
12/05/2025
Nacque in una terra di sole caldo e sabbia rossa, probabilmente nel 1753, in Senegal o nelle sue vicinanze. Il suo vero nome si è perso nel vento africano, inghiottito dall’oceano insieme ai suoi giochi d’infanzia, alla lingua madre, alla voce della madre. Aveva circa sette anni quando fu strappata alla sua famiglia da trafficanti di esseri umani. Fu costretta a salire a bordo di una nave negriera battente il nome di Phillis, e da quel momento, Phillis divenne il suo nuovo nome, come a suggellare per sempre l’inizio di un altro destino.
Il viaggio verso l’America fu una lenta agonia. Bambina tra bambini, rinchiusa nella stiva come merce senz’anima, affrontò la fame, la paura, e l’odore dolciastro della morte che aleggiava tra i corpi ammassati. Giunta a Boston, venne esposta al mercato come una creatura esotica: “Sette anni, sana, forte. Sarà una buona giumenta”, gridavano i negrieri, mentre mani sconosciute la palpeggiavano senza pudore.
Fu acquistata da John Wheatley, un mercante benestante, che la regalò a sua moglie Susanna come domestica. Ma la piccola schiava mostrava da subito un’intelligenza fuori dal comune. Invece di giocattoli, chiese libri. Invece di servire a tavola, imparò il latino, l’inglese e la Bibbia. La famiglia Wheatley, colpita dal suo acume, le concesse ciò che a pochi schiavi era permesso: un’istruzione. A undici anni leggeva Ovidio. A tredici, scriveva poesie. In versi misurati, parlava di libertà, di fede, di dolore e di speranza.
Ma il mondo non era pronto a crederle.
Quando pubblicò i suoi primi componimenti, le accuse non tardarono ad arrivare. “Una schiava? E poetessa? Impossibile.” Per provare che quei versi erano davvero suoi, a vent’anni fu convocata davanti a un consiglio di diciotto uomini: giudici, religiosi, accademici. Tutti bianchi. Tutti uomini. Tutti increduli. La guardarono come un’anomalia, un enigma fastidioso. Seduta su una sedia, vestita con abiti prestati e lo sguardo fermo, Phillis recitò Virgilio e Milton, spiegò i suoi versi, discusse di teologia con la compostezza di una filosofa. Alla fine, il verdetto: sì, è lei l’autrice. Era donna, era nera, era schiava — ma anche poetessa.
Nel 1773, pubblicò il suo libro: Poems on Various Subjects, Religious and Moral. Fu la prima afroamericana — e una delle prime donne in assoluto — a pubblicare un libro negli Stati Uniti. L’opera fu stampata a Londra, perché in America nessun editore osava legare il proprio nome a quello di una donna nera.
La libertà arrivò poco dopo la pubblicazione, ma non portò con sé la felicità. Una volta liberata, Phillis si ritrovò sola in un mondo che l’aveva sempre definita attraverso la schiavitù. Sposò un uomo nero, John Peters, ma vissero nella miseria. Ebbero tre figli, tutti morti in tenera età. Lei, abbandonata e dimenticata, morì a soli 31 anni, povera, malata e sconosciuta.
Eppure, i suoi versi hanno attraversato i secoli. Phillis Wheatley non fu solo una scrittrice: fu la prima voce nera che seppe spezzare le catene con l’inchiostro. Seppe dimostrare che anche sotto il giogo della schiavitù può nascere bellezza, e che la parola, quando è vera, non conosce catene.