27/06/2025
I bias che hanno ucciso Andromeda
Non avevo ancora scritto nulla su questa tragica vicenda di cronaca seppure fin dall' inizio sembrasse un caso in cui le istituzioni sono arrivate troppo tardi.
Le ultime novità emerse grazie alla trasmissione TV Chi l'ha visto, invece, mi persuadono a mettere in chiaro cosa deve accaduto nel sistema di protezione (dalla polizia alla associazione di volontariato che offre la tenda) per aver fatto precipitare gli eventi. Perché la bimba, è ormai evidente, davvero poteva essere salvata se non fossero intervenuti i bias.
Bias che tutti abbiamo e che se non LI RICONOSCIAMO ci fanno prendere le decisioni sbagliate. A volte queste decisioni sbagliate hanno esiti tragici. È quindi fondamentale che i servizi di protezione dell'infanzia lavorino sui propri bias, dando per scontato la loro esistenza.
C'è un solo raggio di luce in questo buio che ha condotto Andromeda verso la morte. Molti cittadini hanno fatto la loro parte, hanno fatto segnalazioni, ci hanno messo la faccia. Purtroppo non sono stati presi abbastanza sul serio. Per questo motivo questa vicenda tragica impone una riflessione che vada oltre la cronaca e tocchi i meccanismi profondi della percezione sociale e istituzionale del pericolo.
Andromeda, infatti, è morta sotto gli occhi dello Stato. Non nel buio di una stanza nascosta, non nel silenzio complice di una famiglia violenta. È morta alla luce del sole, in strada, nel pieno di una capitale europea. La bimba è stata persino avvicinata da agenti di polizia. Ma non è stata salvata.
Accanto a lei c’era - sempre - un uomo bianco occidentale in evidente stato di alterazione mentale, disorientato, incoerente. Eppure, tutto è sembrato "abbastanza normale" da non meritare un intervento. Quell’uomo, infatti , più volte, in varie parti della città, nel centro di Roma, è stato ritenuto innocuo, nonostante le segnalazioni della cittadinanza e i segnali evidenti di instabilità.
La risposta non sta solo nelle mancanze individuali, ovviamente, ma in un insieme di bias cognitivi e culturali che agiscono in modo sistemico. Bias che, in questo caso, hanno avuto conseguenze fatali.
Vediamo quali.
👉🏾Il privilegio bianco
Kaufman era un uomo bianco, americano, apparentemente ben curato. Questa combinazione ha attivato inconsciamente negli agenti e nei passanti che non hanno avvertito il pericolo un set di aspettative positive: l’idea che fosse affidabile, non pericoloso, potenzialmente solo in difficoltà.
È il cosiddetto white privilege, che non si limita a offrire opportunità, ma produce una vera e propria sospensione del giudizio critico. La pelle bianca, in contesti occidentali, continua a funzionare come uno scudo simbolico, anche di fronte a comportamenti anomali.
👉🏾 Status, cittadinanza
Non era solo il colore della pelle a proteggere Kaufman. Era anche il suo passaporto americano. Aveva un’aria vagamente istruita. Tutti elementi che contribuiscono a costruire un filtro di rispettabilità automatica, in netta contrapposizione a come verrebbero percepiti altri corpi marginalizzati. Un uomo rom, nero, povero, o semplicemente non occidentale, con una bambina accanto e in stato confusionale, avrebbe probabilmente subito un fermo o almeno un approfondimento. Kaufman invece era uno come noi, uno come quelli che decidono.
👉🏾Il bias di genere
Un uomo con una bambina è un padre e quindi gli si attribuisce un ruolo di guida, protezione, responsabilità. Non viene messa in discussione la sua legittimità accanto a un minore, fino a prova contraria. E la prova contraria, in questo caso, non è stata nemmeno cercata. Nessuno ha verificato se la bambina fosse davvero sua figlia. Nessuno ha chiesto documenti o riscontri. Quella bimba non è mai stata dichiarata, l'inizio di una scala di negazione dei suoi diritti. Bastava la parola dell’uomo. Chissà se una donna senza fissa dimora o straniera avrebbe ricevuto la stessa presunzione di innocenza. I padri, si sa, fanno le cose come possono e già portandola in braccio ci fa pensare che sia un buon padre.
👉🏾 L’effetto alone
Il comportamento di Kaufman era incoerente, le sue spiegazioni confuse, è stato visto ferito e barcollante. Eppure, tutto il contesto (la sua lingua, il suo tono, il suo abbigliamento) ha contribuito a costruire un alone positivo. È il cosiddetto "halo effect", per cui un tratto percepito come favorevole (per esempio, l’aspetto curato o la buona dizione) si estende a giudizi complessivi su una persona. La sua instabilità mentale è stata letta come eccentricità. Il disagio della bambina è stato interpretato come timidezza. Il pericolo è stato disinnescato dalla rassicurazione superficiale.
👉🏾Il bias di conferma
Una volta stabilita la narrazione che si trattasse solo di un padre un po’ in difficoltà, ma non pericoloso, tutti gli altri segnali sono stati filtrati per confermare quella versione.
Il bias di conferma, infatti, ci fa selezionare solo le informazioni che rafforzano l’idea che ci siamo già costruiti. In questo schema mentale, le contraddizioni non allarmano perché vengono ignorate o razionalizzate. È così che una bambina silenziosa, sporca, disidratata resta con chi la sta portando verso la morte. Non perché nessuno la veda, ma perché nessuno riesce a mettere in discussione l’interpretazione iniziale.
👉🏾 Effetto spettatore
Anche chi ha avuto dubbi, probabilmente, si è affidato all’idea che se nessuno è intervenuto, un motivo ci sarà. È il classico effetto spettatore, amplificato quando le istituzioni sono coinvolte. La polizia ha controllato, e quindi avrà valutato correttamente. L’apparente normalità della scena, confermata dall’autorità, ha bloccato ogni ulteriore azione. Ma la normalità non è neutra. Ci dobbiamo sempre ricordare che è costruita su pregiudizi, abitudini, stereotipi.
Insomma la piccola Andromeda non è morta solo per l’azione di un uomo. È morta per l’attivazione di bias profondi, strutturali, spesso invisibili, che guidano le nostre decisioni anche quando pensiamo di essere oggettivi. Bias che rendono invisibili i più vulnerabili.
Alla donna che ha chiamato la polizia e ha insistito perché Kaufman fosse fermato con quella bambina in braccio è stato detto che aveva un atteggiamento da stalker perché non si arrendeva alle risposte semplificate fornite dagli agenti. A lei il mio grazie, non deve essere facile adesso vivere con i sensi di colpa per non aver fatto di più. Hai fatto moltissimo. Hai scardinato tutti i bias per vedere una bambina per come stava davvero: in reale pericolo.