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Non mi domandare di essere felice. Io non voglio essere felice. Vorrebbe dire accettare questa vita senza te. E io non p...
24/07/2025

Non mi domandare di essere felice. Io non voglio essere felice. Vorrebbe dire accettare questa vita senza te. E io non posso. Non voglio. Sarebbe dire che tutto quello che eravamo può continuare a vivere anche senza la tua voce, il tuo sguardo, il tuo sorriso che sapeva sciogliere il peggio delle mie giornate. Vorrebbe dire imparare a camminare da sola nei luoghi che avevamo scelto in due. Ma con le gambe spezzate non si possono percorrere strade.
Ogni volta che qualcuno dice che ritroverò la felicità, io annuisco con un sorriso di cortesia, come si fa con i bambini che raccontano le favole. Ma dentro me rispondo: Non voglio essere felice. Non adesso. Non dopo. Ogni parola risuona come un insulto, come un invito a tradire ciò che sei stato e sei per me. Come potessi ancora essere intera, senza la tua metà. E io non sono intera. Non più.
Gli anni che restano li passerò a chiudere le nostre finestre. Quelle che avevamo spalancato insieme, pieni di sogni, ignari del fatto che un giorno avrei dovuto chiuderle così, una alla volta, da sola.
Inizierò da quella dello studio, dove avevamo inciso i nomi delle città da visitare: Parigi, Lisbona, Napoli ove tornare. Avevamo disegnato anche un camper, sui vetri appannati: dentro noi due a cantare con voci stonate. Una finestra di sogni e mappe, che ora richiuderò con un sorriso amaro.
Poi passerò alla finestra della cucina. Conserva ancora il profumo dei tuoi piatti, il suono del coltello sul tagliere. La chiuderò piano, lasciando dentro l’aroma del basilico e del caffè.
Poi sarà la volta del salotto. Quella finestra aperta sulle nostre domeniche pigre, i film condivisi ed io che mi addormentavo sempre prima del finale.
E poi… poi toccherà alla finestra che s’affaccia sul garage. “Questa primavera diamo la tinta alla serranda”, dicevi. Ma la primavera è trascorsa con il dolore che non ti dava tregua. “Lo faremo quest’autunno”, ti dissi. Ma poi l’autunno è arrivato con l’odore della terra bagnata… e tu eri già altrove.
Passerò infine alla finestra della camera da letto mai comprata. Quella “nostra”, bianca come il nostro amore. Tra mille rinvii e mille “poi ci penseremo”, avevamo finalmente scelto il modello, e stavamo per ordinarla. Poi il tempo si è rotto, come un orologio lanciato contro un muro invisibile. È rimasta solo l’ombra di quel figlio sognato, quando facevamo mattina, stretti l’uno all’altra come chi si protegge dal mondo. Forse un giorno l’acquisterò io. Forse. Per lasciarla vuota, come un altare.
E l’ultima finestra sarà quella sul giorno del nostro matrimonio. Eravamo ad un passo, dopo tanto attendere. Un passo rimasto sospeso, rubandomi anche il diritto di essere riconosciuta “vedova”. Come se diciotto anni, 6.575 albe insieme, potessero essere cancellate in un soffio. Come un foglio stracciato e buttato al vento.
La luce svanirà, lenta, discreta. Non farà rumore; non sarà buio improvviso. Come una carezza che si ritira. Svanirà come svaniscono le cose vere: in silenzio. Con pudore. Sarà un addio silenzioso ai progetti lasciati sospesi, come lenzuola stese ad asciugare che non verranno mai ritirate.
E quando anche l’ultima finestra sarà chiusa, forse, potrò sedermi. E lascerò che la notte entri, piano. Come una promessa. Come un ritorno.
In pace. Non felice.
Ma sarò fedele. Fino alla fine.

© 2025 | MA STUDIO

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Non li ho mai conosciuti davvero, i miei nonni. Sono arrivata tardi, o forse sono loro che se ne sono andati troppo pres...
24/07/2025

Non li ho mai conosciuti davvero, i miei nonni. Sono arrivata tardi, o forse sono loro che se ne sono andati troppo presto. Sono morti prima che io nascessi, come se avessero deciso di farsi da parte prima di potermi incontrare. Come se la mia venuta al mondo avesse avuto un prezzo: la loro assenza. Come un sipario chiuso prima della mia entrata in scena. Lasciando dietro di loro un vuoto che nessuno sapeva nominare; ma io sentivo, sempre.
Mi sono sempre mancati. Non nel modo in cui manca una persona amata che si è perduta: quel dolore ha un nome, una data, una voce che si ricorda. No, loro mi sono mancati in un modo più silenzioso, più subdolo. Sono mancati come può mancare un pezzo di sé che non si è mai avuto, ma si intuisce. Un’amputazione. Un vuoto che ti plasma comunque, ti accompagna come un’ombra al contrario: un’assenza che si fa presenza.
Non so quasi nulla di loro, se non i nomi, la data di nascita e di morte e qualche fotografia sbiadita; due o tre aneddoti raccontati da chi li ha conosciuti davvero. Il racconto di una guerra, di un mestiere e poco più.
Mio nonno materno dicevano fosse un uomo chiuso, restio ai gesti affettuosi. Un uomo di poche parole, di mani ruvide, forse stanche di troppo lavoro o troppo silenzio. Ma forse con me sarebbe stato diverso: con i nipoti si cambia, si lascia cadere la corazza dietro la quale ti sei riparato. Sai che non ti serve più. Con i nipoti si ritorna al tuo io bambino. Mi avrebbe preso in braccio? Mi avrebbe guardata di nascosto mentre giocavo, con quell’orgoglio timido che certi uomini riservano solo ai propri nipoti? Magari avrebbe imparato ad amare piano, come si ama una pianta che cresce senza fare rumore.
Il nonno paterno, raccontavano, era molto accogliente. Una figura imponente. Una presenza, un padre per tutti. Di quelli che non alzano mai la voce, ma quando parlano fanno silenziare anche il vento. Un uomo che sapeva costruire una casa come si tiene insieme il cuore di una famiglia. E mi aspettava, come si aspetta un miracolo.
Non poteva ancora saperlo, che sarei nata femmina — unica nipotina femmina tra tanti maschi — eppure qualcosa dentro di lui già lo sapeva. Per me, per quella bimba che ancora non esisteva, aveva ampliato la casa. Una stanza tutta per me. Come se già sapesse che nella vita avrei avuto bisogno di un rifugio, un angolo solo mio, dove rintanarmi quando il mondo fa troppo rumore. Lui lo sapeva. Prima ancora che io nascessi, già mi conosceva. E quel rifugio, quella casa costruita con le sue mani, l’ho ristrutturata, abitata per tutta la vita.
Il mio uomo penso gli somigliasse: forse per questo l’ho amato tanto. In lui ho riconosciuto quella parte di me che nessuno mi aveva svelato. C’era qualcosa nel suo modo di restare, nella sua solidità, nel suo abbraccio che non vacillava mai… che sembrava ve**re da un’altra epoca. Da un’altra radice. Come se mio nonno, quello che mi aspettava senza conoscermi, avesse lasciato un’eredità segreta: il sapere che qualcuno, un giorno, mi avrebbe riconosciuta davvero.
Non so come camminassero i miei nonni, che voci avessero: a quei tempi in famiglia non c’era un registratore. Non so come ridevano, se avrebbero fatto i buffoni per farmi ridere a tavola, se mi avrebbero insegnato a potare un albero, a mo***re una libreria o a raccontare una barzelletta stonata. Non so se avrebbero inventato per me un nomignolo tutto loro, se sarebbero venuti a prendermi a scuola o accompagnato ai giardini.
Come se una vita intera potesse riassumersi in due date: l’inizio e la fine. Le date impresse su un sepolcro.
Mi sono sempre mancati i nonni. Ma soprattutto, è mancata una parte di me che avrei potuto essere accanto a loro. Una versione diversa della mia infanzia. Una voce saggia a raccontarmi che il tempo non va mai sprecato.
So, che se li avessi avuti, la mia vita sarebbe stata diversa: più facile, più piena, più radicata.
Forse m’avrebbero insegnato a non avere paura del mondo; mi avrebbero detto che andava bene anche se non ero perfetta. Forse avrebbero riconosciuto qualcosa di loro in me, e in quello sguardo io avrei potuto finalmente riconoscere me stessa.
Ma non li ho avuti.

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I nonni sono fondamenta. Sono archi portanti. Memoria incarnata, carne che ha attraversato il tempo e ne porta le cicatrici con fierezza.

𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗹'𝗮𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗲𝗻𝗮 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮 𝗹'𝘂𝗹𝘁𝗶𝗺𝗼 𝗿𝗶𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗹𝗹𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗼.Ci lamentiamo dell’isolamento. Lo invochiamo come un flagello modern...
23/07/2025

𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗹'𝗮𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗲𝗻𝗮 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗻𝘁𝗮 𝗹'𝘂𝗹𝘁𝗶𝗺𝗼 𝗿𝗶𝘁𝗼 𝗰𝗼𝗹𝗹𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗼.

Ci lamentiamo dell’isolamento. Lo invochiamo come un flagello moderno: “non ci si incontra più”, “nessuno parla con nessuno”, “siamo soli anche in mezzo alla gente”.
Eppure, appena si propone un momento di condivisione vera — un incontro culturale, un laboratorio creativo, una lettura collettiva — le sedie restano vuote. O quasi.
Siamo diventati un popolo che esce di casa solo per un apericena. La fame che sentiamo non è quella dell’anima, ma dello stomaco. Il bisogno di “esserci” si traduce in un drink in mano e una foto da postare, più che in uno sguardo condiviso, una parola che scuote, un gesto che unisce.
Non cerchiamo relazioni autentiche, ma distrazioni rapide. Ci muove l’intrattenimento, non la partecipazione. Ci attrae l’effimero, il già visto, il già detto. E mentre scrolliamo, imbambolati, lo spirito si assottiglia, si affloscia, si addormenta. Un’anestesia emotiva collettiva ci ha raggiunti.
Non fa male, ma ci rende incapaci di sentire.
Senza momenti di confronto, senza l’abitudine al dialogo vero, alla complessità, all’ascolto di voci diverse, il pensiero si semplifica fino a diventare fragile. Ci accontentiamo di slogan, di opinioni preconfezionate, di indignazioni passeggere. E perdiamo la capacità di pensare con la nostra testa.
La partecipazione è esserci, dire la propria, contribuire alla costruzione del senso collettivo. Se ci si incontra solo per bere un bicchiere e postare una foto, la polis muore. E con essa, la democrazia si svuota. L’arte e la cultura sono ciò che ci lega, ciò che ci racconta da dove veniamo e dove possiamo andare. Rinunciarvi, lasciarle ai margini, significa perdere memoria, radici, visione. Diventiamo isole, scollegate, disorientate, fragili di fronte a ogni vento.
Senza l’abitudine a frequentare luoghi di senso, che non siano solo bar, centri commerciali o piattaforme, le relazioni si fanno sempre più superficiali, transitorie, funzionali. E nella solitudine vera, quella profonda, nessuno sa più come si fa a tendere la mano.
Dove ci porta tutto questo?
In un mondo che ha perso la capacità di stare insieme davvero, cresce il bisogno di leader forti, soluzioni semplici, appartenenze cieche. È il terreno fertile per ogni deriva autoritaria, per ogni populismo culturale, per ogni manipolazione.
Nel frattempo, chi ancora prova a tessere relazioni attraverso l’arte, la cultura, la parola, si ritrova a combattere contro l’indifferenza. Organizzare un evento oggi è quasi un atto sovversivo. Perché propone lentezza in un mondo che corre, riflessione dove regna il rumore, presenza vera dove domina la connessione finta.
Mi domando: ha senso continuare a provarci, a parlare in un mondo che non vuole ascoltare?
La cultura condivisa è l’unico vero vaccino sociale contro l’apatia, contro la paura, contro l’odio. Ed è proprio per questo che va coltivata, anche quando sembra inutile, anche quando le sedie sono vuote.
Non è un lusso: è una necessità democratica. Un bene comune, come l’aria o l’acqua. Custodirla, proporla, insistere nel farla vivere, è una scelta politica altissima, anche senza proclami. Perché in un mondo che scivola verso l’indifferenza, organizzare un incontro è un atto rivoluzionario. E chi partecipa, chi si siede, chi ascolta, quei pochi hanno sete e spesso non lo sanno, finché non riscoprono il calore di un incontro che non ha bisogno di filtri o hashtag.
Stare insieme richiede coraggio, disponibilità, silenzio, ascolto, tempo. E oggi il tempo è il bene più raro, più sacro… e più sprecato.
Allora forse la sfida è proprio questa: riportare valore dove tutto è diventato consumo. Riaccendere il desiderio di creare, di partecipare, di essere. Non solo spettatori: persone vive, che si cercano davvero.
E finché anche solo uno parteciperà, varrà la pena organizzare. Per iniziare a cambiare il futuro, perché in quel singolo incontro può nascere la scintilla del cambiamento. La rinascita dell’umanità.
E l’anima, prima o poi, avrà di nuovo fame.

© 2025 | MA STUDIO

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Vivo in penombra.Non per scelta poetica o per capriccio estetico, ma per necessità interiore. Una penombra scelta, costr...
22/07/2025

Vivo in penombra.
Non per scelta poetica o per capriccio estetico, ma per necessità interiore. Una penombra scelta, costruita con precisione: alette delle persiane appena socchiuse, giusto per lasciar passare una striscia d’oro pallido che si estende come una ferita sul pavimento. La scusa è il caldo che a luglio, in città, è una spiegazione accettabile per tutto. Ma lo so che è una maschera gentile, che suona pratica e sensata, una foglia di fico. La luce mi ferisce gli occhi. La verità è che non voglio vedere il mondo là fuori. Vederlo senza di te.
Cosa me ne faccio, del mondo, se non ci sei più tu dentro? Se la tua risata non riempie più l’aria?
Le giornate scorrono così, lente come sabbia bagnata tra le dita. Il tempo si affloscia, e io con lui.
Oggi — non so se fosse mattina o pomeriggio, ho perso confidenza con le ore — mi sono trascinata nell’altra stanza, quella con il tavolo bianco che ha visto le nostre cene, i disegni dei nostri progetti. Mi ci sono seduta come si entra in una fotografia.
Era mattina, io ero seduta a questo tavolo, dolorante e cocciuta, ad asciugare il sangue della ferita all’altezza della tibia già provata da anni, ed il polso che gonfiava. Tu seduto di fronte. Con quello sguardo che diceva più delle parole, la voce ruvida e risoluta di quando eri preoccupato.
“Dobbiamo andare al pronto soccorso“. Ed io sminuivo, rimandavo, sfoderavo tutte le scuse per cui fosse inutile. Imprecavo per lo schermo dello smartphone incrinato. Ricordo la tua insistenza calma, con quella proverbiale testardaggine e risolutezza che sapeva di amore. Mi ricordo le tue mani tese, pronte ad aiutarmi a sollevarmi, come se avessi rotto qualcosa di più di un polso. Mi ricordo come riuscivi a farmi sentire vista, accudita, senza invadenza. Tu sapevi, sapevi sempre.
Mi ricordo e mi manca.
Oggi di fronte a quel tavolo ho pensato che tornerei lì, ad inciampare su quei gradini saliti e discesi da quando sono nata, a frantumarmi il polso, a subire l’operazione ai legamenti senza anestesia, la disattivazione di tutti i nervi del braccio e quella sensazione di un pezzo del tuo corpo che non senti più tuo, non riesci più a governarne i movimenti. Tornerei al gesso, a tutti quei mesi di fisioterapia e notti insonni. Se solo ciò potesse riportarmi anche solo per un attimo a quel momento. A te difronte a me, al tuo sguardo con quella dolcezza negli occhi che non hai mai saputo di avere. Al tempo che ancora non ci aveva separato.
Il tavolo oggi è vuoto, in penombra. Questa oscurità che più che dal caldo, mi protegge da tutto il resto, come tuo abbraccio. O perlomeno ci prova.

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Vivo in penombra.Non per scelta poetica o per capriccio estetico, ma per necessità interiore.

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21/07/2025

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19/07/2025

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17/07/2025

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06/07/2025

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Se ne parlava già da un po' di tempo ma negli ultimissimi mesi le discussioni su AI si moltiplicano in modo esponenziale...
28/06/2025

Se ne parlava già da un po' di tempo ma negli ultimissimi mesi le discussioni su AI si moltiplicano in modo esponenziale: chi ne è affascinato, chi terrorizzato... in ogni caso ci si approccia come se ci trovassimo di fronte all'invasione di popolazione ET.
Personalmente sono curiosa verso qualsiasi innovazione tecnologica, fin da quando ero bambina... inoltre è parte della mia professione.
Tutte le innovazioni hanno la potenzialità di fonte d'evoluzione... se si rimane coscienti dell'utilizzo, che trattasi di strumenti, anche molto potenti, di "aiuto" all'uomo per l'automazione di molteplici funzioni. Non di sostituzione dell'uomo. E come strumenti sofisticati andrebbero controllati e verificati.
L'IA immagazzina ed elabora informazioni che noi gli stiamo registrando: se queste informazioni non sono corrette, a lungo andare i danni dal suo utilizzo possono essere non indifferenti.
L'IA può generare immagini o testi apparentemente convincenti, ma se manca il contesto storico, culturale o territoriale adeguato, il risultato può essere illusorio e fuorviante. Ciò non è solo un errore tecnico: è un problema etico e culturale, specie quando si parla di memoria storica.
Non è l'IA in sé ad essere falsa ma lo diventa quando è usata senza rigore, senza supervisione umana attenta e competente, senza quel rispetto per la verità storica.
L'IA non sa nulla, non ha esperienza, non ha coscienza, non ha senso del vero, né senso del bello. È un contenitore, un sofisticato sistema statistico che pesca e rielabora ciò che ha assimilato con una velocità impressionante ma senza discernimento autentico.
Quando l'origine dei dati è sbagliata, superficiale o peggio ancora manipolata, l'IA non solo amplifica l'errore, ma lo riveste di un'apparente autorevolezza, creando un'illusione di verità che può essere pericolosa. Una verità patinata ma vuota. Una verità senza anima.
Viviamo in un'epoca in cui "veloce" viene spesso confuso con "giusto" e "accessibile a tutti", "affidabile". La verità si conquista con il tempo, studio, responsabilità e amore per ciò che è stato.
L'IA non potrà mai sostituire l'Uomo, né lo scrittore, né l'educatore, né l'artista. Può, al massimo, essere un attrezzo nella cassetta degli attrezzi umana, utile se guidato con sapienza, dannoso se lasciato a se stesso.

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24/06/2025

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