Movimento Federalista Europeo - Ravenna

Movimento Federalista Europeo - Ravenna Il Movimento Federalista Europeo mira alla creazione di una Federazione degli Stati europei, e fu fondato da Altiero Spinelli nel 1943.

Questa è la pagina della sezione "Carlo Sforza" del Movimento Federalista Europeo, attiva a Ravenna dal 2001. Il MFE è un movimento apartitico e trasversale alle ideologie politiche che ha fra i propri ideali la nascita degli Stati Uniti d'Europa e il federalismo come strumento di governo mondiale. Il Movimento Federalista Europeo venne fondato a Milano il 27-28 agosto 1943 da Altiero Spinelli e d

a alcuni altri antifascisti, tra i quali Ernesto Rossi e Luciano Bolis, presso casa Rollier. Esso si fonda sui principi contenuti nel Manifesto di Ventotene, elaborato nel 1941 dagli stessi Spinelli e Rossi assieme ad Eugenio Colorni.

22/12/2025

L'UNIONE EUROPEA E LA FATICA DELLA DEMOCRAZIA. INTERVISTA A PIERO GRAGLIA
di Bianca Senatore e Giacomo Corbellini – Gariwo 22 Dicembre 2025

Nel dibattito contemporaneo sulla crisi e sulle sfide della democrazia, l’Unione europea occupa una posizione ambivalente: da un lato rappresenta uno degli spazi in cui l’idea democratica ha trovato le sue realizzazioni più avanzate, dall’altro è attraversata da tensioni profonde che ne mettono in discussione i fondamenti. Spesso percepita come un’entità tecnocratica o distante, l’Europa unita nasce invece da una delle più radicali intuizioni del Novecento: l’idea di superare il primato esclusivo dello Stato-nazione per dare forma a un ordinamento sovranazionale fondato sulla condivisione della sovranità e su regole comuni. Nel mondo disordinato di oggi, però, il ritorno dei nazionalismi, la diffidenza verso le istituzioni comunitarie e le difficoltà di consenso tra i 27 Stati membri interrogano il progetto europeo nel profondo del suo nucleo politico. In questo scenario, parlare di democrazia in Europa significa interrogarsi sulla sua fragilità strutturale, sulla fatica che richiede ottenerla e consolidarla, sulla necessità di difenderla all’interno di un processo di integrazione tuttora in divenire.
Ne abbiamo discusso con Piero Graglia, professore ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali all’Università degli Studi di Milano, dove insegna Storia della politica estera italiana e Storia e politica dell’integrazione europea. Storico e studioso di federalismo europeo e del Manifesto di Ventotene, Graglia ha dedicato la sua attività di ricerca alla storia del federalismo europeo e alla genesi del progetto di integrazione comunitaria, con particolare attenzione al pensiero e all’opera di Altiero Spinelli, di cui è massimo esperto e biografo. Autore di numerosi studi e monografie di riferimento, ha contribuito alla realizzazione della puntata del podcast Storie di Giusti dedicata ad Altiero Spinelli, onorato al Giardino dei Giusti di Milano dal marzo 2024.
La democrazia si sta erodendo in diverse aree del mondo, Unione europea compresa. A suo avviso, il concetto di democrazia oggi è in crisi?
Io non direi che sia in crisi. Il problema della democrazia è che noi viviamo un paradosso dell’osservatore: la democrazia è pochissimo diffusa di suo. Qualcuno potrebbe sorridere e dire: “Siamo al capezzale della democrazia”. Io penso piuttosto che siamo su un tavolo autoptico, quello dove si fanno gli esami post mortem, perché la democrazia, alla fine, è una forma di organizzazione politico-sociale debolissima ed è pochissimo diffusa. Se noi valutiamo gli indicatori di democrazia, per esempio consultando il Democracy Index che The Economist pubblica ogni anno su 167 paesi del mondo, vediamo che a pieni voti passano l’esame soltanto il Canada, l’Australia e i paesi scandinavi. Il resto dei paesi dell’Europa e il Nord America – quindi Italia e Stati Uniti compresi – sono definiti democrazie imperfette. Con riferimento agli Stati Uniti si potrebbe anche scherzare e dire: “Beh, visto quello che sta facendo Trump, probabilmente ci sarà un’ulteriore discesa in classifica”. Il resto del mondo non è composto da democrazie: vi sono democrazie apparenti, cioè formalmente democratiche ma non di fatto, oppure regimi ibridi o autoritari. La democrazia non è in ottima salute: solo il 10% del mondo la sceglie come forma di ordinamento istituzionale e sociale e soltanto il 20% di quel 10% riesce a creare regimi democratici reali e compiuti. Per questo dico che la domanda “la democrazia è in crisi?” è mal posta. La democrazia è minoritaria di per sé: è un’idea a cui si tende. In pochissimi posti al mondo – quattro o cinque – abbiamo regimi veramente democratici. Il resto sono regimi che fanno finta di essere democratici o che hanno alcune caratteristiche democratiche, ma non lo sono pienamente. Forse allora la domanda giusta potrebbe essere: è in crisi il nostro modo di pensare e di applicare la democrazia?
Lei ha citato Trump. In questi giorni si parla di interferenze statunitensi e di tentativi di destabilizzazione dell’Unione europea, anche attraverso leve interne. Cosa ne pensa?
Il fenomeno Trump è molto connaturato a dinamiche plebiscitarie, di consenso gestito e aiutato dall’uso spregiudicato degli strumenti informativi, dei media e dei social. Trump non accetta l’idea di perdere il potere e questo, di per sé, è un tratto antidemocratico. La sua azione politica è una sintesi tra la tradizionale insofferenza statunitense verso il processo di integrazione europea – che comincia già a metà degli anni Sessanta, con Kennedy, e diventa palese dopo il ’68 con Nixon – e un timore tutto suo, trumpiano, che i meccanismi trasparenti dell’Unione europea possano diventare un esempio minaccioso. L’Unione europea, infatti, non è solo un progetto politico, ma anche un soggetto di regolazione dei rapporti economico-commerciali, e proprio per questo risulta indigesta non solo a Trump, ma anche ad altri attori globali come la Russia di Putin e la Cina. È un modello che mette in discussione assetti di potere opachi e pratiche che molti sistemi, pur dichiarandosi democratici, faticano a rendere trasparenti, anche nel loro rapporto con il resto del mondo. L’Unione europea tende faticosamente a una forma democratica ed è insidiata dall’interno da plebiscitarismo, sovranismo e nazionalismo, che stanno risorgendo in modo impetuoso. Allo stesso tempo, fa paura a molti sistemi che si dichiarano democratici ma non lo sono. Trump è solamente uno dei tanti nemici dell’Unione europea. È il più sorprendente perché ribalta un atteggiamento ipocrita degli Stati Uniti: “siamo vostri amici”. In realtà non lo sono da almeno tre o quattro decenni. Lui porta semplicemente a compimento un atteggiamento consolidato della politica statunitense.
L’Unione europea sarà in grado di reggere questi colpi, considerando anche la presenza di forti spinte nazionaliste al suo interno?
Questo è il problema centrale. L’Unione europea è forte solo nella misura in cui è unita. Se al suo interno agiscono forze disgreganti, o forze che ritengono che “fare da soli” sia preferibile, esse finiscono automaticamente per fare il gioco di chi vuole un’Unione europea più debole. In questo senso, si tratta di un atteggiamento che lavora contro l’interesse comune. Le forze che spingono per il nazionalismo e il sovranismo, presentandosi come difensori degli Stati nazionali contro una presunta Unione tiranna, in realtà pongono le condizioni per un indebolimento degli stessi Stati membri, che sono le vere componenti dell’Unione europea. Un processo di disgregazione va contro gli interessi nazionali che queste forze dichiarano di voler tutelare. Di fatto, chi promuove il nazionalismo e il sovranismo finisce per favorire l’asservimento dei paesi europei a soggetti esterni. Per questo motivo queste forze si rivelano i peggiori nemici degli Stati che dicono di rappresentare.
Guardando ai confini dell’Unione europea – come al Caucaso o ai Balcani occidentali, dove è oggi in atto una grande battaglia per la democrazia – l’allargamento sarebbe un’opportunità da cogliere o un rischio?
Io vedo positivamente l’arrivo di nuovi membri, soprattutto da queste aree. L’allargamento è una palestra di democrazia. Ci sono rischi, certo, soprattutto per l’opposizione di attori come la Russia, forte militarmente ma debole economicamente. Però bisogna distinguere i due piani: su quello politico l’allargamento è positivo, perché crea nuove fedeltà e nuove forze di democratizzazione interna. Sul piano economico-commerciale può essere invece disruptive, come direbbero gli anglosassoni. Il progressivo grande allargamento a Est tra il 2004 e il 2013 ha creato problemi, ma è stato molto positivo politicamente. All’interno dell’Unione europea abbiamo oggi l’Ungheria, ma non abbiamo “una Bulgaria”, “una Polonia”, “una Lettonia o una Lituania”, tutte nazioni che non hanno seguito la stessa deriva di Budapest. La grande debolezza dell’UE di oggi è che si percepisce come soggetto economico più che politico. L’allargamento andrebbe salutato come una delle più grandi realizzazioni del Novecento e del XXI secolo, non come un problema. A tal proposito, c’è un bel libro di Eric Fromm pubblicato negli anni ’30 e intitolato Fuga dalla libertà. Questo libro si interroga sui meccanismi che portano i popoli a ripudiare la partecipazione democratica, spiegandola con l'impegno e la fatica che la democrazia comporta. Ecco, forse bisognerebbe cominciare a pensare che niente è automatico, niente è regalato. La democrazia è fatica: fatica politica, fatica sociale, fatica istituzionale e anche fatica di condivisione dal punto di vista economico-commerciale. Se non affrontiamo questa fatica, non ci mettiamo nell'ottica che niente è regalato, la democrazia svanisce. La democrazia, come una pianta, se non la si annaffia muore.
A tal proposito, quanto è importante riscoprire oggi lo spirito di Ventotene e di grandi figure giuste di quella stagione, da Spinelli a Hirschmann, da Colorni a Rossi?
Quelle figure avevano immaginato un sistema particolare, in cui i popoli europei dovessero essere convinti dei vantaggi dello stare insieme e di costruire istituzioni comuni, anche sospendendo temporaneamente alcuni aspetti formali della democrazia nazionale. Il Manifesto di Ventotene lo dice chiaramente: ridurre, in una fase di transizione, i poteri degli Stati nazionali può apparire come una sospensione della democrazia, ma in realtà serve a costruirne una diversa, più ampia e sovranazionale. Si tratta di uno sforzo politico e culturale enorme: pensare e realizzare una democrazia europea che superi quella esclusivamente nazionale, limitando necessariamente alcune prerogative dei singoli Stati membri. È questa la grande avventura che viene chiesta oggi all’Unione europea e che incontra forti resistenze, soprattutto da parte dei nazionalismi contemporanei, spesso definiti impropriamente “sovranismi”. La battaglia per una democrazia sovranazionale è a tutti gli effetti una battaglia democratica. Forse meno rassicurante e meno prudenziale di quella per la democrazia nazionale, ma altrettanto legittima e necessaria. Finché qualcuno continuerà a sostenere che “tutto deve stare nello Stato e niente fuori dallo Stato”, questa sfida resterà difficile da vincere.
Le istituzioni europee attuali sono all’altezza di questa sfida?
Il Parlamento europeo sì, perché per definizione è una Camera costituente permanente, come diceva già negli anni Settanta il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. È il luogo in cui può maturare una riflessione di questo tipo e in cui può essere condotta una vera battaglia politica sul futuro dell’UE. La Commissione europea può evolvere verso una maggiore responsabilità politica, rafforzando il proprio rapporto di fiducia con il Parlamento e configurandosi sempre più come un governo responsabile di fronte ad esso. È un processo che va perfezionato, ma che è possibile. Il Consiglio dei ministri, invece, no: rappresenta interessi nazionali. Non si può chiedere a ventisette tacchini di festeggiare il Natale. La nascita di un’Unione europea politicamente responsabile e strutturata in senso federale implicherebbe infatti una perdita di potere da parte degli Stati membri, e non si può pretendere che i rappresentanti dei governi nazionali rinuncino spontaneamente alle proprie prerogative. Serve quindi una battaglia politica, soprattutto all’interno del Parlamento europeo, con persone disposte a farsene carico e a costruire una discussione pubblica ampia. È quanto avvenne negli Stati Uniti dopo il 1788, con la Convenzione di Philadelphia, e poi con The Federalist: attraverso il lavoro di Jay, Madison e Hamilton si formò un’opinione pubblica favorevole a una federazione responsabile per la politica estera, la difesa, la moneta e la politica economica. Ci sono voluti quasi due secoli perché gli Stati Uniti assumessero la forma che oggi consideriamo compiuta. L’Unione europea è nel mezzo di un processo analogo: lento, faticoso, ma in corso. Natura non facit saltus, come si dice. La speranza sta soprattutto nel Parlamento europeo; la conservazione, invece, risiede prevalentemente negli Stati membri.
Bianca Senatore, Redazione Gariwo e Giacomo Corbellini, Redazione Gariwo
22 dicembre 20

21/12/2025

Il Sole 24 Ore - 21 dicembre 2025
Europa24 - di Michele Pignatelli

Colpo di scena sugli asset russi, rinvio sul Mercosur, Londra rientra in Erasmus

A/OLIVIER HOSLET Si è chiuso con un risultato per certi versi clamoroso l’ultimo Consiglio europeo del 2025, un vertice definito da più parti cruciale per il futuro dell’Ucraina e per il ruolo che l’Unione europea vorrà e potrà giocare nel conflitto. Dopo settimane di trattative in cui l’utilizzo degli asset russi congelati sembrava l’unica opzione possibile per finanziare Kiev, nella notte tra giovedì e venerdì i leader Ue hanno invece optato per il ricorso all’emissione di nuovo debito comune, con cui garantiranno 90 miliardi di euro in due anni all’Ucraina.
Un piano B che era uscito dai radar perché non gradito alla Germania di Friederich Merz, che esce dunque ridimensionata nelle sue ambizioni di leadership europea, costretta a una scelta pragmatica dall’inflessibile opposizione del Belgio, spalleggiato da altri Paesi che nutrivano dubbi anche legali sull’uso dei beni di Mosca. Tra questi l’Italia, con la premier, Giorgia Meloni, che può dirsi soddisfatta anche su un altro fronte: quello dell’accordo commerciale con il Mercosur, la cui firma viene rinviata (negli auspici europei a gennaio) a fronte della richiesta di maggiori garanzie in campo agricolo, chieste appunto dall’Italia e dalla Francia.
Le prossime settimane diranno se la scelta è stata lungimirante. Su numeri e implicazioni dell’accordo in discussione potete intanto leggere questo approfondimento.
All’indomani del Consiglio europeo il presidente russo, Vladimir Putin, nella tradizionale maratona televisiva di fine anno non ha rinunciato a menzionare la «rapina» fallita degli asset russi da parte della Ue, contro cui peraltro Mosca ha già pronte ritorsioni se dovesse tornare sul tavolo europeo. Resta il fatto che, mentre la guerra continua senza esclusione di colpi, sul terreno e in mare, dall’orizzonte del Cremlino sembrano quasi del tutto spariti i negoziati di pace, spostatisi nel fine settimana a Miami, negli Stati Uniti, per un nuovo round con tutte le parti coinvolte.
A Bruxelles la settimana era cominciata con l’attesa proposta di revisione del controverso regolamento sulle emissioni nocive delle auto. La Commissione europea, andando incontro alle richieste di alcuni governi e aziende dell’automotive, ha deciso di abbandonare il piano di vietare completamente i motori a combustione a partire dal 2035, aprendo a una percentuale di motori ibridi e termici con carburanti sostenibili.
È stata anche la settimana dell’ultimo Consiglio direttivo dell’anno della Banca centrale europea, che ha lasciato come previsto invariati i tassi di interesse senza fornire indicazioni sulle prossime mosse, in un contesto geopolitico che rimane troppo incerto. Nuovo taglio del costo del denaro, invece, da parte della Bank of England, alle prese con un’economia che continua ad arrancare e una disoccupazione in aumento.
È ancora senza bilancio, sull’altra sponda della Manica, il governo francese di Sebastien Lecornu, costretto a ricorrere a una sorta di esercizio provvisorio dopo il fallimento del compromesso tra deputati e senatori. La mancata approvazione non avrà effetti politici immediati, ma il ritardo ha dei costi per un Paese già alle prese con un deficit superiore al 5 per cento.
L’anno si chiude con una buona notizia per gli universitari: a partire dal 2027, decine di migliaia di giovani europei e britannici potranno di nuovo studiare o fare esperienze lavorative sia nei Paesi Ue che nel Regno Unito senza costi extra rispetto ai residenti: a quasi dieci anni dal referendum sulla Brexit, è stato infatti raggiunto l’accordo che consente alla Gran Bretagna di tornare a far parte del programma di scambio di studenti Erasmus+.

21/12/2025
21/12/2025
21/12/2025
21/12/2025

Aggressioni simmetriche. Occidente che non difende se stesso. Sonnambuli che non capiscono cosa si rischia a non difendere le democrazie minacciate. Un presidente della Repubblica da urlo contro i nemici dell’Europa. Da volantinare con urgenza

20/12/2025

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Via Nicolodi, 17
Ravenna
48122

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Martedì 10:00 - 12:00
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Giovedì 10:00 - 12:00
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