Humane World Magazine

Humane World Magazine Il webmagazine che racconta la sostenibilità, la leadership aziendale e l'innovazione digitale

Le foreste ferite e la memoria del verdePubblicato il: 06 Novembre 2025Tempo di Lettura: 3 minutiCategorie: Sostenibilit...
13/11/2025

Le foreste ferite e la memoria del verde
Pubblicato il: 06 Novembre 2025
Tempo di Lettura: 3 minuti
Categorie: Sostenibilità
Tags:
C’è sempre un momento, in ogni epoca, in cui la Terra ci parla.
A volte lo fa con voce dolce, nel fruscio di una foglia. Altre volte urla — con gli incendi, i cicloni, le colate di fango. E noi, testardi come siamo, facciamo finta di non sentire.

La FAO, nel suo ultimo rapporto Valutazione delle Risorse Forestali Mondiali 2025, ci ricorda che il mondo dispone ancora di 4,14 miliardi di ettari di foreste. Un numero che può sembrare enorme, e invece è fragile come la pelle di un bambino. Un terzo della superficie terrestre coperta da boschi, sì — ma ogni anno ne perdiamo ancora, un pezzo alla volta, come chi si consuma senza accorgersene. Nel 2020, quarantuno milioni di ettari di foreste sono stati devastati da incendi, parassiti o eventi estremi. Quarantuno milioni: una ferita aperta, un continente invisibile bruciato dalla nostra distrazione.

Eppure, il rapporto racconta anche una speranza. La deforestazione rallenta. Le aree protette aumentano. Le foreste destinate alla conservazione della biodiversità raggiungono 482 milioni di ettari, e quelle dedicate a scopi sociali e culturali — turismo, educazione, ricerca — sono quasi raddoppiate rispetto al 1990. Insomma, l’umanità non è solo distruzione. È anche ricostruzione.

Ma come sempre, le nostre buone intenzioni inciampano nei dettagli. Nel 2023 l’Unione Europea ha varato il regolamento sui prodotti “deforestazione zero”. Un passo di civiltà, un segno di coraggio. Poi, nel 2024, la proroga: tutto rimandato di un anno. Per “garantire un’applicazione uniforme”. È così che la burocrazia addormenta la coscienza: un rinvio alla volta.

Nel frattempo, gli ambientalisti avvertono — WWF, Greenpeace, ClientEarth — che la definizione di “degrado forestale” resta troppo vaga. E che, se non stiamo attenti, la legge più ambiziosa d’Europa rischia di diventare un’altra carta che ingiallisce nei cassetti di Bruxelles.

Mentre i numeri si rincorrono e le sigle si moltiplicano, il mondo continua a bruciare. E allora forse è giusto che Ecomondo, la grande fiera della transizione ecologica aperta ieri a Rimini, torni a ricordarci che la sostenibilità non è un’ideologia, ma un mestiere. Un lavoro duro, quotidiano, fatto da ingegneri, artigiani, ricercatori, imprese grandi e piccole che non “fanno greenwashing”, ma semplicemente innovazione.

Giunta alla sua 28ª edizione, Ecomondo è ormai la bussola mediterranea della green, blue and circular economy: 1.700 brand espositori, uno su cinque proveniente dall’estero; 380 buyer da 66 Paesi; 30 delegazioni ufficiali e 90 associazioni internazionali di settore; oltre 200 convegni su tutto ciò che tocca il futuro — dai rifiuti tessili urbani e i nuovi consorzi di produttori, alla comunicazione ambientale come ponte tra competitività e sostenibilità. Un mosaico di idee e soluzioni che dimostra quanto la narrativa di un mondo industriale “stanco del green”, rilanciata ai tempi di Trump col suo “Drill, baby, drill”, trivellate più che potete, sia solo una caricatura. La realtà è che le imprese, quando le regole sono chiare e la visione è lunga, sanno reinventarsi.

Eppure, guardando le cifre della FAO, viene da chiedersi se tutto questo basterà. Perché ogni ettaro di foresta perduto non è solo un pezzo di ecosistema: è un pezzo di memoria. È la casa di un uc***lo, la medicina che ancora non abbiamo scoperto, il respiro che manca a un bambino. No, non basteranno fiere o regolamenti, se non impariamo di nuovo ad amare ciò che cresce lentamente, ciò che non si compra e non si vende: il silenzio di un bosco, il profumo della terra bagnata, la dignità del tempo naturale.

Un giorno forse scopriremo che l’unica vera economia circolare è quella della vita, quella che restituisce ossigeno in cambio di rispetto. E allora capiremo che salvare le foreste non significa solo salvare gli alberi. Significa salvare noi stessi.

— — —

📊 Dati FAO 2025

• 4,14 miliardi di ettari di foreste nel mondo
• 41 milioni di ettari danneggiati nel 2020
• +251 milioni di ettari protetti dal 1990
• 55% delle foreste gestite secondo piani approvati

Articolo di Isabella Zotti Minici

ARCSystem, ingegneria e valori: arriva la certificazione per la parità di genere con FòremaDalla precisione dei rilievi ...
11/11/2025

ARCSystem, ingegneria e valori: arriva la certificazione per la parità di genere con Fòrema

Dalla precisione dei rilievi topografici alla cura delle relazioni umane: ARCSystem misura ogni cosa con strumenti d’avanguardia, ma a guidarla è soprattutto una bussola etica. L’azienda padovana, fondata nel 1997 e oggi in piena espansione a livello nazionale, ha appena conquistato la certificazione per la parità di genere, a conferma di un modello di sviluppo che mette le persone al centro. Si tratta della certificazione etica SA8000, realizzata con il supporto tecnico e metodologico di Fòrema, l’ente di formazione e consulenza di Confindustria Veneto Est.

ARCSystem, che opera nel settore dell’ingegneria e delle costruzioni, è specializzata in rilievi topografici con tecnologie avanzate, progettazione integrata di reti tecnologiche e soluzioni di smart mapping in ambiente GIS, oltre che in interventi di efficientamento energetico per edifici e impianti fotovoltaici. ARCSystem era già certificata UNI EN ISO 9001 e da sempre pone al centro del proprio sviluppo la qualità, l’innovazione e il rispetto per le persone.

Con l’ottenimento della certificazione per la parità di genere (PDR 125:2022), rafforza il proprio impegno per un modello d’impresa che valorizza la diversità e l’inclusione, promuovendo un ambiente di lavoro equo, trasparente e rispettoso delle pari opportunità. La linea guida PDR 125 rappresenta infatti un framework riconosciuto a livello nazionale per la promozione della parità, basato su dati, indicatori e azioni concrete: dalla raccolta e monitoraggio dei dati di genere, all’adozione di misure per ridurre le differenze retributive e di carriera, fino alla diffusione di una cultura aziendale libera da stereotipi.

«Per noi – spiega Filippo Bortolami, CEO di ARCSystem – la parità di genere non è solo un obiettivo di responsabilità sociale, ma una condizione necessaria per la crescita e l’innovazione. Abbiamo scelto di intraprendere questo percorso perché crediamo che il valore delle persone, la loro motivazione e la loro libertà di esprimersi siano la vera forza competitiva di un’impresa. La certificazione è un punto di partenza per continuare a migliorarci, giorno dopo giorno».

Il percorso realizzato con Fòrema ha previsto attività di audit, formazione del personale, monitoraggio interno e qualifica della catena di fornitura, con una costante supervisione del management e il coordinamento di figure specializzate come Viviana Fiore (Training Partner) e Elena Callegarin (Specialist & Designer Progetti HSE). La certificazione è il risultato di un sistema di gestione integrato che unisce responsabilità sociale e parità di genere, riconoscendo che un’azienda di successo è anche un’azienda etica.

«Questa certificazione rappresenta per noi un riconoscimento importante, ma soprattutto un impegno quotidiano», conclude Bortolami. «Promuovere la parità di genere significa costruire un ambiente di lavoro dove ogni persona può esprimere il proprio talento in libertà e con pari opportunità di crescita. È così che si genera valore duraturo per tutti. Crediamo in un modello d’impresa in cui tecnologia e umanità procedano insieme. La certificazione è una tappa del nostro percorso verso un futuro più equo, dove le differenze diventano risorsa e la qualità del lavoro cresce con la qualità delle relazioni. Non c’è innovazione senza inclusione. Per noi la parità di genere è parte integrante del modo di fare impresa: un investimento sul futuro, prima ancora che un dovere etico».

https://www.humaneworldmagazine.com/arcsystem-ingegneria-e-valori-arriva-la-certificazione-per-la-parita-di-genere-con-forema/

📍 Un passo concreto verso un futuro in cui tecnologia e umanità procedono insieme.

A Belém, nel cuore dell’Amazzonia, tutto è pronto per accogliere la 30ª Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima. Si par...
10/11/2025

A Belém, nel cuore dell’Amazzonia, tutto è pronto per accogliere la 30ª Conferenza delle Nazioni Unite sul Clima. Si parlerà di transizione energetica, di adattamento, di finanza verde. Eppure, qualcosa è già cambiato, ancora prima che si aprano i lavori: mancano i leader.

Secondo i dati ufficiali diffusi dal capo negoziatore brasiliano Mauricio Lyrio, alla sessione dei capi di Stato parteciperanno 57 leader mondiali su 143 Paesi rappresentati. Alla COP29 di Baku, nel 2024, erano circa 75; a Dubai, un anno prima, oltre 80. Una flessione costante, che racconta molto più di una semplice questione di agende sovrapposte. È il segno di un disimpegno simbolico.

Belém, città di un milione e mezzo di abitanti, ha messo a disposizione 53 mila posti letto per ospitare circa 50 mila delegati provenienti da tutto il mondo — un’impresa logistica imponente per un’area che resta fragile, attraversata da contraddizioni sociali e ambientali. Ma la geografia non basta più a dare forza politica a un vertice.

Tra i presenti ci saranno Emmanuel Macron, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e il premier britannico Keir Starmer, insieme ai presidenti di Colombia e Liberia. La Cina manderà il vicepremier Ding Xuexiang al posto di Xi Jinping. Gli Stati Uniti, invece, non invieranno rappresentanti di alto livello, dopo il nuovo ritiro dall’Accordo di Parigi deciso dall’amministrazione Trump.

Dietro ai numeri si intravede una trasformazione più profonda: la politica del clima sta perdendo la sua centralità narrativa. Nel 2015, l’Accordo di Parigi aveva unito 195 Paesi intorno a un obiettivo epocale: contenere il riscaldamento globale sotto 1,5 °C. Dieci anni dopo, il pianeta ha già superato 1,45 °C rispetto ai livelli pre-industriali (dati Copernicus, settembre 2025). Gli eventi estremi sono in aumento: secondo l’ONU, il 2024 è stato l’anno con il maggior numero di catastrofi naturali registrate nell’ultimo mezzo secolo, e i danni economici hanno superato i 380 miliardi di dollari (dati Swiss Re Institute).

Eppure, mentre la temperatura sale, la presenza politica scende. Non è solo una questione di stanchezza o di disillusione: è una questione di priorità. In molti Paesi industrializzati, il consenso si gioca oggi su inflazione, sicurezza, migrazioni. Il clima non scompare, ma arretra. Un sondaggio del Pew Research Center condotto in 30 Paesi nel 2025 mostra che solo il 31% degli intervistati considera la crisi climatica la principale minaccia globale; nel 2020 era il 44%. In Europa la tendenza è simile: secondo Eurobarometro, la quota di cittadini che colloca il cambiamento climatico tra le tre priorità dell’UE è calata di 8 punti in due anni.

Il rischio, oggi, è duplice. Da un lato, che la COP diventi un rituale: una vetrina più che un tavolo decisionale. Dall’altro, che la leadership globale si frammenti, sostituita da alleanze bilaterali o regionali, più funzionali alle strategie economiche che alla cooperazione ambientale.

Eppure, anche in questo scenario di disincanto, non si può dire che la sensibilità sia scomparsa. La società civile continua a mobilitarsi: oltre 2.500 organizzazioni hanno richiesto l’accredito per COP30, e l’Amazzonia ospiterà il più ampio padiglione dedicato ai popoli indigeni mai realizzato in un vertice ONU. Il settore privato, pur tra contraddizioni, mantiene impegni crescenti verso la decarbonizzazione: il numero di aziende che ha fissato obiettivi “net zero” è aumentato del 40% in un anno (dati Net Zero Tracker 2025).

Il paradosso, dunque, è questo: la consapevolezza cresce, mentre la politica arretra. Belém non sarà una conferenza vuota, ma rischia di essere una conferenza senza volto. Un vertice dove si parlerà molto di giustizia climatica e di finanziamenti per l’adattamento — il tema centrale del “Loss & Damage Fund”, che conta oggi 700 miliardi di dollari promessi ma solo 80 effettivamente versati — ma dove mancherà la forza simbolica di chi guida i governi.

Belém offrirà ancora una volta la scena e le parole. Ma le decisioni — quelle vere — si prenderanno solo se la politica tornerà a crederci. La scienza continua a parlare con chiarezza; la società civile, con passione; l’economia, con pragmatismo. Resta da capire se la politica saprà ritrovare la voce.

https://www.humaneworldmagazine.com/il-clima-senza-platea/

✍️ di Isabella Zotti Minici! Altri articoli sul nostro sito!

Quando i ghiacciai si “staccano” dall’atmosferaIl misterioso fenomeno di raffreddamento che, per ora, li proteggeI ghiac...
30/10/2025

Quando i ghiacciai si “staccano” dall’atmosfera

Il misterioso fenomeno di raffreddamento che, per ora, li protegge

I ghiacciai montani sono tra gli organismi più sensibili del pianeta e riflettono, nel senso più letterale e simbolico, a pieno gli effetti del riscaldamento globale. Eppure, come rivela un nuovo studio pubblicato su Nature Climate Change [1], il loro rapporto con l’atmosfera circostante non è così diretto come si pensava. Per decenni, molti ghiacciai hanno vissuto in una sorta di “bolla climatica” più fredda, parzialmente isolata dall’aria circostante, un fenomeno noto come “temperature decoupling”, o disaccoppiamento termico.

L’aria sopra la superficie di un ghiacciaio non è infatti la stessa che si respira nella valle spesso a pochi chilometri di distanza. A causa della presenza del ghiaccio e della neve, la superficie glaciale tende a raffreddare l’aria sovrastante, generando un flusso di venti catabatici (movimenti d’aria fredda e densa che scendono lungo il pendio) che mantengono uno strato più freddo e stabile.
Questo “cuscinetto” attenua l’effetto del riscaldamento atmosferico e rallenta lo scioglimento superficiale. Ma quanto è diffuso e quanto durerà questo fenomeno?

Per rispondere a questa domanda, il gruppo di ricercatori ha raccolto e analizzato un’enorme quantità di dati: 3,7 milioni di osservazioni orarie provenienti da 350 stazioni meteorologiche automatiche installate su 62 ghiacciai di tutto il mondo, dal Canada alle Ande, dall’Himalaya alla Nuova Zelanda [1]. Le osservazioni hanno mostrato che, in media, l’aria sopra i ghiacciai è più fredda di circa 1,6 °C rispetto a quella circostante, con differenze che possono superare i 7°C in certi casi.
Questo disaccoppiamento è stato quantificato attraverso un parametro chiave, denominato k, che rappresenta il rapporto tra la variazione della temperatura sopra il ghiacciaio (TaGla) e quella dell’aria ambiente (TaAmb). Un valore di k = 1 significa perfetta corrispondenza (nessun disaccoppiamento), mentre k < 1 indica un raffreddamento relativo del microclima glaciale.

Il valore medio osservato è circa 0.73, quindi per ogni grado di aumento della temperatura ambientale, l’aria sopra il ghiacciaio si scalda solo di 0,73 °C. Su scala globale, hanno stimato che i ghiacciai oggi si riscaldano in media solo di 0,83 °C per ogni grado di riscaldamento atmosferico.

Un rallentamento, dunque, ma non una completa immunità rispetto agli altri ecosistemi terrestri.

Lo studio ha individuato cinque fattori principali che controllano la forza del decoupling:

Temperatura e umidità dell’aria circostante: l’umidità gioca un ruolo cruciale, favorendo o inibendo la formazione dei venti catabatici.
Lunghezza del ghiacciaio: i ghiacciai più lunghi mantengono meglio la loro “bolla fredda”.
Altitudine: le quote elevate accentuano l’effetto di raffreddamento.
Velocità dei venti sinottici (quelli più ampi di scala regionale): venti forti tendono a “rompere” lo strato d’aria fredda e a ricongiungere il ghiacciaio con il clima circostante.
Presenza di detriti sulla superficie: il materiale roccioso che ricopre molti ghiacciai agisce come una coperta che, anziché isolare, intrappola calore e annulla l’effetto di raffreddamento.
In sintesi, i ghiacciai “puliti”, ampi e situati in zone umide e tranquille (come alcune regioni dell’Himalaya o della Scandinavia) riescono a mantenere un microclima più freddo. Al contrario, i ghiacciai piccoli, frammentati e ricoperti di detriti (come molti nelle nostre Alpi o sulle Ande) tendono a “riconnettersi” all’atmosfera, perdendo la loro capacità di auto-raffreddarsi.

Utilizzando modelli climatici e proiezioni fino al 2100, gli autori hanno esplorato come evolverà questo equilibrio nei prossimi decenni. I risultati mostrano che il massimo del raffreddamento glaciale sarà raggiunto tra il 2020 e il 2040, a seconda delle regioni. Successivamente ci sarà un breve periodo in cui il disaccoppiamento sarà più forte e potrà temporaneamente rallentare la fusione superficiale, ma infine con il continuo arretramento dei ghiacciai questo effetto si indebolirà.

A mano a mano che il loro volume si ridurrà e aumenterà la frammentazione, la loro superficie utile per generare venti catabatici diminuirà. I ghiacciai più piccoli quindi non riusciranno più a mantenere un microclima stabile e l’aria calda proveniente dalle valli penetrerà più facilmente, invertendo la direzione dei flussi d’aria e riportando le temperature a valori simili a quelle dell’ambiente circostante.
Questa seconda fase viene chiamata di “recoupling”, ovvero la riconnessione con il clima atmosferico, che renderà i ghiacciai sempre più vulnerabili al riscaldamento globale. Entro la fine del secolo, secondo le simulazioni, i valori medi di k potranno salire fino a 0,92 (scenario intermedio SSP2-4.5) e 0,96 (scenario pessimistico SSP5-8.5). I Percorsi Socioeconomici Condivisi (Shared Socioeconomic Pathways o SSP) sono una raccolta di scenari climatici. Gli scienziati dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) hanno esaminato cinque “possibili futuri climatici”, esplorando altrettanti scenari con diversi livelli di emissioni di gas serra, che vanno da “emissioni molto basse” SSP1-1.9, “basse” SSP1-2.6 e “intermedie” SSP2-4.5, fino ad “alte” SSP3-7.0 e “molto alte” SSP5-8.5.

Questi risultati non riguardano solo la glaciologia, l’effetto del raffreddamento locale potrebbe influenzare l’intero bilancio energetico delle montagne, che controlla il flusso dei venti, la formazione delle nubi, la distribuzione delle precipitazioni e persino la disponibilità di acqua dolce.
Molti modelli climatici e idrologici, spiega lo studio [1], non tengono conto di queste non linearità, ma assumono semplicemente che i ghiacciai rispondano in modo diretto e proporzionale al riscaldamento, cosa che i dati smentiscono. Questo può portare a sottostimare o sovrastimare lo scioglimento e gli effetti sui bacini idrici montani.

I ricercatori propongono dunque di introdurre nei modelli climatici una “parametrizzazione dinamica” del raffreddamento glaciale, che tenga conto del cambiamento nel tempo del disaccoppiamento menzionato precedentemente. Un approccio più realistico che permetterebbe di migliorare le previsioni sulla futura disponibilità d’acqua e sul rischio causato dall’aumento degli eventi estremi a cui stiamo già assistendo.

I ghiacciai stanno perdendo la loro capacità di “autodifendersi” dal caldo e nel corso dei prossimi decenni la loro diminuzione in volume li renderà più esposti alle fluttuazioni atmosferiche. I venti freddi che oggi li proteggono diventeranno deboli, sostituiti da correnti calde che accelereranno la fusione.

Il “respiro freddo” dei ghiacciai, che oggi contribuisce a raffreddare i paesaggi d’alta quota, svanirà gradualmente, lasciando spazio a un’accelerazione della perdita di massa e a un impatto più diretto del clima globale. Con la loro graduale scomparsa, sarà annullata anche una parte fondamentale della loro influenza sul clima locale.

L’immagine che emerge è tanto affascinante quanto inquietante. I ghiacciai non sono solo vittime passive del cambiamento climatico e per un po’ hanno saputo creare un proprio microclima, difendendosi con venti freddi e strati d’aria isolanti. Ma questa difesa è temporanea e
col passare dei decenni il loro legame con atmosfera si riallaccerà e sarà allora che il loro destino sarà completamente nelle mani del clima globale che l’uomo ha contribuito a modificare radicalmente.

Articolo di Pietro Boniciolli! Leggi tutti gli articoli sul nostro magazine: https://www.humaneworldmagazine.com/quando-i-ghiacciai-si-staccano-dallatmosfera/

L’arte di integrare la disabilità con lo sportChi non ha mai sentito parlare di Bebe Vio Grandis?Bebe è una schermitrice...
29/10/2025

L’arte di integrare la disabilità con lo sport

Chi non ha mai sentito parlare di Bebe Vio Grandis?

Bebe è una schermitrice che a 11 anni ha avuto una grave meningite meningococcica che ha comportato l’amputazione di tutti e quattro gli arti. Ma questo non l’ha fermata. Con la sua straordinaria forza d’animo è tornata a fare sport, in carrozzina. I risultati che ha ottenuto sono stati incredibili. Tra i più importanti, le partecipazioni alle Paralimpiadi di Rio, Tokyo e Parigi, dove ha vinto in totale due medaglie d’oro, una d’argento e tre di bronzo. Quello che però è più importante, al di là dei successi sportivi, grazie anche alla sua famiglia, e’ stato accendere un faro sul mondo delle persone con disabilità avviando un progetto sportivo di forte integrazione sociale. Si chiama art4sport, un’associazione fondata nel 2009 da Teresa Grandis e Ruggero Vio, genitori di Bebe, destinata a sostenere bambini e ragazzi portatori di protesi d’arto che vogliano praticare sport. L’associazione ha dato poi vita alla Bebe Vio Academy, un luogo in cui bambini con e senza disabilità hanno l’opportunità di praticare insieme sport diversi ritrovando benessere a livello fisico, psicologico e sociale.

Per conoscere meglio questa realtà, facciamo parlare la madre di Bebe, presidente dell’associazione art4sport, e Valentina Corà, responsabile del progetto Bebe Vio Academy.

(La Bebe Vio Academy di Roma, foto di gruppo con l’ospite d'eccezione, la calciatrice Manuela Giugliano, febbraio 2025 – foto Augusto Bizzi)
(La Bebe Vio Academy di Roma, foto di gruppo con l’ospite d’eccezione, la calciatrice Manuela Giugliano, febbraio 2025 – foto Augusto Bizzi)
Teresa, quali sono le difficoltà maggiori che avete incontrato nella realizzazione del vostro progetto?

Innanzitutto, vorrei spiegare perché è nato. Bebe voleva riprendere a fare scherma, in qualsiasi modo, nonostante le fosse stato detto che senza le dita e il polso non avrebbe mai potuto tornare a ti**re di fioretto. In quel periodo non esistevano progetti sulle protesi destinate allo sport. La reazione di Bebe è stata forte. Non avrebbe mai rinunciato alla pedana. Vista la sua determinazione abbiamo deciso di assecondarla, e la difficoltà maggiore è stata all’inizio comprendere il mondo della disabilità, perché ci siamo trovati proiettati in una realtà che non conoscevamo assolutamente. Quando esci dall’ospedale, nessuno ti spiega cosa devi fare. La chiave è stata far tornare nostra figlia alla vita sociale tramite lo sport che amava tanto.

Come siete riusciti a far fronte a questa situazione e qual è il vostro credo più forte con art4sport?

Noi siamo convinti che lo sport sia un mezzo importante che consente l’integrazione, e crediamo che le persone con disabilità non debbano vivere chiuse in casa ma debbano stare con gli altri. Nel caso di Bebe ci interessava che riuscisse a fare attività fisica divertendosi. Ricordo la prima volta in cui ha provato a ti**re da seduta con un fioretto di plastica letteralmente attaccato con lo scotch al braccio. Quando ha capito come posizionarsi, ha cominciato a macinare punti e vittorie, e quando le veniva detto di scendere dalla pedana lei ripeteva “chi vince domina”, e non c’era verso di farla smettere. Mi ha riempito il cuore sentirle dire “ecco perché mi piace così tanto la scherma”.

Quando esci dall’ospedale e hai delle amputazioni, la gente non ti accompagna per farti capire cosa devi fare. L’ospedale di fatto ti salva, ma quando sei fuori devi capire tutto da sola. Ed è per questo che è nata l’associazione. Lo sport è stato un punto di riferimento, abbiamo pensato se funziona con lei, funzionerà anche per tutti. Da qui è stata chiara la mission dell’associazione.

Ci sono stati altri aspetti difficili?

L’altro aspetto difficile è stato convincere le famiglie a portare i figli a fare sport perché non c’era ancora quell’educazione. C’erano infatti persone nate con disabilità che non conoscevano il CIP (Comitato Italiano Paralimpico). La nostra fortuna è stata poi essere stati presenti a Londra 2012, evento che ci ha aperto le porte del mondo paralimpico e permesso di diffondere meglio una cultura che fa comprendere l’importanza di attività fisiche per bambini i ragazzi. In più, dovevamo anche combattere la diffidenza delle famiglie, alcuni dicevano “Se mio figlio pratica uno sport qualcuno lo guarderà male”. La nostra risposta è sempre stata “pazienza, lo guarderà una volta, forse due e poi la smetterà”.

Relativamente alla Bebe Vio Academy, quali sono le emozioni più forti che vedete? Osservate dei cambiamenti nei partecipanti?

Unire i bambini è un momento educativo enorme per loro e le persone con disabilità, che hanno l’opportunità di vivere insieme allenandosi anche in maniera più intensa. L’aspetto più emozionante è che ai bambini, ad esempio nel basket in carrozzina, non devi spiegare: “questa è una carrozzina, questa è la palla”. Loro giocano in maniera completamente naturale a prescindere. Tante volte non distingui chi è normodotato da chi è disabile.

Un altro elemento emozionante è vedere come crescono i bambini. Frequentano l’Academy da settembre a maggio, dunque per la durata dell’anno scolastico. Una volta terminato il percorso, li vedi più sicuri di sé. Alcuni di loro erano abituati a non uscire mai di casa o ad uscire molto poco, quindi avevano una socializzazione molto limitata. Per noi è importante che la frequenza sia assidua e costante proprio per questa ragione.

Valentina, c’è una storia a cui siete particolarmente legati che testimonia lo spirito di questa integrazione?

Di storie ce ne sarebbero veramente tantissime. C’è una bambina normodotata che ha chiesto, all’età di undici anni, di continuare a giocare a basket. Noi eravamo convinti che la scelta migliore sarebbe stata indirizzarla verso una squadra di piccoli normodotati, così come facciamo sempre al termine del loro percorso. La sua scelta è stata invece di unirsi a una squadra di basket in carrozzina con le giocatrici di Briantea 84.

Un altro bambino, Janelle, arrivato piccolissimo, poteva muovere solo il busto e voleva giocare a calcio. La sua passione era così travolgente che non riuscivi a togliergli la palla. Alla fine, tutti si sono messi seduti in maniera naturale a giocare con lui. Da quel momento, il fratello ha avuto l’idea di realizzare la prima squadra di sitting football in Italia. Queste testimonianze credo restituiscano bene il senso di ciò che per noi è l’Academy: dove noi vediamo disabilità, i bambini vedono normalità.

Tra le varie discipline proposte dalla Bebe Vio Academy ci sono attività che riscuotono maggiore successo rispetto alle altre? Avete intenzione d’introdurre nuovi sport?

La disciplina che riscuote maggior successo è sicuramente la scherma in carrozzina, anche perché molti bambini ci si avvicinano grazie all’esempio di Bebe. Un altro sport molto apprezzato è il basket in carrozzina, soprattutto perché molti partecipanti lo vivono quasi come un autoscontro e fanno a gara per scegliere la carrozzina migliore. Si tratta di uno sport molto dinamico che crea un grande entusiasmo nel gioco. Accanto a questi, anche il sitting volley e il calcio restano tra le attività più praticate. Negli ultimi anni abbiamo introdotto nuovi sport nell’Academy a Milano, come il tennis in carrozzina, mentre a Roma abbiamo inserito il rugby in carrozzina, con il supporto di Martín Castrogiovanni, amico di Bebe. Più recentemente abbiamo avviato anche il padel in carrozzina. Durante l’anno organizziamo giornate speciali dedicate alla conoscenza di altri sport paralimpici presenti sul territorio, come il paraskate, il volley in carrozzina, la ginnastica ritmica, il kickboxing e il parakickboing.

Teresa, il sogno dichiarato di Bebe e l’obiettivo di art4sport, della Bebe Vio Academy è quello di unire il mondo olimpico con il mondo paralimpico in un unico ecosistema. Concretamente cosa pensate di fare per raggiungere questo scopo?

Per noi è importante che olimpici e paralimpici, cioè atleti con e senza disabilità convivano insieme in armonia. Pensare a delle olimpiadi integrate è oggettivamente e logisticamente impossibile. Gare in cui i due mondi si sono confrontati però ne sono già state fatte, ad esempio nella scherma. Per due anni abbiamo promosso un evento molto bello, WEmbrace Sport a Milano, dove abbiamo coinvolto nazionali olimpiche e paralimpiche e il successo è stato travolgente. Nella seconda edizione, tenutasi nell’ottobre 2023, c’è stata in particolare la sfida Italia contro Francia con tutta la rappresentanza italiana e francese, come omaggio per le Paralimpiadi di Parigi 2024. Eventi come questo testimoniano l’interesse e la partecipazione che esistono nei confronti dello sport, anche quello per i disabili.

Quali sono le prossime sfide per la Bebe Vio Academy?

L’attenzione all’inclusione sportiva è altissima e lo vediamo con famiglie che, per frequentare la sede di Milano sono disposte a spostarsi persino da Asti o da Vicenza. Visto che la Bebe Vio Academy sta riscontrando un grande successo sia a Roma che a Milano, ci piacerebbe aprire una nuova sede, possibilmente in Veneto, dove il mondo dell’associazionismo è particolarmente attivo. In questo momento siamo però ancora in fase progettuale, e alla ricerca di sponsor che possano supportare con convinzione il nostro sogno di maggiore integrazione e benessere psicofisico per i bambini partecipanti.

Scopri la storia completa nell’articolo di Marco Camporese su www.humaneworldmagazine.com



Indirizzo

Corso Stati Uniti 14/bis
Padua
35100

Notifiche

Lasciando la tua email puoi essere il primo a sapere quando Humane World Magazine pubblica notizie e promozioni. Il tuo indirizzo email non verrà utilizzato per nessun altro scopo e potrai annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.

Condividi

Digitare