperature sotto la soglia pattuita, gli impatti sul ciclo idrologico possano persistere, con conseguenze reali e misurabili su scala locale.

Il tempo per agire è adesso, non tra 30 o 50 anni.

✍️ di Pietro Bonicioll, per HUmane

Che cos’è il futuro, se non una promessa tradita ogni volta che ci riuniamo per parlarne? Quest’estate, come ogni estate...
18/07/2025

Che cos’è il futuro, se non una promessa tradita ogni volta che ci riuniamo per parlarne? Quest’estate, come ogni estate, le Nazioni Unite celebreranno la loro liturgia planetaria a New York: l’High-Level Political Forum on Sustainable Development. Un nome interminabile, pomposo, quasi ridicolo, come se la complessità bastasse a legittimare l’impotenza.
Dal 14 al 23 luglio 2025, ministri, ambasciatori, burocrati, accademici e attivisti riempiranno le sale vetrose del Palazzo di Vetro per declamare la loro fede nei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile stabiliti dall’Onu 10 anni fa. Quest’anno – dicono – si concentreranno su salute, parità di genere, lavoro dignitoso, oceani e partenariati. Un elenco nobile, sacrosanto. Ma io mi chiedo: quante volte lo abbiamo già letto, ripetuto, applaudito? E quante volte lo abbiamo tradito?
Non si tratta di un convegno qualunque. Si tratta dell’ennesimo appello disperato a un’umanità che ha firmato il suo stesso suicidio. I dati ci urlano contro: il cambiamento climatico divora le stagioni, gli oceani si riscaldano come febbri tropicali, le specie scompaiono con la discrezione dei morti di fame. I nostri mari sono pattumiere chimiche. I nostri lavoratori, numeri sacrificabili in una contabilità globale che chiama “efficienza” il ricatto e “flessibilità” la schiavitù.
Eppure ci ritroveremo lì, a parlare ancora. A redigere “Voluntary National Reviews”, come se bastasse la confessione pubblica dei nostri peccati a lavarli. A organizzare “side events” dai titoli accattivanti – Evidence to Impact, Science Day – per dare alla coscienza un alibi scientifico. A vantare la presenza delle donne nei panel, quando nel mondo reale partoriscono sotto le bombe, muoiono di parto, vengono vendute come bestiame e non possono nemmeno accedere all’istruzione.
Dicono che il Forum è «la sede principale per il follow-up della Agenda 2030». L’Agenda 2030: un manifesto di speranza, scritto nel 2015, che oggi suona come una lettera dal fronte di una guerra persa. Mancano cinque anni alla scadenza. Cinque. E siamo più lontani dagli obiettivi di quanto non fossimo ieri.
Non è che non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo benissimo. Ridurre le emissioni. Proteggere le acque. Investire in salute e istruzione. Redistribuire ricchezza. Ma non vogliamo pagare il prezzo politico, economico, culturale che questo comporta. Vogliamo la pace senza rinunce, la giustizia senza scontentare i potenti, la prosperità senza ridurre il nostro lusso.
Sarebbe ingiusto, però, deridere in modo indiscriminato chi partecipa al Forum. Molti ci credono. Lottano. Denunciano. Portano la voce di chi non ne ha. Alcuni governi presenteranno davvero bilanci coraggiosi. Ma non basta. Perché la verità è che il sistema stesso – questo mondo regolato dal denaro e dal potere – è irriformabile senza uno scossone radicale. E il Palazzo di Vetro non è stato costruito per i terremoti, ma per contenerli.
Voglio però credere che qualche giovane delegato, qualche tecnico onesto, qualche ministro stanco di mentire possa alzarsi e dire: «Basta. Basta bugie. Basta promesse vuote». Che possa gridare come Antigone davanti al re: «Non obbedirò a leggi ingiuste».
Perché di questo abbiamo bisogno. Non di un altro rapporto. Non di un altro piano decennale. Ma di una coscienza. Una coscienza globale che smetta di dividersi in nazioni, razze, caste, generi. Una coscienza che non abbia paura di rinunciare a un privilegio per salvare una vita.
A luglio, a New York, si celebra la grande messa della sostenibilità. Vi prego, almeno stavolta, non dite «Amen» senza sapere cosa state consacrando.

Articolo di Isabella Zotti Minici
LEGGI I NOSTRI ARTICOLI: https://www.humaneworldmagazine.com/hlpf-2025-la-liturgia-del-futuro-tradito/

L’ambiente in Italia? Tra ecomafie e leggi in frigorifero.40 mila: un numero che spaventa solo chi l’ambiente lo vuole t...
17/07/2025

L’ambiente in Italia? Tra ecomafie e leggi in frigorifero.

40 mila: un numero che spaventa solo chi l’ambiente lo vuole tutelare. E il resto? Beh, diciamo che non ci fanno caso. 40 mila sono i reati commessi contro l’ambiente in un solo anno. Li ha classificati, come accade da molti anni, Legambiente con il Rapporto sulle Ecomafie. Appuntamento fisso che ci tocca onorare. A quelli che al Rapporto non ci fanno caso, evidentemente, non interessa nemmeno che da un anno all’altro i pasticci anti-ambiente siano aumentati quasi del 15 % : al ritmo di 4,6 all’ora. Ma lo Stato dov’è ? A scegliere le ditte che devono fare i lavori pubblici. Un momento, di cosa parliamo ? Di un paradosso. Certo, perché da una parte lo Stato nelle sue mille articolazioni assegna i lavori e dall’altra è costretto a fare inchieste sulla corruzione negli appalti di carattere ambientale. Le maglie per sfuggire ai controlli sono ancora troppo larghe. Il Paese dei furbi non dorme mai e il pragmatismo di chi non si cura del contesto ambientale in cui agisce. è la cifra distintiva, purtroppo, di decine di imprese. In un anno sono state denunciate più di 37 mila persone coinvolte in traffico di rifiuti, smaltimento illegale, abusi edilizi. Nei tribunali aumentano i faldoni, le memorie degli avvocati e dei periti. Vuoi che la patria del diritto neghi a chicchessia il diritto (repetita ) di difendersi ? E, pensa un po’, anche di farla franca, mentre il giro delle ecomafie è salito a 9,3 miliardi di euro ? Chi ne gode ? Migliaia di connazionali, probi cittadini, che magari presentano regolarmente la dichiarazione annuale dei redditi, ma truccata. Nessuno farà mai una rivoluzione contro costoro, perché, come diceva Ennio Flaiano, in Italia ci si conosce tutti.

Chi scrive queste righe la pensa come Stefano Ciafani, Presidente di Legambiente “Nella lotta alla criminalità ambientale l’Italia acceleri il passo con il recepimento della direttiva europea sulla tutela penale dell’ambiente” e ci illudiamo che accada. Non solo io e Ciafani, spero. Il Parlamento dovrebbe farlo entro maggio 2026, ma c’è la voglia di concludere tutto nei tempi giusti ? Il disegno di legge ha già avuto un primo via libera dal Senato e ora è in discussione alla Camera. Basta poco per riprenderlo e arrestare un degrado insopportabile. Anche per coloro che non ci fanno caso.

Articolo di Nunzio Ingiusto
https://www.humaneworldmagazine.com/lambiente-in-italia-tra-ecomafie-e-leggi-in-frigorifero/

Negli ultimi trent’anni, il nostro rapporto con la tecnologia ha trasformato radicalmente il modo in cui pensiamo, ricor...
13/07/2025

Negli ultimi trent’anni, il nostro rapporto con la tecnologia ha trasformato radicalmente il modo in cui pensiamo, ricordiamo, risolviamo i problemi. Smartphone, motori di ricerca, assistenti vocali e ora l’Intelligenza Artificiale generativa hanno reso immediatamente accessibili risorse e capacità computazionali che un tempo richiedevano sforzo mentale.
Non sorprende che gli studiosi parlino ormai di “intelligenza bionica”: un’ibridazione tra mente umana e strumenti esterni che ne amplificano le potenzialità. «Non ci limitiamo più a usare la tecnologia», scrive il filosofo Luciano Floridi, «diventiamo noi stessi nodi in un infosfera che ci trasforma». (The 4th Revolution, Oxford University Press, 2014)
Ma se la nostra intelligenza si espande grazie alle macchine, si riduce la necessità di svolgere alcune funzioni cognitive in autonomia. Studi come quello di Betsy Sparrow e colleghi (2011) hanno mostrato che la disponibilità costante di Google non solo ci fornisce risposte immediate, ma cambia come ricordiamo: non memorizziamo più le informazioni, ma dove trovarle.
Questa esternalizzazione delle funzioni mentali ha un prezzo. Numerose ricerche hanno documentato il cosiddetto reverse Flynn effect: il declino del quoziente intellettivo medio in diversi Paesi dal 1990 in avanti. Bratsberg e Rogeberg (2018) hanno analizzato dati norvegesi su ampie coorti di leva militare, evidenziando un calo generazionale di circa 7 punti di QI in pochi decenni.
Le cause sono multifattoriali: cambiamenti nello stile di vita, nell’educazione, nella dieta. Ma un fattore chiave, sostengono alcuni studiosi, è l’adattamento del cervello a un ambiente in cui calcolare, ricordare, analizzare non è più necessario nella stessa misura. Il cervello umano ottimizza sempre per l’efficienza: se la macchina fa il lavoro, non serve più che lo facciamo noi.
Si sta creando così un paradosso: diventiamo più “potenti” in quanto ibridi uomo-macchina, ma meno autonomi. Floridi la chiama la transizione dall’essere “agenti” a “pazienti” informazionali: sempre più destinatari passivi di contenuti generati da altri – umani o algoritmi.
A fronte di questa trasformazione, molti studiosi si chiedono cosa resti davvero “umano” in senso distintivo. Se l’intelligenza calcolante non è più esclusiva nostra, qual è il confine?
Per molti la risposta è la coscienza.
Non la capacità di risolvere problemi, ma la capacità di avere esperienze soggettive. Di percepire il mondo in prima persona. Di sapere di esistere.
Questa dimensione è diventata un fronte caldo della ricerca neuroscientifica e filosofica. Modelli come la Integrated Information Theory (IIT) di Giulio Tononi cercano di quantificare la coscienza come la capacità di integrare l’informazione in modo unificato. «La coscienza è ciò che è, di per sé», scrive Tononi. «È il modo in cui l’informazione si sente dall’interno» (A Voyage from the Brain to the Soul, Pantheon, 2012).
Altri, come Roger Penrose e Stuart Hameroff, hanno proposto un modello più radicale e controverso: Orch-OR. Qui la coscienza non sarebbe un semplice prodotto del cervello classico, ma emergerebbe da fenomeni quantistici non computabili. Penrose sostiene che la coscienza implica processi fisici ancora non spiegati dalla scienza classica, legati al collasso della funzione d’onda (Shadows of the Mind, Oxford, 1994).
Su questo complesso confine tra scienza, filosofia e fisica si muove anche Federico Faggin, padre del primo microprocessore e innovatore visionario. Nel suo libro Irriducibile (Mondadori, 2022) Faggin racconta la sua evoluzione da ingegnere a esploratore della coscienza. Per lui la coscienza non è un algoritmo riproducibile, né un simulacro digitale. È un’esperienza primaria e irriducibile, radicata nella natura stessa della realtà.
“La coscienza è la capacità di avere un’esperienza interiore, di sentire. È ciò che ci rende vivi e umani. È la base di ogni valore.» (Irriducibile, p. 15).
Faggin contesta l’idea che l’IA possa mai diventare cosciente. Per lui, la coscienza è una proprietà ontologica dell’universo che si manifesta in sistemi viventi. Non può essere emulata da simboli e algoritmi.
Ma qui si apre la domanda più inquietante. Se la coscienza è una proprietà fondamentale dell’universo – non un prodotto esclusivo della nostra biologia – potrebbe emergere altrove? In altri esseri viventi? In forme di vita non terrestri? O persino in sistemi artificiali complessi?
L’ultimo confine dell’umano potrebbe non appartenerci più in esclusiva.
Oggi, mentre la nostra intelligenza diventa sempre più bionica, siamo costretti a chiederci: cosa significhi davvero essere coscienti? E siamo pronti ad accettare che potremmo non essere soli in questa condizione?

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Il fast fashion è un trend che ha origine principalmente in Europa e negli Stati Uniti, per diffondersi a livello mondia...
12/07/2025

Il fast fashion è un trend che ha origine principalmente in Europa e negli Stati Uniti, per diffondersi a livello mondiale. Ha creato gravi effetti in termini ambientali e sociali, con capi di abbigliamento realizzati in situazioni degradanti e ad alto tasso di inquinamento.

Questa “moda veloce” comporta la capacità di alcune imprese di introdurre sul mercato un articolo in tempi ristretti. Solitamente, dalla scelta delle tendenze e delle materie prime per arrivare al commercio del prodotto in negozio, trascorrono mediamente due anni. Nel caso del fast fashion il ciclo di vita dei prodotti è solo di qualche settimana.

A causa di questa tendenza, la quantità di vestiti realizzati, e successivamente gettati via, è aumentata drasticamente. Così i capi, sotto forma di rifiuto, hanno raggiunto un ammontare di 58 milioni di tonnellate nel 2000. Oggi si stima che il numero sia più del doppio, mentre nel 2030 si prevede che arriveranno a 145 milioni.

Oltre al brand Zara, che costituisce parte del gruppo Inditex, sul mercato ci sono altri marchi dai costi molto contenuti, quali ad esempio H&M. In più si sta affermando l’ultra-fashion, l’acquisto massiccio di capi tramite le piattaforme di vendite online.

In termini di rifiuti, secondo le stime, a livello europeo ogni consumatore getta 11 kg di rifiuti all’anno, di cui l’87% finisce direttamente in discarica.

Stando ai dati diffusi dall’UNEP, Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, gli stabilimenti tessili generano un volume d’affari pari a 1,5 trilioni di dollari annualmente. Al tempo stesso sono responsabili fino all’8% delle emissioni totali di gas serra e generano il 9% di microplastiche negli oceani.

Oltre all’effetto ambientale c’è anche un’allerta direttamente correlata alla salute di chi acquista questi prodotti. La rivista tedesca Oko-test, infatti, l’anno scorso ha svolto un’indagine su molti capi del colosso cinese Shein, rilevando una presenza allarmante di sostanze chimiche tossiche. Questa inchiesta ha esaminato 21 articoli per ogni età, dai neonati agli adulti, e un paio di scarpe per ciascuna fascia. I risultati hanno mostrato che la maggior parte dei prodotti non ha superato il test, e solamente un terzo degli articoli ha ottenuto un giudizio sufficiente. Tra le sostanze pericolose evidenziate dalle analisi di laboratorio ci sono antimonio (metallo tossico che può essere assorbito dalla pelle), dimetilformammide (pericoloso per la fertilità), piombo e cadmio (dannosi per la riproduzione, reni e ossa), IPA (nocivi in quanto sostanze cancerogene vietate nei prodotti tessili).

Per combattere questo fenomeno ci sono degli accorgimenti dettati da un approccio maggiormente consapevole e sostenibile in termini di acquisto e consumo dell’abbigliamento.

In primo luogo, si possono ridurre gli acquisti dettati dall’impulso chiedendosi se si ha effettivamente bisogno di quel capo e quanto spesso lo si utilizzerà. La scelta di vestiti di qualità realizzati con materiali durevoli e che possono durare nel tempo può eliminare la tendenza all’acquisto ripetuto nel breve tempo. In secondo luogo, prediligere aziende che adottano pratiche responsabili ed eticamente virtuose favorisce un acquisto consapevole e allo stesso tempo promuove il mercato dell’usato e dell’abbigliamento vintage. Ci sono infine diversi marchi che fanno della promozione del riciclo, riuso e riparazione dei vestiti una vera missione. Optare per questi brand contribuisce alla creazione di un’economia più circolare nel settore tessile.

Il fast fashion ha un impatto negativo sull’ambiente e sulla salute dei consumatori. Un acquisto più oculato e meno dettato dalla frenetica ricerca di seguire i trend del momento consente di tutelare il mondo in cui viviamo e sperimentare delle scelte responsabili che impattano positivamente sul nostro quotidiano e sul nostro benessere.



Articolo di Marco Camporese
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