26/10/2025
                                            Qualche insegnamento di La Grassa
Uno dei più grandi insegnamenti che ci ha lasciato Gianfranco La Grassa è stato, senza dubbio, il suo anti-umanesimo di approccio scientifico. Nel suo pensiero l’uomo non occupa il centro di un mondo migliore, dotato di qualità che lo renderebbero superiore in natura. Non c’è l’Uomo con la U maiuscola, colui che deve incarnare i grandi valori morali, l’essere naturalmente buono che viene prima delle altre creature.
L’uomo, in quanto animale particolare, si è distinto dagli altri esseri per una specifica natura sociale che non ha nulla a che vedere con categorie come il buono o il cattivo, anzi, se possibile, può arrivare ad essere una bestiaccia senza paragoni. La differenza tra la bestia uomo e le altre bestie sta semplicemente nella capacità di produrre un plusprodotto, grazie a una conformazione cerebrale che gli permette di pensare, cosa che altri animali non possono fare. Da quel plusprodotto nascono mille implicazioni, nasce la storia.
Ed è questo plusprodotto, e la lotta per la sua appropriazione, a generare un tipo di società e di conflitti del tutto peculiari e sconosciuti al mondo animale. Questa è la caratteristica dell’uomo, essere dotato di pensiero che però non raggiunge mai quegli scopi immaginati, verità, ragione, spiritualità, che sono soltanto credenze costruite attorno alle sue abitudini sociali, caratteristiche della sua esistenza fisica.
Il pensiero di La Grassa si inserisce a pieno titolo nella scienza politica più autentica, quella che da Machiavelli arriva fino a noi. Quante volte ci ha ripetuto che, per comprendere la politica, ma anche discipline come l’economia, il testo di riferimento fosse “Della guerra” di Clausewitz? E quante volte si era infuriato contro quei filosofi falsamente marxisti che volevano fare di Marx un pensatore umanistico, un teorico dell’alienazione, o che lo riducevano a un “classico minore” che avrebbe “anticipato la globalizzazione” in chiave meramente economicistica, prevedendo la mercificazione di tutto, anche delle coscienze.
La Grassa ci teneva lontani da simili balle moralistiche e da pseudo-scienze. Ci invitava invece a leggere e interpretare la logica dei conflitti che permea la realtà, un conflitto inesauribile, storicamente generato dalla necessità di appropriarsi del plusprodotto che l’essere umano è in grado di produrre e che chi controlla può usare per dominare la società. Naturalmente questo sguardo va oltre la mera materialità delle cose, perché interpreta i rapporti sociali che da quella materialità discendono.
Quanto siamo ancora indietro rispetto a queste acquisizioni del pensiero lagrassiano. Ancora oggi cadiamo nelle truffe e nelle baruffe ideologiche che autentici predoni e falsi rivoluzionari usano per contendersi la verità, ingannando moralisticamente i dominati. Non ci sono guerre per la verità o per la superiorità morale, ci sono conflitti per il dominio, che emergono dalle viscere della società perché chi detiene il potere non intende cederlo e chi lo contesta vuole prenderne il posto. 
Anche qui non dobbiamo però indulgere al moralismo. Se prendiamo in modo scientifico queste relazioni conflittuali, vediamo che sono necessarie non perché esistano buoni o cattivi, ma perché ogni gruppo tende ad affermare una propria idea di società che si scontra con quella altrui. Da qui nascono i conflitti, la realtà è un flusso continuo di mutamenti che modificano costantemente le prospettive, nonostante la stabilità che gli esseri umani tentano di conferire alle proprie costruzioni storiche.
Calando questo ragionamento nell’oggi, per quel che ci riguarda come porzione di società occidentale, constatiamo che in Italia le nostre classi dominanti sono divenute succursali ancora più servili di una prepotenza straniera, in relativo declino, che sta trascinando il nostro paese verso lo sfaldamento pur di preservarsi anche in una modalità ridotta. Queste classi traditrici, soprattutto quando si dichiarano sovraniste o tese al bene comune (o peggio comunistico)che sopravvivono ormai solo per spolpare il proprio popolo e la propria nazione, devono essere superate per aprirci possibilità negli scenari epocali che mutano rapidamente.
Queste élite putrescenti, con i loro concetti logori di democrazia, diritti e libertà, ci stanno indebolendo come società e aggravano la nostra subordinazione a un ordine in decomposizione. Per questo devono essere sconfitte e sostituite, non perché noi possediamo la verità in tasca o portiamo in dono un mondo migliore, ma perché necessitiamo di una nuova forza che diventi forza nuova, capace di abbattere il vecchiume putrescente che ci sta distruggendo. Come Marx non offriamo ricette per le osterie del futuro ma sappiamo che se continua così di questo pauvre pays non resteranno nemmeno le macerie.
"Tuttavia, pur in un contesto totalmente mutato, e dunque senza attese rivoluzionarie, che cosa si crede cerchino di ottenere le ultime Marx rénaissances, che vorrebbero riscoprire il grande pensatore – comunque rivoluzionario nell’epoca in cui visse e operò, soprattutto con la sua teoria - quale banale anticipatore della “globalizzazione”, cioè della generalizzazione del mercato, comunque libero da intralci? Tesi perciò in fondo complementare rispetto al neoliberismo, alla smithiana “mano invisibile”. Ecco a che servono i finti elogiatori di un pensatore già rivoluzionario: a imbalsamarlo, a fargli scoprire “l’acqua calda”, a ridurlo ad un “classico minore”. Si ha a che fare con sostanziali reazionari, non con effettivi elogiatori di Marx; così come simmetricamente reazionari sono quelli che gli fanno scoprire “l’Uomo” tutto proteso alla “Calda Comunità” di intenti (e di sogni che riempiono di gioia i dominanti, nel vedere i finti oppositori dedicarsi al rimbecillimento di alcuni strati giovanili). E citiamo altri ancora, degni compari di “Carlo d’Inghilterra” che annuncia la fine del mondo tra 99 mesi (poteva almeno fare conto tondo a 100!) se tutti - cioè i finti anticapitalisti ingannatori di giovani e inesperti cervelli - non si gettano a capofitto sull’ambientalismo per distogliere l’attenzione dai problemi più impellenti.
Rimango allibito quando vedo alcuni giovani, senz’altro generosi e intelligenti, già rovinati da vecchi tromboni solo in cerca di buoni posticini o forse semplicemente fuori di testa per le delusioni patite. Qui occorre una nuova generazione che faccia infine piazza pulita del vecchio armamentario novecentesco (in realtà, di un secolo fa; in certi casi due); quest’ultimo non deve essere dimenticato, solo utilizzato con assoluta libertà, senza più farsi paralizzare dai “mostri sacri”, intoccabili; e con la sensibilità per l’epoca che sta mutando. La vecchia “lotta di classe”, per favore, in soffitta e in un angolo fuori mano. Idem per C.O. (Classe Operaia). Attenzione massima alla situazione geopolitica, al conflitto multipolare che a mio avviso caratterizzerà almeno i due prossimi decenni; nessun oblio del conflitto per la redistribuzione del reddito, con difesa non del solo lavoro dipendente (salariato degli strati medio-bassi) ma anche dei corrispondenti livelli del lavoro “autonomo”. E speciale attenzione ai settori – economici, politici, culturali – che possano eventualmente favorire una maggiore autonomia del paese (e dell’area della formazione mondiale) in cui siamo situati. Settori che francamente mi sembrano oggi assai deboli, pressoché invisibili; non per questo, però, dobbiamo smettere di “cercarli” poiché ci comportiamo pur sempre da portatori soggettivi, che si assumono la responsabilità di andare anche controcorrente con tutti i possibili rischi di fallimento". (Gianfranco La Grassa)
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"Tutti gli animali compiono lo sforzo necessario a realizzare lo scopo vitale, da considerarsi però in generale soltanto da un punto di vista puramente biologico. Al massimo, tutti gli animali mettono da parte un certo “di più” in una data stagione per consumarlo in un’altra in cui non ottengono il necessario (per vari motivi). L’essere umano – secondo diverse specie, di cui poi è restata solo quella sapiens (e ancora sapiens) – produce un “di più” proprio “in assoluto”, un “di più” che consente di mutare regimi di vita associata e di scoprire sempre nuove modalità e nuove strumentazioni di ottenere il “da mangiare”.
Tale risultato è ovviamente ottenuto grazie ad un cervello differente dagli altri animali, un cervello dotato di quello che possiamo definire pensiero, ragione. Comunque, un modo d’atteggiarsi non “immediatamente” diretto allo scopo di nutrirsi e riprodursi figliando. C’è capacità, crescente, di ri-flessione sulla propria azione vitale, mutandone le mosse e l’organizzazione, ottenendo così, anche tramite adeguata trasformazione degli strumenti all’uopo necessari, un “di più”, insomma un “plusprodotto”, pur esso sempre crescente. Da qui quindi la speciale storia dell’uomo, che ha carattere evolutivo, cioè trasformativo delle relazioni intercorrenti tra i vari individui e anche di ogni data individualità; e dunque di quello che chiamiamo pensiero o ragione o come preferite. Tutto ciò proprio perché l’animale uomo, dotato di questo particolare lavorio del cervello, non si accontenta (non può accontentarsi) di “mangiare” al solo scopo di riprodurre la sua usuale modalità d’esistenza. Producendo il plusprodotto, sempre più può pensare e accrescerlo; ma sempre più può escogitare nuove modalità e nuovi strumenti per accrescerlo.
Evidentemente, allora, non ci si limita ad accantonarlo in misura sempre maggiore, ma se ne consumano quantità crescenti per quel vivere che possiamo dire quotidiano. Ma ogni processo del genere esige organizzazione, divisione dei compiti, abilità diverse per i diversi strumenti utilizzati. Ed esige, piaccia o non piaccia, una direzione dei processi in questione. E si differenziano le diverse abilità e poi le diverse capacità di comando direzionale e, via via, si vengono formando strutture particolari dei rapporti interindividuali, dei rapporti tra gruppi sociali, ecc. ecc. E la storia evolutiva di queste capacità umane non è dunque disgiunta (non può esserlo) da quella delle strutture dei rapporti sociali.
Ogni miglioramento di quelle che definiamo condizioni di vita (che quindi aumentano via via di “livello”) esige alla fin fine che ci si cominci a chiedere quali sono le caratteristiche dell’ambiente da cui traiamo quanto ci consente di vivere, l’ambiente “naturale” in cui siamo immersi. Dobbiamo conoscerlo per non limitarci ad estrarre da esso ciò che consentirebbe una pura riproduzione della nostra esistenza senza vere trasformazioni, senza crescita del “prodotto” per la vita quotidiana e del “plusprodotto”. E nasce quella conoscenza dell’ambiente a noi “circostante”, che non può che condurre alla sua mutazione (senza la quale non cresce né il “prodotto” né il “plusprodotto”). E alla fine, non troppo presto, nasce quella che chiamiamo scienza. Ma è logico che non possiamo non chiederci chi siamo, come siamo “saltati fuori” conformati secondo specifiche modalità. Prendiamo inoltre piena coscienza che siamo transitori (intanto come individui; come genere e specie si vedrà a tempo debito) e quindi prende vita e aire tutto il pensiero di ciò che potrebbe esserci “dopo”, in una salvifica “altra vita”, e via dicendo. Non posso addentrami in questo, non sono filosofo e non sto scrivendo di questo genere di riflessioni. Nemmeno sono psicologo e dunque non posso nemmeno addentrami in quel tipo di conoscenza che cerca di comprendere com’è “combinato” il nostro cervello soprattutto nei nostri modi di pensare, che spesso si flettono su se stessi e producono anche qui una serie di conseguenze in crescita e variazione.
Debbo tornare al “prodotto necessario” – necessario alla riproduzione della vita quotidiana, ma in continua trasformazione dato il mutare delle relazioni degli individui associati, insomma di quella che definiamo società, soggetta a periodiche mutazioni della forma dei rapporti tra i diversi gruppi di individui – e del “plusprodotto” indispensabile ad accrescere le condizioni di vita, a svolgere conoscenza e scienza, i pensieri su noi stessi e la nostra “sorte futura”, le trasformazioni dei rapporti sociali e anche dei vari modi di pensare e conoscere; e naturalmente a inventare e perfezionare gli strumenti per “produrre” (e “plusprodurre”) sempre di più. Tutto ciò non può avvenire senza la già detta ri-flessione su ogni cosa che stiamo facendo e senza continuo scontro con l’ambiente che ci circonda. Non possiamo lasciarlo al suo “stato naturale”, quello di prima della vita animale, ma soprattutto della vita umana dotata di pensiero e quindi di capacità – che diventa necessità assoluta – di ottenere anche il “plusprodotto”.
Per (tentare di) difendere veramente “l’ambiente”, dovremmo allora eliminare questa “nociva” specie animale, lasciare il mondo terreno agli animali incapaci di pensare e di realizzare un “plusprodotto”. Occorre un suicidio collettivo, sperando di andare tutti insieme nel cosiddetto “al di là”, nell’“altro mondo”, insomma nella supposta e sperata altra dimensione spirituale che dura in eterno senza l’ingombro del corpo e delle sue esigenze, così distruttive della “natura”; che muta essa stessa senza bisogno di aspettare le nostre azioni, le azioni di pigmei che si credono giganti, anzi più ancora Dei! Se qualcuno vuole che si arrivi a questa fine, io sono pronto, mi fregherei le mani al pensiero di andarmene in così numerosa compagnia: “tutti insieme appassionatamente”. Ovviamente scherzo per ironizzare sugli ambientalisti, quelli “gretini” e della “green economy”; in realtà dei personaggi in totale malafede che, influenzando un’umanità in decrescita intellettiva, guadagnano fior di soldi". (Gianfranco La Grassa)