Arte Sonora

Arte Sonora Distributore Mondiale: www.danmarkmedia.com

Arte Sonora è un etichetta discografica di proprietà del musicista Claudio Ferrarini, che ha un unico obiettivo: promuovere la musica di qualità non tenendo conto di alcun confine di genere. Claudio Ferrarini porta la sua esperienza di oltre 250 cd di musica classica nell’ambito contemporaneo mantenendo una sola parola: eccellenza. Eccellenza in ogni parte del prodotto finale dalle composizioni s

celte alla qualità dei musicisti e delle loro esecuzioni, dalla registrazione al mixaggio al mastering. Il produttore Giovanni Amighetti di Arvmusic si unisce ad Artesonora in questa nuova ed entusiasmante avventura portando la sua esperienza nel saper registrare qualsiasi tipo di sonorità e musica in ogni situazione e regione del mondo. Arte Sonora is a recording label owned by master musician Claudio Ferrarini that has one main goal:
promote quality music over any defined boundary. Claudio Ferrarini brings his experience of over 250 classical music vinyl and cds to every genre and non-genre of nowadays contemporary world music, mantaining just one word: Excellence. Excellence on every part of the final product from compositions to musicians’ ex*****on, from recording to mixing and mastering. Arvmusic producer Giovanni Amighetti joins Artesonora in this new and exciting adventure bringing his experience in recording any kind of music in any region of our world.

Il cielo riflesso di AlbertinoAlbertino sedeva su una panchina di legno chiaro, nel giardino umido del primo pomeriggio,...
07/08/2025

Il cielo riflesso di Albertino

Albertino sedeva su una panchina di legno chiaro, nel giardino umido del primo pomeriggio, dove l’aria sembrava sospesa tra estate e memoria. Davanti a lui, una pozzanghera – vasta come un piccolo specchio del mondo – rifletteva il cielo. Le nuvole vi danzavano lente, mutevoli, come note sparse su uno spartito invisibile.
Il giovane osservava. E pensava.
Quelle forme mobili, incostanti eppure così familiari, gli parevano suoni. Ogni mutamento era un passaggio armonico, ogni riflesso un colore d’orchestra. Si domandò se fosse la luce a dare loro voce, o se fosse il suo cuore, nel tentativo di comprenderle.
“Anche noi,” pensò Albertino, “siamo come nuvole: nasciamo, ci espandiamo, cambiamo forma e colore. E nel tempo – impercettibilmente – diveniamo altro.”
Vide allora, tra le pieghe del cielo specchiato, i volti delle persone amate, amici e sconosciuti, come fiori sbocciati lungo il cammino. E comprese che anche noi, come i fiori, emaniamo profumi invisibili, musiche interiori. E ci attraiamo, ci accompagniamo, ci fondiamo – non per cancellarci, ma per diventare altro, insieme.
Non era più il tempo del conflitto, della divisione, delle parole taglienti. Era giunta l’ora del sentimento profondo, della fusione dei cuori. Perché solo unendosi si poteva davvero mutare in qualcosa di nuovo – come le nuvole che si rincorrono nel cielo per poi dissolversi in una pioggia che nutre la terra.
Albertino socchiuse gli occhi. Le nuvole, riflesse e vere, continuavano il loro lento mutamento, come un’orchestra celeste che suonava per chi sapesse ascoltare.
E lui ascoltava.
Capiva, allora, che la vita non è altro che una lunga melodia di metamorfosi, in cui ogni incontro è un accordo, ogni abbraccio un’armonia.
E che solo amando, comprendendo, fondendosi — si può diventare la vera musica del mondo.

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La nebbia e AlbertinoAlbertino si alzò presto, quando il cielo era ancora un pensiero tra il buio e la luce. Prese il su...
05/08/2025

La nebbia e Albertino

Albertino si alzò presto, quando il cielo era ancora un pensiero tra il buio e la luce. Prese il suo cappello di lana, un bastone sottile e scese lungo il sentiero verso il fiume. Il mondo era coperto da una nebbia spessa, come panna che dormiva sopra ogni cosa. I rami, le case, perfino il campanile parevano fantasmi immobili nel latte del mattino.
Albertino camminava piano. Non aveva paura. Amava la nebbia.
Diceva che era come un canto, una musica che non si sente ma si sente. La nebbia non toglie, pensava, ma restituisce. Nasconde il mondo solo per renderlo più bello quando lo lascia riapparire. Come una carezza lenta.
Sul molo, sedette a gambe incrociate. Non si vedeva l’acqua, ma lui sapeva che c’era. Lo sentiva nel silenzio, nel respiro umido che gli si posava sulla pelle. Ogni tanto una sagoma compariva, un albero, una barca legata, e poi svaniva di nuovo, come se la nebbia giocasse con lui a nascondino.
“È così che dev’essere l’armonia,” disse a bassa voce, come se parlasse alla nebbia stessa. “Ti avvolge e ti cambia senza che tu lo sappia. E quando te ne accorgi, sei già dentro il sogno.”
Alzò gli occhi. Da dietro la cortina lattiginosa, il sole cominciava a filtrare. Lì dove prima non c’era nulla, ora appariva una barca rossa, e poi una fila di alberi, e poi la casa del vecchio pescatore con il tetto storto.
Albertino sorrise. Non era un sorriso allegro, ma di quelli pieni di sapere, come fanno i vecchi quando il mondo si comporta esattamente come avevano previsto.
Si alzò e tornò indietro. Lasciò il fiume, la nebbia, e tutto quello che vi era nascosto. Ma dentro di lui rimaneva quella luce lattiginosa, quel sogno. Perché lo aveva capito: la bellezza non sta nel vedere tutto, ma nel lasciarsi abbracciare da ciò che non si può vedere del tutto.
E la nebbia, da quel giorno, fu la sua melodia segreta.

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Il canto delle ondePulcinella camminava sulla riva, i piedi nudi accarezzati dalla schiuma tiepida del mare. Ogni onda c...
01/08/2025

Il canto delle onde

Pulcinella camminava sulla riva, i piedi nudi accarezzati dalla schiuma tiepida del mare. Ogni onda che giungeva sembrava salutarlo, e ogni schizzo pareva raccontare un segreto antico. Il sole del mattino filtrava tra le nubi come un vecchio amico, e il giovane Pulcinella si fermò a guardare il mare.
“Perché,” si domandò, “ogni onda è diversa? Alcune alte e impetuose, altre lievi come carezze. Ma sono tutte fatte d’acqua di mare. Com’è possibile?”
Si sedette su una roccia levigata, il volto serio, la mente in tumulto. Gli sembrava d’udire, sotto al rumore delle onde, un’armonia segreta. Una musica profonda che nessuno ancora aveva composto. E in quel pensiero, come spesso accade ai giovani che sanno ascoltare, nacque una verità.
“Le onde,” sussurrò, “sono come le note musicali. Tutte diverse, ma tutte parte della stessa melodia. E il mare è come una grande sinfonia in continuo divenire. Chi lo ascolta con il cuore sente che c’è un’armonia più grande, che ci avvolge e ci guida.”
Gli occhi di Pulcinella si fecero lucidi, ma non di tristezza. Era lo stupore di chi intravede l’essenza delle cose. Il mondo non è caos, ma danza. E ogni onda è un gesto d’amore che il mare compie verso la riva.
“Quando sarò grande,” disse al vento, “voglio comporre onde. Onde di musica, onde di parole, onde di carezze. Perché se il mare può innamorare la terra con il suo andare e tornare, anch’io potrò far innamorare il mondo con le mie melodie.”
Si alzò, il cuore leggero. Ogni passo lasciava un’impronta che presto l’acqua cancellava. Ma non importava: il sogno era stato scritto nel suo cuore, e da lì nessuna onda l’avrebbe mai cancellato.
E da quel giorno, Pulcinella iniziò ad ascoltare le onde come si ascolta una voce amica. Perché l’amore, capì, è l’unica musica che non finisce mai.

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Il viaggio di Alberto Alberto aveva solo quattro anni, ma dentro la sua testa si agitavano idee più grandi di lui. Da qu...
29/07/2025

Il viaggio di Alberto

Alberto aveva solo quattro anni, ma dentro la sua testa si agitavano idee più grandi di lui. Da quando aveva scoperto che Cristoforo Colombo non aveva davvero scoperto l’America — o almeno, non quella vera — tutto il suo mondo si era come inclinato di qualche grado, come un mappamondo messo storto.
«Ma allora perché si chiama America e non Colombia?» aveva chiesto con la sua solita voce squillante.
Fu Amerigo Vespucci a mettere piede sul vero continente. Colombo aveva solo sfiorato un’isola: San Salvador. Un’ombra sulla soglia, non il padrone di casa.
E così, tra libri illustrati e atlanti polverosi, Alberto decise che lui sarebbe andato lì, nella vera America, e ci sarebbe andato per davvero, non solo con la fantasia.
Il giorno del viaggio salì su un grande aereo, di quelli che fanno tremare la terra quando decollano. Aveva con sé un piccolo zaino e un’idea grande come un continente. Seduto accanto al finestrino, guardava le nuvole passare sotto di lui e pensava:
«Io sono il piccolo Vespucci di oggi.»
Ma dentro, qualcosa lo turbava.
“E se l’America che troverò non sarà quella che immagino? E se neanche io saprò più chi sono una volta laggiù?”
Pirandello avrebbe detto che Alberto era “uno, nessuno e centomila”: figlio d’Italia, sognatore d’America, e forse qualcosa d’altro ancora, qualcosa che non si può dire, perché cambia ogni volta che ci si guarda allo specchio.
Atterrò a New York in un pomeriggio dorato. Mentre metteva piede sulla passerella, il suo sguardo si posò sulla bandiera a stelle e strisce.
«Ecco, ci sono. Sono arrivato. Ma chi sono, adesso?»
Un doganiere lo guardò e gli sorrise.
«Welcome to America, little man!»
Alberto annuì. Non capiva tutte le parole, ma sentiva il senso. Era come se il mondo lo stesse chiamando per nome.
E forse è proprio questo il mistero dell’identità: non sei mai quello che credi di essere… ma sempre ciò che stai diventando.

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“Il compleanno di Claudio”Don Camillo, quel giorno, aveva messo su il disco di Bach più solenne che aveva trovato nella ...
24/07/2025

“Il compleanno di Claudio”

Don Camillo, quel giorno, aveva messo su il disco di Bach più solenne che aveva trovato nella canonica. Peppone, appena entrato, fece una smorfia:
— Don Camillo, ma non ce l’ha qualcosa di più allegro?
— Taci, Peppone, oggi è il compleanno di Claudio.
Peppone fece un’espressione di rispetto, come quando si ascolta un’orchestra con le mani dietro la schiena.
— Claudio… il flautista? Quello che quando suona, pare che l’aria si inchini?
— Proprio lui. E oggi non si festeggia con torta e candeline. Si festeggia con Bach.
Peppone si sedette, e guardò il giradischi girare come se fosse la Terra che seguiva il sole.
— Ma perché proprio Bach?
— Perché è con Bach che Claudio ringrazia i suoi genitori.
Peppone arricciò il naso:
— E Bach cosa c’entra con papà e mamma?
Don Camillo si tolse gli occhiali con calma.
— C’entra, caro Peppone, eccome se c’entra. I suoi genitori non gli hanno solo dato la vita. Gli hanno dato anche il lavoro. E Bach diceva che per imparare la musica, bisogna lavorare, lavorare, lavorare.
— E allora io — disse Peppone — dovrei essere un gran compositore, con tutto quello che ho lavorato in vita mia!
— Saresti stato un gran suonatore di trombone — disse Don Camillo sorridendo.
In quel momento, dalle casse gracchianti partì il Concerto BWV 1054r. Il paese sembrò fermarsi.
Don Camillo si fece serio.
— Sai, Peppone, Claudio ha avuto tanti genitori. I suoi, innanzitutto. Ma anche i maestri. Quelli che ti insegnano a lavorare bene, e con gioia.
Peppone annuì.
— E allora auguri, Claudio. Che tu possa suonare ancora a lungo. E che ogni nota sia una preghiera per chi ti ha dato la luce.
Fuori, il tramonto accendeva il cielo come un grande finale orchestrale. E mentre il flauto danzava nell’aria, in quel piccolo paese nessuno aveva più voglia di parlare. Solo di ascoltare.
Perché quando si lavora con amore, anche il silenzio diventa musica.

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Il chitarrino di LeoIl piccolo Leo aveva sette anni, un ciuffo ribelle e un chitarrino a tracolla che chiamava affettuos...
21/07/2025

Il chitarrino di Leo
Il piccolo Leo aveva sette anni, un ciuffo ribelle e un chitarrino a tracolla che chiamava affettuosamente “Corda”. Non era un chitarrino da grandi concerti, anzi: era tutto graffi e adesivi, ma nelle mani di Leo sapeva raccontare le storie più belle del mondo.
Nel paese di Boscopiano, ogni giovedì pomeriggio, il cielo si oscurava puntualmente per il passaggio del treno merci delle 16:05 e con lui arrivava la malinconia. Nessuno parlava, nessuno sorrideva. Era come se il treno si portasse via anche un pezzetto di allegria.
Leo, che di malinconia non voleva sentirne parlare, un giovedì prese il suo chitarrino e salì sulla piccola collinetta accanto alla stazione. “Se il treno porta via la gioia, io la riporto con la musica”, disse con tono deciso, come sanno fare solo i bambini che credono davvero.
Alle 16:04 in punto, cominciò a suonare. Le corde di Corda vibrarono come mai prima, e dalla chitarra uscì una melodia buffa e dolce insieme, piena di salti, sole e sorprese. Il treno arrivò, ma invece di portarsi via la gioia, rallentò, come incantato. Il macchinista, un certo Torquato dal cuore burbero, aprì il finestrino e scoppiò in una risata tanto grossa da far tremare i binari.
La gente del paese, sentendo la musica e le risate, uscì dalle case. Qualcuno portò un tamburello, un altro un flauto, e in pochi minuti la collinetta si trasformò in un piccolo festival.
Da quel giorno, ogni giovedì alle 16:04, Leo saliva sulla collina col suo chitarrino, e il treno non era più un ladro di allegria, ma l’inizio di una festa. Torquato suonava il clacson a ritmo, la gente danzava, e persino il cielo sembrava restare un po’ più chiaro.
Perché a volte basta un chitarrino, un bambino coraggioso e una nota giusta al momento giusto per salvare un intero paese dalla tristezza.

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Sul Lago di Como, in un angolo che Dio stesso pareva aver sfiorato con mano leggera, viveva un giovane musicista, d’anim...
17/07/2025

Sul Lago di Como, in un angolo che Dio stesso pareva aver sfiorato con mano leggera, viveva un giovane musicista, d’animo puro e cuore devoto, di nome Elia.
Ogni mattina, prima che l’alba sfiorasse le vette con le dita d’oro, egli si recava a una piccola chiesetta, solitaria e raccolta, che si affacciava come in preghiera sullo specchio del lago.
Là, inginocchiato dinanzi all’altare, mormorava parole dolci come nenie d’infanzia, poi usciva e volgeva lo sguardo al vecchio salice piangente che crescea presso la riva.
Ma avvenne, come accade purtroppo nei tempi d’oggi e d’allora, che alcuni cacciatori, non paghi delle prede del bosco, rivolsero i loro fucili agli uccelli che posavano tra le fronde del salice. Il canto cessò, i rami divennero secchi, e l’albero stesso parve spegnersi, come un cuore che più non trova ragione di ba***re. Elia, colpito da quel silenzio che pareva un lutto, pianse. Pianse per il salice, per gli uccelli, per la gioia perduta del mattino. Ma poi, come mosso da divina ispirazione, prese il suo flauto e compose una cantilena dolcissima, tanto lieve e penetrante che pareva tessuta coi fili del vento e dell’acqua. Ogni giorno, al sorgere del sole, sedeva presso il salice muto, e suonava. Le note, come preghiere alate, salivano al cielo e si diffondevano sulle acque. Passarono giorni, settimane.
Poi, un mattino, una foglia nuova tremolò su un ramo.
E il giorno dopo un’altra, e poi un’altra ancora. E fu così che il salice tornò a piegare i suoi rami sull’acqua, carezzando il lago come una madre consola il figlio addormentato. E gli uccellini, tornati dal silenzio, ricominciarono a cantare. Il canto della cantilena, mescolato al loro, si ode ancora oggi, quando il vento passa leggero fra le fronde. Così l’anima del giovane Elia vive ancora, in ogni nota che apre i cuori, come una benedizione posata sulla riva del lago.

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La rivoluzione di GiudittaA Roma, nell’anno del Signore 1825, tra le cupole barocche e le carrozze cigolanti, c’era un s...
14/07/2025

La rivoluzione di Giuditta

A Roma, nell’anno del Signore 1825, tra le cupole barocche e le carrozze cigolanti, c’era un silenzio che odorava di polvere da sparo. Non quella dei moschetti, ma quella delle idee. Il Papa regnava ancora, ma le teste calde dei romani sognavano la libertà, e i motti carbonari spuntavano come margherite in primavera: “Dio e Popolo”, “Uguaglianza o morte”, “Viva la Repubblica”.
Eppure, tra il Tevere e il Ghetto, c’era una voce che cantava più forte di tutte le parole sovversive. Era la voce di Giuditta. Una ragazza con gli occhi come le notti di maggio e una voce che faceva tremare i muri delle sinagoghe e i cuori dei birri.
Giuditta era bella come un sole appena nato e aveva un talento raro: quando cantava, anche le guardie si toglievano il cappello. Ogni mattina si metteva al bordo del fiume, tra i rivoli d’acqua e le pietre lisce, e intonava canzoni d’amore e malinconia, con un filo di speranza che si infilava tra le note come un raggio di luce in una chiesa buia.
Un giorno, tra il pubblico incantato, c’era lui: Emanuele, un giovane carbonaro col mantello scuro e la voce roca di chi sogna da troppo tempo. Si innamorò perdutamente. Lei, invece, sapeva già tutto: non delle congiure o delle stampe clandestine, ma del cuore di lui. Lo leggeva nei suoi occhi e nella postura troppo dritta per essere innocente.
«Tu vuoi cambiare il mondo con la spada,» gli disse una sera, «ma io voglio cambiarlo con un canto.»
Lui la guardò, e per un attimo pensò che forse una rivoluzione senza amore era solo rumore.
Da allora, ogni incontro segreto tra carbonari nel Trastevere aveva come sigillo la voce di Giuditta che, da lontano, cantava.
E così, in mezzo a proclami e battesimi politici, ci fu una rivoluzione silenziosa: quella di una ragazza che sapeva solo cantare. E che, con la sua voce, accese più cuori di mille proclami.

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Giovannino Bach sulle rive del PoGiovannino Bach non era ancora “il grande” Giovanni Sebastiano. Era un ragazzino coi ca...
10/07/2025

Giovannino Bach sulle rive del Po

Giovannino Bach non era ancora “il grande” Giovanni Sebastiano. Era un ragazzino coi calzoni corti, gli occhi grandi e la testa piena di cose che non si vedevano, ma si sentivano — come il suono del vento che correva sopra le acque del Po.
Giocava sulle rive fangose del grande fiume che attraversava il suo villaggio di fantasia, un po’ Bassa parmense, un po’ Turingia — perché, si sa, nella fantasia di un bambino le geografie si mescolano meglio del latte nel caffè.
Il Po, per Giovannino, non era solo un fiume. A volte diventava il Nilo, con coccodrilli immaginari che sbucavano tra i rami, mentre in lontananza s’alzavano piramidi di sabbia e pioppi. Altre volte era il Rio delle Amazzoni, con uccelli variopinti e tamburi tribali che rimbalzavano nell’aria come note sconclusionate.
Ma a lui mancava qualcosa.
Perché quei paesaggi, per quanto belli, erano muti.
Così Giovannino, col dito o con un bastoncino, scriveva note sulla sabbia. Semiminime, biscrome, chiavi di violino e fughe cominciate e mai finite. Ma poi l’acqua arrivava, le cancellava piano piano, come fa il tempo coi sogni degli uomini grandi. E Giovannino ci restava male, sì, ma non troppo.
Perché dentro di sé si fece una promessa: «Un giorno, scriverò musica che nemmeno il Po potrà portarsi via».
E mentre gli altri bambini rincorrevano rane o si tuffavano ridendo, lui ascoltava. Il fruscio dei pioppi, il canto degli uccelli, il borbottio dell’acqua, il rumore lontano d’un carro che passava sullo sterrato — tutto era melodia.
Quando tornava a casa, la mamma scuoteva la testa:
— Sempre coi piedi nel fango e la testa fra le nuvole, questo figliolo.
Ma il babbo, che suonava l’organo in chiesa, sorrideva sotto i baffi:
— Lascialo sognare. Prima o poi, da quel fiume nascerà un mare di musica.
E infatti fu così.
Ma questa è un’altra storia.

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In un villaggio dal nome dimenticato dal tempo e scolpito solo nei canti dei pastori, viveva una fanciulla di nome AnnA ...
07/07/2025

In un villaggio dal nome dimenticato dal tempo e scolpito solo nei canti dei pastori, viveva una fanciulla di nome AnnA — sì, con due “A”, una all’inizio e una alla fine, come se l’universo l’avesse voluta incastonare tra due specchi.
AnnA era di bellezza semplice e luminosa, come l’alba che non chiede nulla, e passava le sue giornate ad aiutare il padre nel campo e a suonare una piccola lira che le aveva lasciato la madre, trapassata in silenzio una primavera di molti anni fa. La giovane non sapeva leggere né scrivere, ma le bastava pronunciare il proprio nome per sentirvi dentro un mistero.
Un giorno, un pellegrino dalla barba bianca come la neve bussò alla porta. Portava con sé un libro antico, più vecchio del reame stesso, e vide in AnnA qualcosa che nessuno aveva mai visto: l’eco di un tempo circolare. Sedette con lei al tramonto e le disse:
«Il tuo nome, fanciulla, è un palindromo. Si legge da sinistra a destra, e da destra a sinistra, come se il destino si prendesse gioco delle direzioni. Così è la vita.»
AnnA, che non conosceva la grammatica ma sapeva riconoscere la verità quando la sentiva, capì in un istante che le sue giornate, il suo amore per la musica, il sorriso del sole e le lacrime della pioggia, non avevano un principio né una conclusione: erano parte di un canone infinito.
Ogni fine era solo un nuovo inizio, ogni addio una promessa.
Da quel giorno, AnnA cominciò a suonare melodie che sembravano nascere da sole, come se l’universo le sussurrasse le note. I contadini smettevano di lavorare, i bambini tacevano i giochi, perfino il vento si fermava per ascoltarla. Era come se la musica venisse dal fondo del tempo.
E così, AnnA capì che anche la vita è una partitura, e il cuore umano un flauto che non smette mai di cantare, anche quando tace.
E se un giorno la sua melodia si fermasse, si sarebbe solo voltata per ripartire.

https://open.spotify.com/track/5pOxmQsN7I89BD7qf8iJnQ?si=frsqM0CaQfOFs4oEXs6U-g

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Il mio passaggio su questo pianetaOgni essere umano, in questa danza dell’universo, ha un compito da portare a termine. ...
03/07/2025

Il mio passaggio su questo pianeta

Ogni essere umano, in questa danza dell’universo, ha un compito da portare a termine. Il mio è stato – ed è ancora – quello di soffiare il vento del cuore dentro un flauto, e lasciare che la musica ne sia il respiro.
Sono caduto molte volte. La vita non è mai stata semplice o comoda. Ma ogni caduta è stata un seme di consapevolezza: mi sono rialzato con fiducia e coraggio, ogni volta con più forza, guidato da un’urgenza profonda – quella di portare la mia musica nel mondo. Una musica che nasce dal silenzio interiore, da un’intima necessità, da uno spazio dove il cuore si fonde con il suono.
Ormai sono più di cinquant’anni che suono. Cinquant’anni che il flauto è il mio compagno, la mia voce, il mio ponte verso gli altri. Cinquant’anni in cui ho percorso sentieri noti e inesplorati, senza mai accontentarmi delle mode o dei compromessi. Non ho mai suonato per piacere, ma per verità.
Alle mie spalle restano più di cinquecento album. Un numero che non ha mai contato per la quantità, ma per ciò che ognuno di quei lavori racchiude: passione, studio, amore, dolore, sogno. Un cammino fatto di ricerca continua, di aperture e contaminazioni, perché la musica non ha steccati né confini.
Il mio desiderio più grande è sempre stato quello di lasciare un tappeto sonoro per tutti, un sentiero udibile che possa accompagnare chi ascolta, che possa dare conforto, ispirazione o solo un momento di respiro.
Non ho mai dimenticato nessuno lungo la via. Ho cercato di suonare anche per chi non ha voce, per chi non può più ascoltare, per chi sogna in silenzio.
Questo è stato il mio passaggio su questo pianeta: un soffio di vento trasformato in musica, offerto con umiltà, dedizione e amore. E finché avrò fiato, continuerò a suonare.

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C’era ‘na vorta, in mezzo a ‘n giardino,un vecchio petalo, un po’ contadino,che disse a ‘n usignolo, su ‘n ramo fiorito:...
30/06/2025

C’era ‘na vorta, in mezzo a ‘n giardino,
un vecchio petalo, un po’ contadino,
che disse a ‘n usignolo, su ‘n ramo fiorito:
— La musica, vedi, è er fiore ‘nfinito.

Ogni violetta, co’ ‘n soffio leggero,
sembra che canti ‘n motivo sincero,
e ‘n garofano rosso, co’ ‘n tono profondo,
fa er contrabbasso der core der mondo.

Lo disse pure Dio, co’ voce divina:
— Ve do li fiori, pe’ fa’ la mia sinfonia.
Er profumo loro? So’ note d’amore
che vanno a toccà ogni razza e colore.

Così, quanno vedi ‘na rosa che spunta,
ricòrdete allora che tutto s’ariconta:
la musica vera, quella che nun s’imbroglia,
è come ‘n giardino: ce so’ fiori e fratellaia.

Che sia ‘n girasole o ‘n’arietta d’archi,
tutti so’ uguali, nessuno è più carco.
E l’anima bella che ascolta e che odora,
ha ‘n pezzetto de Dio dentro ogni aurora.

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