13/12/2025
Presepe, tradizione e laicità
di Nicola Fangareggi
C’è un equivoco di fondo che torna ciclicamente ad avvelenare il dibattito pubblico: l’idea che la tradizione sia un feticcio identitario, un simulacro da difendere o da abbattere a colpi di polemica stagionale. Presepi sì, presepi no; radici cristiane come vessillo o come spauracchio; laicità scambiata per ateismo militante; il “woke” elevato a subcultura redentrice o a nuova inquisizione. Tutto rumore di fondo. Sciocchezze, appunto. La storia del pensiero occidentale, se potesse parlare, si farebbe serenamente un baffo di queste schermaglie. Il nodo vero è altrove e va affrontato con ben altra profondità: il significato della tradizione nella società dell’innovazione non è politico, né confessionale, ma ontologico. Riguarda l’essere, non l’appartenenza. Riguarda il modo in cui individui e comunità danno senso alla propria esistenza dentro il tempo, non il modo in cui si schierano in una disputa ideologica. La tradizione non è un museo delle cere né un catechismo imposto. È una sedimentazione di domande, di simboli, di tentativi – spesso falliti – di rispondere all’enigma umano. È una corrente carsica che attraversa Platone e Agostino, Spinoza e Kant, Hegel e Nietzsche, fino alle inquietudini del Novecento e oltre. Pensare di ridurla a un presepe in piazza o a una circolare ministeriale significa non aver capito nulla, né della tradizione né della piazza.
Le declinazioni politiche della traiettoria esistenziale delle individualità e delle società sono, per quanto importanti sul piano storico e istituzionale, briciole davanti alle domande profonde: chi siamo, perché esistiamo, che cosa dobbiamo agli altri, che cosa resta di noi nel tempo. Domande che precedono lo Stato, i partiti, le maggioranze parlamentari e persino le Chiese organizzate. Non è certo necessario essere cattolici praticanti per appartenere alle radici cristiane dell’Occidente, così come non è necessario credere per confrontarsi seriamente con la dimensione del sacro. Solo un bieco paraocchi – quello che confonde laicità con ateismo – può attecchire in menti grossolane. La laicità, nella sua migliore tradizione europea, non è negazione del trascendente, ma spazio di libertà della coscienza. È il luogo in cui credenti e non credenti possono incontrarsi senza pretendere di annullarsi a vicenda. Quando diventa laicismo, cioè ideologia autosufficiente e autosoddisfatta, allora sì che si trasforma in una religione nel senso etimologico del termine: qualcosa che “tiene insieme”, che disciplina, che ordina. Ma che non illumina. Che non apre. Che non accompagna la coscienza nel suo percorso.
Il materialismo storico, così diffuso e così pigro, è già stato sconfitto dalla storia dell’umanità, che ha dimostrato più volte come l’uomo non viva di sola struttura economica né di sovrastrutture ideologiche. Vive – o sopravvive – di senso. E quando il senso viene meno, si scivola nell’ignoranza, negli egoismi, nella povertà interiore, anche in società opulente e ipertecnologiche. La presunta sfida tra monoteismi non risponde al senso dell’umanità, ma alla sua caricatura. È il segno di una regressione, non di un avanzamento. La vera sfida è un’altra: riconoscere che la tradizione non è una bandiera da sventolare né un nemico da abbattere, ma una domanda aperta da abitare. In un tempo che innova tutto, tranne il pensiero, forse è l’unica vera forma di modernità.