22/09/2025
Faccio quello che faccio per una ragione precisa: da bambino ho vissuto un’esperienza che mi ha segnato.
Era una mattina. Mio padre era al lavoro e mia madre doveva andare in posta: erano altri tempi, ci si arrangiava così, e un bambino poteva rimanere a casa da solo qualche ora.
Tre uomini entrarono dalla porta del terrazzo, scavalcando. Erano armati. Mi minacciarono e mi chiesero degli ori di famiglia, quelli delle cresime e delle comunioni. Io non parlai subito e loro per ore misero la casa a soqquadro. Alla fine, sopraffatto, con la pi***la puntata davanti alla faccia, dissi dove si trovavano.
Presero tutto, poi mi imbavagliarono e mi legarono. Dopo diversi tentativi riuscii a liberarmi e ad avvisare i vicini, che chiamarono aiuto. Poco dopo arrivarono anche i miei genitori: disperati per quello che era successo, ma grati di avere ancora un figlio.
Il giorno dopo arrivarono i giornalisti: un bambino, un furto in casa, le pistole. Era una notizia che faceva vendere. Mi ricordo distintamente la scena: i miei furono cristallini, “la foto di mio figlio non deve comparire”.
Erano i tempi delle macchine fotografiche analogiche, non come oggi. Ho ancora impressa nella mente mia madre che, di fronte ai fotografi, mi gira la faccia di scatto verso di lei con una mano e quasi urla: “Non fate foto a mio figlio!”. Il giornalismo era morto già allora, ed infatti il giorno dopo la mia foto comparve sul giornale.
Quando fummo convocati in caserma, io dissi chiaramente che avrei potuto identificare quei tre bast*rdi. Il comandante mi guardò con aria scettica e disse:
— “Sei piccolo… come puoi ricordarti il viso di una persona, dire l’età, dare dettagli così precisi? Non è possibile.”
Poi, con tono quasi ironico, aggiunse:
— “Be’, dai… a me quanti anni mi dai?”
Io lo fissai e risposi la sua età precisa. Lui sgranò gli occhi. I miei genitori, preoccupati, chiesero se ci fosse qualcosa che non andava, e il comandante disse soltanto:
— “Ha azzeccato al primo colpo…”.
Non so come andò a finire il processo, ero troppo piccolo e i miei non hanno mai voluto parlarne. Per loro non era solo un furto: da parte di mia madre la famiglia era grande, e questo voleva dire che a ogni cresima, comunione, compleanno o Natale arrivavano tanti regali, soprattutto piccoli ori che si conservavano con cura. Quegli uomini non portarono via soltanto oggetti, ma il frutto di anni di feste familiari, di ricordi condivisi tra dieci tra cugini e cugine.
È lì che ho imparato a osservare, a ricordare i dettagli, a non farmi spaventare dal fatto che qualcuno mi considerasse “troppo piccolo”. È da lì che nasce quello che faccio oggi.