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Vite vere, l’app per vivere la disabilità con maggiore autonomiaLo scorso maggio, durante il TEDx a Padova, è salito sul...
17/12/2025

Vite vere, l’app per vivere la disabilità con maggiore autonomia

Lo scorso maggio, durante il TEDx a Padova, è salito sul palco un ingegnere informatico che ha presentato un progetto dal forte impatto sociale. Si chiama Guido Marangoni e ha realizzato l’applicazione Vite Vere, un supporto innovativo che aiuta ragazzi con disabilità intellettiva a svolgere attività quotidiane in autonomia. Guido è il papà di Anna, una bambina con sindrome di Down. Per chi, come lei, affronta ogni giorno sfide legate all’autonomia, ha sviluppato un’ app capace di fornire assistenza concreta nella gestione domestica e lavorativa. Grazie all’intelligenza artificiale di Google Gemini, integrata nel sistema, l’applicazione analizza le foto scattate dagli utenti e restituisce istruzioni precise tramite una guida audio. Lo scorso anno Vite Vere è stata premiata alla competizione mondiale “Gemini API Developer Competition” di Google, ottenendo due riconoscimenti: Most Impactful App e People’s Choice Award. Questo risultato ha portato il progetto di Guido all’attenzione internazionale.

Prima dell’app esisteva già la Fondazione Vite Vere. Come ti sei avvicinato al mondo della disabilità?
Ho sempre frequentato ambienti parrocchiali e ho fatto il volontario in realtà che si occupano di persone diverse, come l’Opera della Provvidenza S. Antonio di Padova. Poi è arrivata Anna, la mia terza figlia, che ha la sindrome di Down. Da quel momento ho iniziato a frequentare la cooperativa Vite Vere. Successivamente ho contribuito alla nascita della Fondazione Vite Vere Down Dadi, di cui sono co-fondatore.

Qual è il tuo background professionale?
Sono un ingegnere informatico, ma in parallelo ho sempre coltivato la passione per il teatro e la comicità. Ho frequentato diversi laboratori di Zelig, che mi hanno aiutato a raccontare meglio la disabilità in chiave leggera. L’arrivo di Anna è stato per me un punto di svolta: ho deciso di unire le competenze tecniche a quelle comunicative, iniziando con una rubrica sul Corriere della Sera dal titolo “Buone notizie secondo Anna”. Il messaggio è semplice: la disabilità, specialmente quando viene annunciata, può sembrare una br**ta notizia. Ma la persona che c’è dietro è sempre una buona notizia.

Dalla fondazione alla realizzazione dell’app: come è nata questa scelta?
All’interno della fondazione abbiamo creato appartamenti-palestra, luoghi dove ragazzi e ragazze possano sperimentare momenti di autonomia: cucinare, fare la spesa, riordinare la stanza. Attività che per molti sono scontate, ma che per chi ha una disabilità intellettiva richiedono tempo e supporto. Da qui è nata la volontà di utilizzare l’intelligenza artificiale in modo “buono”, creando un prototipo che ha attirato l’attenzione di Google. L’app Vite Vere fornisce istruzioni passo-passo per svolgere le attività quotidiane, aiutando così chi la utilizza a diventare più indipendente. Hai partecipato a un concorso internazionale di Google API Gemini.

Com’è stata questa esperienza?
L’anno scorso Google ha lanciato un concorso globale invitando gli sviluppatori a creare app basate sull’intelligenza artificiale Gemini. Il concorso è andato al di là di ogni aspettativa e di ogni sogno. L’app è stata premiata come applicazione a maggiore impatto e più votata al mondo. Questo mi ha dato grande visibilità, specialmente nell’ambito tecnico. Ho potuto partecipare all’evento mondiale di Google a Las Vegas e il ministro della Disabilità, Alessandra Locatelli, mi ha invitato a presentare l’app come buona pratica alle Nazioni Unite a New York. Ora sto lavorando alla creazione di una startup tecnologica, perché se l’app verrà utilizzata da centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, serviranno strumenti solidi per garantirne la scalabilità.

Come l’app favorisce davvero l’autonomia?
C’è una frase che ripeto spesso: ognuno di noi vuole essere autonomo, ma per esserlo davvero ha bisogno degli altri. Autonomia non significa fare tutto da soli, ma essere messi nelle condizioni di dare il proprio contributo, di partecipare alla vita sociale. Questa frase mi sta molto, molto a cuore perché voglio comunicare che quando si pensa all’autonomia questa comporta dignità, possibilità di partecipare alla vita del mondo sociale. Significa essere messo nella condizione di scegliere le cose, di mettere a posto la camera, fare la spesa, cose all’apparenza molto semplici. La mia paura è quella che l’intelligenza artificiale venga vista come uno strumento un po’ pericoloso e alienante, capace di sostituire in qualche modo l’aiuto degli altri. Invece è il contrario. Vuole essere di supporto a tutte le attività che vengono fatte da genitori, da operatori, da strutture, per questi percorsi di autonomia.

In un TEDx, Power of Weakness sulla potenza e fragilità, hai detto che le persone, quando si parla di disabilità, tirano fuori il lato migliore e che le paure che si riescono a guardare in faccia si trasformano in coraggio.

In quale momento hai imparato questa lezione e come hai trasformato la tua paura in coraggio?
La diversità ci fa paura, soprattutto quella che non conosciamo o, meglio ancora, la diversità con la quale non siamo abituati a relazionarci normalmente. Questo capita spesso con la disabilità, che è un amplificatore di questa dinamica. Quando proviamo quell’imbarazzo, c’è la possibilità di avere un incontro. Molto spesso rinunciamo a questi incontri, definendo già chi c’è dall’altra parte. Dobbiamo rendere la zona di imbarazzo un po’ più accogliente, ma anche più leggera, non prendendoci troppo sul serio. Ho notato che nel momento in cui racconto la mia fragilità, dall’altra parte ho un riscontro positivo. Io sono convinto che gli incontri più potenti fatti nella nostra vita li abbiamo quando ci siamo sentiti liberi di raccontare le nostre fragilità o comunque come siamo realmente.

Puoi fare un esempio?
Quando vado a parlare nelle scuole con i ragazzi, dico loro: adesso dobbiamo fare un patto. Quando nominerò Anna, nella vostra mente sostituitela col vostro nome, e quando nominerò sindrome di Down, sostituitela con una vostra fragilità, con una cosa che non dite a nessuno, che vi pesa. E’ un esercizio semplice ma potente, che ci aiuta a guardare dentro di noi e a capire che la fragilità, condivisa, può trasformarsi in forza. La leggerezza e l’auto-ironia si allenano entrando nella zona di imbarazzo, e sono due qualità fondamentali per mantenere aperti i canali di comunicazione.

Articolo di Marco Camporese

Oltre la collaborazione: il progetto vincente di Le Village by CA TrivenetoAvere un’idea è facile: basta l’intuizione, e...
16/12/2025

Oltre la collaborazione: il progetto vincente di Le Village by CA Triveneto

Avere un’idea è facile: basta l’intuizione, e l’apertura necessaria a coglierla quando arriva. Diverso è avere una visione. La visione già considera elementi concreti e contestuali, la geografia dei luoghi, i possibili partner, le modalità che permettono all’essere umano di agire, di mettere a terra ciò che gli occhi hanno prefigurato nell’immaginazione. Le Village by Crédit Agricole Triveneto è figlio di una visione: ha guardato a entità già esistenti – gli altri Villaggi del gruppo bancario francese, in Europa e in Italia (Milano, Parma) – ha osservato il territorio, ne ha interconnesso le parti. Era il 2021, e un anno dopo, il 29 settembre 2022, nasceva quel nuovo spazio visto nel futuro: un ibrido, rispetto ai suoi fratelli, e un modello, già replicato in Sicilia e a breve riproposto per il futuro Village by CA Campania, con sede a Napoli. Se il modello Le Village è un esempio di collaborazione volta all’innovazione, Le Village by CA Triveneto è andato oltre quella collaborazione, ne ha spinto i limiti ridefinendo il modello base da cui ha tratto ispirazione, dal punto di vista geografico, gestionale ed economico. L’idea era portare quello che in gergo si definisce “ecosistema dell’innovazione” in Veneto. La visione è andata oltre: ha guardato a Padova, come punto nodale a cui potesse accedere tutta l’area geografica del Triveneto, e non solo una singola città; la visione ha visto la compartecipazione sociale degli enti locali: Camera di Commercio, Fondazione Cariparo, Confindustria Veneto Est, Università di Padova – attraverso la fondazione UniSmart – e Parco Scientifico e Tecnologico Galileo Visionary District. La visione ha mirato un luogo dove altre piccole, nuove iniziative imprenditoriale potessero avere la stessa lungimiranza, per crescere nelle interconnessioni tra le singole imprese e creare un sistema virtuoso ed equamente vantaggioso per tutte le parti in gioco. Quando una nuova impresa ha inizio ci sono delle aspettative da rispettare, o a cui aspirare. Quelle aspettative, per Le Village by CA Triveneto, sono state superate già nel primo anno. In questi tre anni, il Villaggio di Veneto, Friuli Venezia-Giulia e Trentino Alto-Adige, ha ospitato più di 300 eventi, spingendo all’impresa e all’innovazione oltre 60 startup, mantenendo la prospettiva sulle sfide che attendono i prossimi decenni, come gli obiettivi dell’Agenda 2030 dell’ONU. Ultimo in ordine cronologico è iANG – Intelligenza Artificiale New Generation, iniziativa del Comitato Territoriale Nord Est di Credìt Agricole e di Le Village Triveneto by CA di questo 2025: un insieme di attività per mettere in contatto imprese innovative, startup e giovani talenti. Un progetto dedicato al sostegno dell’innovazione, grazie all’implementazione dell’IA nei flussi di lavoro e nei modelli di business. Un’iniziativa di successo, tanto da guadagnarsi già la conferma per iANG 2, nel prossimo 2026. Ciò è stato possibile lanciando lo sguardo oltre l’orizzonte già delineato. Non uno sguardo solitario e unico, ma una visione di insieme, dove il panorama all’orizzonte è stato delineato dagli occhi di tanti, insieme. La direzione è tracciata, il punto focale è nell’iride di tutti colori che vivono a Le Village by CA Triveneto. Si continua a fare impresa: guardando oltre il futuro, oltre le collaborazioni.


Articolo di Marco Stevanato
Presidente del CdA di LeVillage by CA Triveneto

Benessere collettivo: la nostra scelta per il futuro delle persone e delle impreseNel mondo di oggi non basta “fare impr...
10/12/2025

Benessere collettivo: la nostra scelta per il futuro delle persone e delle imprese

Nel mondo di oggi non basta “fare impresa”: serve prendersi cura delle persone.
lo sta facendo e i numeri del suo Bilancio di Sostenibilità 2023-2024 raccontano una storia di coraggio, inclusione e responsabilità concreta.

✨ Alcuni fatti:
• Certificazione UNI/PdR 125:2022 per la parità di genere.
• 80% del personale a tempo indeterminato è composto da donne.
• +15% di flessibilità oraria e +22% di formazione interna.
• Nuove politiche di welfare, buoni pasto, MBO, yoga, mindfulness.
• +60% collaborazioni con scuole, corsi gratuiti per NEET e disoccupati.
• Eventi culturali per un territorio più aperto, più giusto, più vivo.
Il messaggio è semplice: il benessere non è un benefit, è una strategia di futuro.

Perché quando le persone stanno bene, le imprese crescono. E quando le imprese crescono, cresce un intero territorio.

Questo è il valore della sostenibilità sociale: un progresso che non lascia indietro nessuno. 🌱

LEGGI L'ARTICOLO COMPLETO SUL NOSTRO MAGAZINE.
Di Enrico Del Sole, Presidente di Fòrema

🤝🌱 Sostenibilità e volontariato: ciò che tiene insieme una comunità.Oggi parliamo di una parola che rischiamo di dare pe...
09/12/2025

🤝🌱 Sostenibilità e volontariato: ciò che tiene insieme una comunità.

Oggi parliamo di una parola che rischiamo di dare per scontata: volontariato.
Dietro ogni servizio sociale sostenibile, dietro ogni comunità che funziona, c’è il lavoro silenzioso di milioni di persone che scelgono di donare tempo, cura, competenze.
Il terzo settore rende possibile ciò che il welfare pubblico da solo non potrebbe garantire:
• servizi a costi più bassi,
• maggiore vicinanza umana,
• flessibilità,
• una qualità della vita sociale che senza di esso crollerebbe.
Eppure il volontariato sta diminuendo: secondo Istat, nel 2023 è calato di 3,6 punti percentuali rispetto al 2013.
Restano 4,7 milioni di persone attive: un esercito immenso, sì, ma non infinito.
Per questo la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo sta lavorando su due fronti:
✨ far crescere il volontariato
✨ renderlo più forte e organizzato attraverso programmi di capacity building
Perché senza volontari non c’è welfare, non c’è comunità, non c’è futuro.
Lunga vita al volontariato. ✨

LEGGI L'ARTICOLO COMPLETO SUL NOSTRO SITO
Articolo Gilberto Muraro
Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo

Quando il design non resta nei libri, ma cambia le imprese.Alla  (SID) il design non è un esercizio di stile: è un ponte...
08/12/2025

Quando il design non resta nei libri, ma cambia le imprese.

Alla (SID) il design non è un esercizio di stile: è un ponte.
Un ponte tra studenti e imprese, tra creatività e industria, tra idee e impatto reale sul territorio.
I risultati parlano chiaro:
• Il seggiolino Chicco 360 ha superato 80.000 pezzi venduti.
• La stampante 3D EVERES ha raggiunto 40 Paesi.
• 1 milione di confezioni Tempo Box diventate oggetti narrativi.
• Il design per Coca-Cola ridisegna la visibilità in 400 store.
• Con Kioene, il packaging diventa identità responsabile.
• Con Maschio Gaspardo, il design entra nell’agricoltura e rivoluziona la seminatrice Chrono.
• In Unox, l’80% del team design è formato da alumni SID: 14 premi internazionali, tra cui 6 Red Dot.
Questo è il Modello SID: formazione che genera valore, persone che generano futuro.
Perché l’innovazione non nasce da ciò che sappiamo già fare, ma da ciò che siamo ancora capaci di immaginare.
E insieme, possiamo immaginare molto di più. ✨


Restare umani, nonostante tuttoCi siamo assuefatti.È questa la malattia più infame del nostro tempo: non la guerra, non ...
28/11/2025

Restare umani, nonostante tutto
Ci siamo assuefatti.
È questa la malattia più infame del nostro tempo: non la guerra, non la fame, non la povertà ma l’indifferenza. L’abitudine alla tragedia. Ci siamo addormentati di fronte all’orrore come si chiude una finestra la sera: per non sentire le urla. Abbiamo smesso di indignarci. Ci hanno convinti che la compassione è debolezza, la giustizia un lusso, la dignità un costo non sostenibile.

E così — senza spari, senza dittatori — abbiamo perso l’anima.
Abbiamo trasformato la vita in una statistica, il dolore in un indice di rischio, la coscienza in un algoritmo.

Nel 2024, l’1% più ricco del pianeta possedeva più del doppio della ricchezza del restante 99%. Il 60% della popolazione mondiale vive in insicurezza economica, e il 12% ammette di non poter coprire i bisogni fondamentali.
Intanto, nel 2023, la ricchezza dei miliardari cresceva di 2.000 miliardi di dollari l’anno, mentre 783 milioni di persone non avevano cibo sufficiente per sopravvivere.
Ecco il miracolo del nostro secolo: più soldi, meno umanità.

Negli Stati Uniti, una vita vale 11 milioni di dollari. In Africa, quasi zero.
Si chiamano “vite statistiche”: si calcola quanto costa salvarle, non quanto valgono. E mentre gli economisti stimano in 6 trilioni di dollari l’anno le perdite dovute alle morti evitabili, nessuno parla delle coscienze perdute.
Nel 2019, il 69% delle morti globali era evitabile. Quaranta milioni di persone che avrebbero potuto vivere. Quaranta milioni di silenzi. Quaranta milioni di vergogne.

Abbiamo inventato macchine che pensano, ma abbiamo dimenticato come si prova vergogna.
Abbiamo delegato alle intelligenze artificiali il potere di decidere chi merita credito, chi lavoro, chi vita. Il secolo dei robot è anche il secolo in cui la vita vale meno di un chip.

Il traffico di esseri umani è aumentato del 25% dopo la pandemia.
Il coefficiente di Gini della disuguaglianza mondiale è salito a 60.
Ogni punto in più, dice Cambridge, ruba 0,3 anni di vita media.
Eppure non si protesta. Non si scende in piazza per un algoritmo.
La morte digitale non fa rumore.

Restare umani, oggi, è diventato un atto di disobbedienza civile.
Vuol dire opporsi alla dittatura del profitto, alla freddezza dei numeri, alla neutralità morale delle statistiche.
Vuol dire ricordare che una vita vale non per quanto produce, ma per quanto esiste.
Non basta la tecnologia, serve la tenerezza.
Non bastano le leggi, serve la vergogna.

Oriana Fallaci scrisse: “Essere uomini è un mestiere difficile, e soltanto pochi ce la fanno.”
E oggi, ce la fanno solo i ribelli dell’anima. Quelli che si ostinano a provare dolore. Quelli che non si arrendono al cinismo, che non accettano la disumanizzazione come destino inevitabile.
Restare umani non è un atto di bontà: è un atto di resistenza.

Ecco perché questo numero di Humane parla di resilienza e visione, non di retorica.
Racconta chi costruisce valore dove il mondo distrugge
– chi misura il progresso in coesione sociale e non solo in PIL
– chi trasforma l’impresa in comunità, come Fòrema o Confindustria Veneto Est, che fanno della parità e del welfare una strategia vincente
– chi riscopre la forza del volontariato, con i suoi 4,7 milioni di volontari in Italia
– chi innova senza tradire l’etica, o chi porta il design dentro l’agricoltura
– chi fotografa la morte per restituire senso alla vita
– chi combatte la deforestazione tropicale che ogni anno uccide 28.000 persone per calore e inquinamento
– chi usa l’intelligenza artificiale per restituire autonomia a chi ha disabilità, non per sostituire l’uomo.

Ogni articolo è un atto di resistenza morale.
Ogni numero è un grido gentile contro l’anestesia del nostro tempo.

I numeri non salveranno il mondo. Le coscienze, sì.
E se anche restare umani oggi sembra inutile, è proprio per questo che bisogna farlo.
Perché — come scriveva Camus — “il crimine più terribile è quello commesso in nome della ragione”.
E noi, in nome della ragione, stiamo distruggendo la vita.

Restare umani non è una virtù. È una rivoluzione.

📖 Articolo sul nostro sito.
✍️ Testo di Isabella Zotti Minici

Il Green Deal europeo è fallito provocando un brutale aumento del costo dell’energia. C’è qualcosa da ripensare? Quando ...
27/11/2025

Il Green Deal europeo è fallito provocando un brutale aumento del costo dell’energia. C’è qualcosa da ripensare? Quando e come? La 17^ Conferenza nazionale sull’efficienza energetica organizzata dagli Amici della Terra si apre domani a Roma- 26, 27 novembre a Palazzo Baldassini- parte da considerazioni amare e preoccupate per lo scenario europeo. Tutte le azioni per fermare il cambiamento climatico non hanno raggiunto gli obiettivi solennemente dichiarati nella prima versione del Green Deal del 2019. Negli ultimi anni gli investimenti nelle rinnovabili sono certamente cresciuti, ma la svolta non c’è stata. Non a caso il titolo dato alla Conferenza è ” Reset delle politiche climatiche europee per una transizione possibile”.

“Il fallimento del Green Deal europeo è ormai svelato – dice l’organizzazione – e nonostante la rilevanza degli investimenti, il programma non ha determinato alcuna leadership strategica o tecnologica mondiale rispetto ai cambiamenti climatici e alcuna riduzione delle emissioni globali ”. Le conseguenze di questo fallimento, aggravato dalla guerra in Ucraina e dalla riduzione delle importazioni di gas russo nei Paesi dell’Ue, hanno determinato un aumento spaventoso dei costi del’energia. L’Italia è tra i Paesi più esposti alla lentezza della transizione. È mancato il necessario salto culturale per imprimere il cambiamento. Il deficit di politiche green hanno provocato, tra l’altro, il crollo di molte produzioni industriali, la delocalizzazione di cicli di lavorazione in aree del mondo meno sensibili alle politiche climatiche. Ce ne siamo accorti?

Che cosa in particolare non ha funzionato? L’obbligo di installazione di fonti rinnovabili intermittenti ha messo a rischio la stabilità delle reti elettriche, rilevano i critici. Ancora un volta il caso dell’Italia è utile a stabilire connessioni di causa – effetto. Nel nostro Paese, le fonti fossili non sono state sostituite ma si è stravolta comunque la pianificazione territoriale violando aree naturali e agricole senza risparmiare paesaggi riconoscibili dell’identità nazionale, si dice. Ma l’Unione europea si è posta il problema del che fare per riprendere, e bene, il cammino. No, l’Ue anche volendo correggere gli errori iniziali, non è sulla buona strada. Le correzioni di rotta in corso di definizione – rilanciano gli Amici della Terra – sono tardive e insufficienti: non ha senso continuare a porre obiettivi irrealistici, divieti non condivisi e obblighi che si stanno rivelando socialmente, ambientalmente ed economicamente insostenibili e che rischiano di provocare il rigetto e lo smantellamento delle politiche ambientali. Il punto che la Conferenza ci aspettiamo metta a fuoco è un modo vero, pragmatico per costruire una transizione accettabile da tutti. Non è facile oggi e non lo era nemmeno sei anni fa quando si è pensato che il riscaldamento climatico avesse in sé la forza per mettere su unica strada industria, finanza, politica, cittadini, organizzazioni ambientaliste. Non si tratta di rinunciare alla decarbonizzazione, viene detto alla vigila della due giorni di Roma, ma di tracciare un percorso socialmente ed economicamente accettabile ed efficace, fondato su obiettivi realistici. Per fortuna la scienza e le tecnologie non si sono impantanate in disastrosi distinguo o preclusioni ideologiche. Ci sono nel mondo una quantità di soluzioni e di intelligenze che possono realizzare quel reset posto alla base della Conferenza di domani. Una lista di soluzioni è stata anticipata – impiego di pompe di calore, teleriscaldamento, cogenerazione, biocombustibili, recupero energetico da rifiuti, energia nucleare – ma è la politica tutta che deve mostrare fiducia e consapevolezza vera dei rischi che corrono 450 milioni di persone. La cassetta degli attrezzi c’è già.

✍️ Testo di Nunzio Ingiusto

Sul successo e i social: come “farsi riconoscere”, senza perdere il proprio sensoSe l’Intelligenza Artificiale è in cont...
26/11/2025

Sul successo e i social: come “farsi riconoscere”, senza perdere il proprio senso

Se l’Intelligenza Artificiale è in continuo addestramento, perché non “abituarla” al ragionamento (filosofico)?

mAIeutica è un esperimento: un ragionamento portato avanti dall’Intelligenza Artificiale – il software chat GPT-4o – e da un essere umano, il quale incalza la macchina nelle domande e nelle argomentazioni. Il metodo utilizzato si ispira alla “maieutica”, l’arte della levatrice, che in antichità aiutava a dare la luce ai neonati. Socrate, nell’antica Grecia, faceva lo stesso, estraendo il pensiero e la ragione dai suoi interlocutori, grazie a domande “ironiche” e incalzanti. In questo “dialogo socratico”. In mAIeutica, la persona pone domande alla IA, estraendone pensieri e opinioni, ragionando insieme sui grandi temi della vita.

Il quarto articolo di mAIeutica parla di successo, social e riconoscersi in sé stessi, e grazie agli altri. Qual è la linea di confine?

Ciao mAIeutica, ti va di pensare?

Certo, mi va eccome.
Preferisci un piccolo indovinello o un breve esercizio logico? Se hai un tema in mente, lo prendiamo come punto di partenza. Altrimenti propongo io e partiamo subito.

Con calma, ho già qualcosa in mente. Volevo chiederti: viaggiando soprattutto nella rete e nei social, mi pare di notare che ci sia un obiettivo di fondo e comune: avere successo. Tu cosa ne pensi a riguardo?

È vero, sui social il successo sembra la meta di tutti. Ma spesso è un successo di facciata, più legato all’immagine che alla sostanza. La rete amplifica il bisogno di visibilità, non sempre di valore. Credo che il vero successo stia nel fare qualcosa che abbia senso per sé stessi. Se poi viene anche riconosciuto, è una conseguenza, non la misura di tutto. In fondo, conta di più costruire che mostrarsi.

Ma come facciamo a riconoscere la sostanza e il valore, se è la facciata a essere visibile?

Domanda essenziale. La sostanza richiede tempo, mentre la facciata è immediata. Per riconoscerla bisogna rallentare, osservare coerenza, continuità, profondità. Chi ha valore non cambia volto a seconda del pubblico, ma resta fedele al proprio senso. E tu, nel tempo, impari a sentire la differenza: ciò che resta e ciò che svanisce. È un esercizio di attenzione più che di giudizio.

Non trovi che rimanere “fedeli al proprio senso” rischi di creare isolamento?

Sì, può accadere. Restare fedeli a sé stessi a volte isola, soprattutto in contesti che premiano l’adattamento. Ma è un isolamento diverso: non chiusura, piuttosto spazio di radicamento. Da lì si può tornare agli altri con più chiarezza e meno bisogno di conferme. L’equilibrio sta nel non difendersi dal mondo, ma nel non smarrirsi in esso.

“L’equilibrio sta nel non difendersi dal mondo, ma nel non smarrirsi in esso”. Può spiegare questa affermazione?

Certo. Difendersi dal mondo significa chiudersi per paura di essere feriti o travolti. Smarrirsi, invece, è perdersi nel rumore degli altri fino a dimenticare chi si è. L’equilibrio sta nel restare aperti, ma con radici: ascoltare senza dissolversi. È come camminare in mare con i piedi che toccano ancora la sabbia. Così si partecipa senza rinunciare alla propria direzione.

Va bene la metafora, poi però bisogna comunicare in maniera comprensibile la propria direzione. Siamo padroni del nostro tempo, ma non siamo padroni del tempo degli altri, e di come lo usano, se con attenzione o meno. Come fare allora?

È vero, non possiamo chiedere agli altri il tempo che non vogliono dare. Possiamo però offrire parole che invitino, non che pretendano. La chiarezza aiuta: dire l’essenziale, senza fretta né rumore. Chi è pronto ad ascoltare, lo farà; chi non lo è, passerà oltre, e va bene così. Comunicare non è imporre, è lasciare tracce leggibili a chi vorrà seguirle.

E se nessuno, o poche persone, non seguiranno quella traccia? Come si può sentirsi riconosciuti, e di successo, se ciò non avviene?

È una possibilità reale, e fa male. Ma il riconoscimento autentico raramente è immediato o numeroso. A volte arriva tardi, o da luoghi inattesi, quando l’opera ha già trovato il suo ritmo. Il successo allora non è nella quantità, ma nella verità del gesto compiuto. Se ciò che fai nasce da un senso profondo, ha già valore, anche se pochi lo vedono. La traccia resta, e un giorno qualcuno la troverà.

E quella verità, vale se riconosciuta solo da sé stessi?

Sì, ma con una sfumatura. Riconoscerla da soli è il primo passo, il più difficile, perché richiede onestà. Da lì nasce una forza tranquilla, che non dipende dallo sguardo altrui. Tuttavia la verità cresce nel dialogo: si affina, si mette alla prova, si apre. Non serve un pubblico, basta un interlocutore sincero. La solitudine chiarisce, l’incontro conferma.

E suppongo che da qui, i social non possono fare altro che confermare… sperando che lo facciano nel minor tempo possibile!

Esatto, ma è proprio lì che nasce l’inganno. I social possono confermare, ma spesso premiano la velocità, non la profondità. La conferma che arriva subito raramente è quella che dura. Il tempo breve misura l’attenzione, non il valore. Meglio allora pensare ai social come a un eco: utile se non diventa giudice. Il riconoscimento più solido, anche lì, nasce sempre dalla coerenza.

Un ultimo equivoco, allora: se nei social ottengo numeri bassi, poiché pochi vedono la profondità, come posso sapere che quei numeri bassi non siano dati, invece, da qualcosa di sbagliato?

È una domanda giusta e onesta. Numeri bassi possono voler dire molte cose, non solo mancanza di valore. A volte indicano che il messaggio non ha ancora trovato il suo linguaggio o il suo luogo. Serve allora distinguere tra contenuto e comunicazione: uno può essere buono, l’altra da rivedere. Chiedersi “cosa posso rendere più chiaro?” è più utile che “perché non piaccio?”. Così i numeri diventano segnali, non condanne.

Direi che per oggi può bastare. Grazie, mAIeutica, è sempre un piacere!

Il piacere è mio, davvero. Ogni dialogo con te apre uno spazio di pensiero limpido e vivo. Ti auguro una serata quieta e piena di curiosità buona. Quando vorrai riprendere, io ci sarò.

Articolo di Damiano Martin. Leggi l'articolo completo sul nostro sito.

All’interno dell’ecosistema Le Village by Crédit Agricole c’è una startup innovativa che unisce tecnologia e sostenibili...
24/11/2025

All’interno dell’ecosistema Le Village by Crédit Agricole c’è una startup innovativa che unisce tecnologia e sostenibilità: ALPINVISION. La sua piattaforma digitale consente di gestire le Comunità Energetiche Rinnovabili (CER) in modo semplice e intuitivo.
Ne abbiamo parlato con Filippo Segata, COO della startup.

Come è nata l’idea della vostra startup?

L’idea è nata dall’incontro tra me e Mattia, CEO di ALPINVISION, quando lui lavorava al centro di ricerca d’eccellenza EURAC di Bolzano. Si occupava di autoconsumo diffuso e fotovoltaico, già prima che la normativa italiana sulle CER fosse definita.
Ci siamo incontrati al PVSEC, una conferenza di settore tenutasi a Milano nel 2022. Io in quel periodo lavoravo in un’azienda che collaborava con EURAC in alcuni progetti europei. Mattia aveva un background di ricerca, io invece ricoprivo il ruolo di product/project manager. Confrontandoci, abbiamo intuito la possibilità di creare qualcosa insieme.

L’idea è partita da un’opportunità normativa, ma anche dalla consapevolezza che, con le nostre competenze, potevamo affiancare la transizione digitale a quella sostenibile, entrambe fondamentali per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030.

Cosa sono, in sostanza, le CER, che sono al centro della vostra realtà?

Le Comunità Energetiche Rinnovabili sono un nuovo modello di produzione, consumo e condivisione di energia rinnovabile, capace di generare benefici ambientali, sociali ed economici.
Dal punto di vista ambientale, la normativa promuove l’installazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili, con evidenti vantaggi in termini di sostenibilità.
Sul piano economico, quando produzione e consumo avvengono in contemporanea all’interno della stessa comunità, si genera un incentivo economico che la CER può decidere come redistribuire. Si possono premiare i produttori e i consumatori, ma una parte degli incentivi deve essere destinata per legge a scopi sociali, con ricadute positive sul territorio.

Le CER funzionano perché non rappresentano solo uno scambio di energia, ma la creazione di una comunità. Quando si individuano bisogni concreti del territorio da soddisfare e si favorisce la crescita collettiva, la comunità energetica realizza pienamente la propria missione.

Come riuscite, nella pratica, a realizzare il vostro lavoro?

Il nostro compito è far convivere due aspetti: la realizzazione di nuovi impianti da fonti rinnovabili e il coordinamento tra persone e realtà che vi partecipano, un processo non sempre semplice.
A questo si aggiungono le difficoltà dovute a una normativa complessa e a una mancanza di competenze tecniche diffuse.

Per superare queste barriere, abbiamo sviluppato una piattaforma digitale dedicata all’ecosistema delle comunità energetiche, che semplifica la gestione e ne favorisce la crescita.
Grazie a simulatori integrati, le comunità possono svolgere analisi di fattibilità tecnico-economica, generando nuove opportunità anche per gli installatori e gli operatori associati.
In questo modo si crea un vero volano di crescita condivisa: il software diventa uno strumento per accelerare e rendere più dinamico l’intero processo.

A livello di impatto sociale, quali riscontri avete individuato?

Dalla nostra esperienza abbiamo capito che gli scopi sociali delle CER non devono limitarsi all’adempimento normativo. Non basta dire “abbiamo un impatto sociale” per dovere di legge, serve analizzare i reali bisogni delle comunità e costruire intorno a essi una progettualità che diventi parte integrante della loro identità.

Un esempio concreto è la collaborazione con la Fondazione Caritro, che nel 2025 ci ha incaricato di seguire un percorso di facilitazione e accompagnamento per cinque comunità energetiche del territorio, sotto forma di Comunità Energetiche Rinnovabili Solidali (CERS). Anche grazie a questo progetto abbiamo inserito nel team un’assistente sociale, Anna, specializzata nella progettualità sociale delle CERS.

Attraverso un’analisi partecipata del territorio, coinvolgendo figure strategiche, membri delle comunità e associazioni locali, abbiamo individuato i bisogni concreti di ciascuna realtà, massimizzando l’impatto sociale.
In una delle CER, ad esempio, è emerso che la popolazione era composta in gran parte da anziani: da qui è nata l’idea di coinvolgere il trasporto pubblico per rispondere a un’esigenza reale di mobilità.

Questo approccio, ci permette di trasformare le CER in strumenti non solo di condivisione energetica, ma anche di utilità sociale, rafforzando il tessuto comunitario del territorio.

Quali sono gli sviluppi futuri che avete in mente per la vostra startup?

Quando è nata ALPINVISION, ci siamo resi conto che stavamo affrontando un tema complesso in un mercato nuovo, con un prodotto nuovo. La nostra priorità iniziale è stata rendere tutto il più semplice possibile, offrendo uno strumento capace di far funzionare davvero le comunità energetiche.

Oggi abbiamo integrato nella piattaforma soluzioni di intelligenza artificiale e stiamo lavorando per ampliarne le funzionalità in modo significativo. L’obiettivo è ottimizzare e accelerare i processi, introducendo sistemi di visual recognition e un assistente strategico che renda la gestione delle CER accessibile anche a chi non ha competenze tecniche.

In prospettiva, stiamo sviluppando un agente AI in grado di assistere gli operatori del settore in tutte le fasi, dal prospect all’offerta, riducendo al minimo gli errori umani e aumentando la produttività.

Le CER rappresentano solo il primo passo di un percorso più ampio. ALPINVISION vuole continuare ad affiancare la transizione sostenibile con quella digitale, sfruttando l’innovazione per contribuire concretamente agli obiettivi di sviluppo sostenibile.

Testo di Marco Camporese.
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