Franco Filippi editore Venezia

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11/07/2024
09/12/2019

ho deciso di non ristampare più il mio volumetto, accontento quella minoranza che mi condivide.

ANCHE QUESTA È VENEZIA

Tu lo seguisti senza una ragione,
come un ragazzo insegue l’aquilone.

FABRIZIO DE ANDRÈ

Ti ho guardato. Ti ho scrutato. Ti ho udito.
Mi sono allontanato da te di alcuni passi, ma non ti ho mai abbando-nato.
Non te ne sei accorta, eppure ti ho osservato, nei tuoi movimenti, nei lampi di luce riflessa dai tuoi occhi, nei tuoi improvvisi cambi d’espres­sione ed anche ascoltando il fluire e le pause del tuo respiro.
Eri introversa, dubbiosa, muta, chiusa, inespugnabile, ma non auste­ra.
Col mio entusiasmo ti ho coinvolto.
Accompagnata. Quasi obbligata.
Con tono perentorio, che non lasciava spazio a repliche, conoscendo Venezia e la vanità, ti avevo invitato a calzare un paio di scarpe como­de.
Hai accettato senza fare commenti.
Usciti da casa, in campo San Lorenzo, abbiamo proseguito lungo la fondamenta di San Giorgio degli Schiavoni, attraversato il ponte della Com­menda (edificato nel primo decennio del novecento) e guardato veloce­mente la facciata della Scuola Dalmata, chiamata comunemente San Giorgio degli Schiavoni.
Bella, sì ... Una come tante altre ...
Che cosa c’è di straordinario? Nulla di particolare.
Questo il pensiero di sufficienza che ho visto transitare nei tuoi oc­chi.
D’impulso, coerente col mio carattere particolarmente emotivo, avrei voluto risponderti che nulla a Venezia si ripete, che nulla è eguale a se stesso, neppure la medesima facciata.
Che Venezia è il nulla e che il nulla è tutto.
Avrei potuto invitarti a fermarti per un minuto e chiederti di chiudere gli occhi.
E poi, subito dopo, chiederti di descrivere, sempre ad occhi chiusi, ciò che avevi appena visto.
Ma non era ancora giunto il momento. Non mi avresti capito.
Una realtà sempre eguale eppure sempre mutevole.
Quanti sono i riflessi, le sfaccettature di cento, mille diamanti?
Il piccolo si espande e diviene il grande, non ha più confini.
Ogni volta che osservi con attenzione scopri qualcosa di nuovo, vedi apprezzi e comprendi altri particolari e con loro si dissolvono le tue certezze.
Inediti pensieri e nuove associazioni d’idee nascono e muoiono.
La domanda e l’ipotesi originarie si espandono, si moltiplicano e ne generano un ventaglio.
Anche questa è Venezia.
Sei già venuta a Venezia, sempre frettolosamente, sempre con i mi­nuti contati.
Tutto preventivamente e accuratamente programmato.
Una gita. Una mostra. Il carnevale.
Ti sei obbiettivamente interessata.
Ti stimo. Sei intelligente. Attenta e sensibile.
I media sono le tue fonti unitamente alle parole del gondoliere, del portiere d’albergo, del cameriere di turno.
Certamente in tanti, forse in troppi ne hanno parlato e scritto.
Tu li hai ascoltati tutti con molta attenzione ed ora hai già un’idea formata, netta, precisa. Non volevo, né potevo impormi; smantellare le tue certezze.
Ero in minoranza. Nulla avrei ottenuto. Ti saresti solo irrigidita e forse allontanata.
Mi avresti scambiato o visto come un presuntuoso o un arrogante.
Mi trattenni dal dirti: cara tu hai guardato, solo guardato. Il Ponte di Rialto, la Piazza San Marco, la Basilica, il Palazzo Ducale, il Ponte dei Sospiri, Palazzo Grassi, la Ca’ D’oro.
I colombi, i cani, le gondole, i canali, i turisti.
Parole, solo parole, nomi propri, luoghi comuni, nulla di più.
Forse capirà, col tempo, mi ero detto.
Avrei potuto parlarti per dei giorni delle relazioni di Venezia con i Dalmati, dei rapporti di Venezia con le minoranze etniche, della diffe­renza tra tolleranza (sopportare con pazienza) e la temperanza - rispet­to ed accoglienza. Convivere con pensieri, filosofie, lingue, religioni o fedi diverse, del significato anche sociale, economico e politico di que­sta presenza, dei valori simbolici della facciata della scuola, dei “teleri” (quadri) di Vittore Carpaccio custoditi all’interno, ma non lo feci, con­sapevole che più di tanto non avresti potuto assimilare in poche ore.
Non fu bravura la mia, fu anche casualità e fortuna.
La scuola era chiusa. Era lunedì.
Te ne parlerò. Domani. Dopodomani. Forse.
Percepivo che ancora non eri disponibile ad ascoltarmi, ancora non provavi il bisogno di approfondire, conoscere. Non volevo offrirti ri­sposte.
Spesso ciò che si ottiene senza fatica, a gratis, non è apprezzato, non vale quasi nulla e si dimentica presto. Avrei voluto approfondire di più, ma temevo che mi scambiassi per un saccente, un professore, avrei voluto dirti parole più intense, ma temevo di non essere compre­so od anche di essere irriso.
Il mio pudore non mi permetteva di andare oltre. Desideravo capirti dai tuoi sguardi, dai tuoi movimenti ed anche dalle tue parole prima di aprirmi.
Desideravo, ma forse è più giusto dire che volevo stimolarti fino a farti sentire il bisogno, la necessità di chiedere: perché ... , perché ... e poi ancora perché, come un bambino che inizia a prendere contatto con la vita. Desideravo accompagnarti nel caos dove non vi è più nes­suna possibilità di capire, desideravo guidarti dove non vi è più spazio per l’immaginazione, volevo accompagnarti dove si comincia a sentire, a vivere.
Dove hai il piacere che ti accompagni? Cosa hai interesse a vedere?
Per un attimo ho temuto che forse avresti potuto dirmi: “cosa c’è da vedere a Venezia?”
Mi è già capitato. Mi sarebbero cadute le braccia.
“Fai tu ... Mi va bene tutto. Mi fido di te.”
Mentalmente, dopo essermi posto non poche domande, mi ero orga­nizzato un percorso.
Con questa passeggiata desideravo accompagnarti fino al campo di San Pietro di Castello.
Mi proponevo di non affaticarti, di non sovraccaricarti.
Una passeggiata in scioltezza. Senza impegni. Senza tempo.
Desideravo e mi auguravo che anche tu potessi percepire il piacere del perdersi a Venezia.
Di superare e vincere la noia di vivere, che ti porta ai falsi bisogni, di trasformarla in gioia, quella gioia di esistere in cui comprendi e vivi che anche se non hai nulla hai già tutto. Libera dai falsi bisogni indotti. Essere ... non apparire.
Mi ero prefissato e auspicato di riuscire a farti sentire il respiro, lo scorrere della vita, le varie anime di Venezia: i suoni, la lingua, i colori, gli odori, i sapori, le architetture, il tempo, il quotidiano.
Desideravo che a te, una volta partita, rimanesse nella testa, nell’ani­ma, nella memoria, non tanto una cronologia di date e neppure una se­quela di nomi o d’eccezioni, con cui i più si riempiono la bocca con toni ed enfasi da presuntuoso, ma un sentimento, un profumo della città, l’essenza.
Che mi lasciassi con una promessa, specchio di un tuo bisogno, di ri­tornare.
Volevo che anche in te nascesse quel sentimento omnicomprensivo non razionalizzabile e pertanto indefinibile, chiamato amore. Ti vole­vo presentare, far conoscere e offrire ciò che non è solo mio, ma di tutti: Venezia.
Abbiamo velocemente proseguito e imboccata la Salizzada Sant’Anto­nin in silenzio, un silenzio denso, palpabile, carico d’attese, di aspettati­ve, le mie, le tue.
Il tuo sguardo era apparentemente distratto, svogliato, in realtà molto attento.
Valutavi il mio essere trasandato, i vestiti che mai hanno avuto con­tatto con il ferro da stiro, la barba di alcuni giorni, il mio essere sciatto, trascurato.
Desideravi mantenere le distanze.
Mi sentivo osservato, indagato, guardavi più me che Venezia.
Sentivo i tuoi occhi cercarmi.
Anch’io mi chiedevo cosa pensavi quando incontravi e pudica, fuggi­vi al mio sguardo.
Avevi accettato, con riserva, che ti accompagnassi.
Temevi, ma anche ti piaceva, quasi una scommessa, una sfida.
Attendevi le mie mosse.
Un velo di dubbi e sospetti non ti permetteva di ascoltarmi. Ancora non riuscivi ad accettare che il soggetto era Venezia e non la guida.
Mi sentivo valutato prima economicamente e poi come potenziale amante.
Attendevo le solite domande: prima di che segno sei? Poi sei sposato, separato, hai figli? Che lavoro fai? (qual’è il tuo reddito).
Tu sei una che ha i piedi per terra, concreta.
Eri curiosa. Volevi anticipare. Sapere come andava a finire. Non mi lasciavi il tempo di esprimermi.
Così avevi inteso questa passeggiata.
Il toponimo Sant’Antonin ha preso origine dalla chiesa ora chiusa al culto.
All’interno di questa chiesa accadde un fatto singolarissimo e molto drammatico.
Nel carnevale del 1819 un elefante, esposto fra le altre curiosità in Riva degli Schiavoni, s’infuria e ammazza il suo custode, scorrazza per le calli, finisce dentro la chiesa di Sant’Antonin dove, incastrato su una tomba che con la sua mole aveva sfondato, viene abbattuto a canno­nate.
Evitai di raccontarti che prendendo spunto da quest’accadimento, Pietro Buratti, massimo poeta dialettale veneziano dell’800, si ispirò per scrivere Elefanteide, storia verissima dell’elefante, un poemetto eroico­mico brillantissimo e sagace, sboccato e insolente, nel quale la tronfia società dell’epoca è satireggiata con rara, provocatoria genialità..
Ed ora che eravamo giunti in campo San Giovanni in Bragora un im­pulso irrefrenabile mi ha trascinato all’interno della chiesa intestata a San Giovanni Battista.
Vedo il tuo sguardo passare velocemente e poi subito dopo ritornare a leggere il nome scritto in nero sulla targa in malta e calce dipinta di bianco sulla parete di una casa (in veneziano “nizioleto”, si scrive e si pronuncia con la z e non con la s come molti esperti hanno avuto modo di scrivere e pubblicare; è un diminutivo: piccolo lenzuolo).
Anticipo la tua prevedibile domanda di chiarimento. Tutte le calli, i campi, le fondamente ecc., a Venezia, hanno un nome e una storia.
Campo della Bragora forse dal nome di un’isoletta sopra la quale fu fon­data la chiesa in memoria del nome della provincia d’oriente in cui fu­rono prelevate le reliquie del santo, anche se non è ancora stato appu­rato con certezza. Varie sono le memorie, alcuni vogliono che quest’ isola fosse una delle isole chiamate Gemini o Gemelle perché origi-nariamente consacrate al culto dei Gemini (Castore e Polluce) 1.
Di certo siamo a conoscenza che quest’area, che comprendeva altre isolette limitrofe, era chiamata Fossaputrida proprio per la caratteristica di essere un terreno paludoso. Fu imbonita attorno al Mille molto probabilmente per opera dei Cavalieri del Tempio: i Templari.
Quest’ultimi, presenti a Venezia fin dalla fondazione dell’ordine, ave­vano la chiesa intestata a San Giovanni Battista e il convento proprio a fianco della chiesa di San Giorgio degli Schiavoni.
Tra i vari compiti e impegni assunti da quest’ordine vi era anche quello di bonificare e sanare i terreni. Tra le numerose ipotesi ritengo la più verosimile quella che sostiene che il toponimo abbia origine da un nome composto da brago (melma, fango) e gora (canale d’acque sta­gnanti).
Un po’ di storia.
Fu rinnovata da Giovanni Talonico nell’817.
Verso la fine del primo millennio in quest’area sorgeva una chiesa, probabilmente una piccola ca****la di legno, che la tradizione vuole fondata nel VII secolo da San Magno Vescovo d’Oderzo.
Rifabbricata per due volte nel 1178 e nel 1475; di straordinaria bellez­za e armonia.
Il tempo, i secoli, le scelte, la storia si sovrappongono e si armonizza­no.
Dal Bizantino al tardo Rinascimento.
Per la cronaca, in questa chiesa, il 6 maggio 1678 (nacque il 4 marzo) fu battezzato Antonio Vivaldi, il violinista compositore e cantore della gioia di vivere.
Non posso passare nei paraggi senza entrare, anche se solo per pochi minuti, a vedere la pala dell’altare. Esprime ed emette una luce forte e intensa, in una chiesa scarsamente illuminata. Saresti tentato di credere che sia essa stessa generatrice di luce.
È un luogo magnetico. Mi sento risucchiato, aspirato.
L’ho vista migliaia di volte, eppure, ogni volta mi rinnova il godimen­to interiore, il piacere e mi dona la serenità al corpo e alla mente. La trasparenza dell’acqua, la senti scivolare, gorgogliare, la profondità impalpabile dell’azzurro del cielo, l’umanità dell’azione, la dolcezza dell’iniziazione.
Battista battezza Gesù. Ti riconosco. Anche tu sei tra noi. La forza dell’umiltà.
E poi, subito dopo sulla parete laterale sinistra, un’occhiata alla tavo­letta dell’Uomo risorto che ti fissa e ti benedice. I suoi occhi. Che sguardo intenso. Perforante.
Che forza.
Ti guarda, con lo sguardo ti attraversa, tace e ancora una volta devi chiederti:
Chi è senza peccato?
Un uomo, un grande uomo, un sapiente.
È forte, è energico, ma non è severo, è un giusto, tu lo ascolti e lo in­tendi.
Memento.
Rifletti sulla tua miseria.
Sei solo un uomo. Un mortale.
Ti guardai a lungo negli occhi per assicurarmi se avevi lo spazio per capire, ma non lo rintracciai.
Per capire ci vuole pazienza, e le parole non servono a chi non vuole udire.
Tu vuoi conoscere i nomi degli autori, le date, i committenti, le tecni­che. Così ti hanno insegnato.
No! No! Non te li dico!
Spegni la televisione!
Venezia non è un concorso a premi!
Non è un cruciverba!
Vuoi capirlo o no?
Non me li devi chiedere ora!
Che importanza ha! Assapora! Saziati! Dissetati!
I quadri devi lasciarli parlare … devi imparare a vedere, ad ascoltarli.
Forse con preso dalla foga ho ferito e offeso il tuo orgoglio, ma non riesco a fermarmi in questo monologo.
Continui a guardarmi con timore, perplessa e, forse spaventata.
Insisto.
Non riesco a trattenere la lingua.
Non percepisci con la carne, credi di essere razionale, fai sempre vin­cere il cervello.
Mi guardi.
Mi ascolti senza interrompermi con un’espressione composta d’ in-credulità, sorpresa e paura. Troppo forte la mia reazione.
Dall’espressione del tuo volto e dagli occhi comprendo che ancora non sono riuscito a farmi capire. Che non sono stato sufficientemente chiaro.
Mi sentivo impotente, rischiavo di rovinare questa passeggiata, eppu­re mantenevo la certezza di avere ragione. Avevo la necessità impel­lente di trovare un’idea, un esempio, non dopo, ora, subito, istantanea­mente.
Se visioni una bobina di un film come una sequela di diapositive sin­gole vedrai la luce, i colori, la composizione, l’ambientazione, i costu­mi, l’espressività dei volti, ma non hai visto il film.
Se leggi uno spartito nota per nota hai percepito, ascoltato la musica, ti ha fatto vibrare il corpo e modificato il respiro ?
Le tele parlano, vibrano, riscaldano, stordiscono, bloccano il fiato, comprimono la pancia, ascoltale!
L’autore, il secolo, la pennellata, l’impasto, la prospettiva, i supporti, i committenti non hanno importanza in questo momento. Ti devono affascinare, rapire, stimolarti emozioni di piacere, di dolore o di qual­siasi altro sentimento.
Non aver paura di smarrirti.
Devi perderti oltre la “realtà” per imparare a vederla, per riconoscer­la.
Sei ancora condizionata, prigioniera.
Ho finito!
Dopo il mio sfogo, il silenzio.
Ti concedi del tempo per riflettere.
Dolcemente affascinato, rapito, ti ho lasciato sola, mi sono assentato. Forse mi hai capito. Forse mi hai accettato. Certamente non mi hai distolto.
Non hai replicato.
Siamo usciti dalla chiesa, un rapido sguardo alla facciata prima di al­lontanarci.
Alla tua destra palazzo Gritti - Badoer anche in questo caso di architet­tura non riconducibile a uno stile d’impatto. Il palazzo, nel corso dei secoli, ha subito numerosi interventi di restauro, di ristrutturazione e innalzamento che non ne permettono un’immediata lettura e ricono­scimento stilistico.
Ti faccio soffermare a guardare la “pàtera” (scultura di pietra in basso­rilievo; questo sostantivo ha origini greche dal nome delle scodelle rotonde utilizzate per i sacrifici ed anche per le libagioni che erano a volte finemente lavorate a bassorilievo o decorate) infissa sulla parete raffigurante un pavone a coda spiegata collocata sopra la pentafora gotica al primo piano. Le patere erano in uso tra il II e V secolo un po’ in tutta Italia, a Venezia continuarono fino al XIV e XV ed oltre.
Al pavone si attribuiva una caratteristica molto particolare, l’incorrut­tibilità della carne. Per questo motivo il pavone, nell’arte sacra bizanti­na divenne un simbolo d’immortalità e della Resurrezione di Cristo ma anche, quando è in maestà (a coda elevata e aperta), è emblema di vana gloria.
Il pavone, pur nella sua bellezza, ha dei piedi deformi e questa carat­teristica fisica lo induce a guardarsi, a riflettere e a praticare la virtù e la prudenza.
Ai lati dell’ingresso principale della Chiesa di San Marco vi sono altre quattro porte di bronzo, due per lato. Risalgono al XVI sec. e sono at­tribuite a Bartolomeo Bon.
Questo modello, molto comune a Venezia, è composto di file paral­lele di archetti sovrapposti spesso passanti e falsati tra loro tali da ap­parire come squame di pesce.
Il simbolismo del pesce è amplissimo; in questo caso ero molto pro­penso a riportarlo a Giona che fu inghiottito dal pesce.
La morte intesa come rinascita.
Scendere negli abissi delle tenebre per poi risalire e ritrovare la luce di una nuova conoscenza.
Entrare all’interno di una chiesa per i cristiani ha numerosi significati.
Gesù è un pastore, ma anche un pescatore di anime.
In questo caso però, sul portale centrale della chiesa di San Marco, non sono raffigurate simbolicamente squame di pesce.
Infatti, se presti attenzione, ti accorgerai che all’interno delle “squa­me” vi sono simboleggiate delle piccole rose e queste non sono assolu­tamente riconducibili al pesce.
Un’altra interpretazione del pavone, soprattutto a Venezia dove mol­to forti sono state le influenze bizantine, per la caratteristica di aprire la coda, era ricondotta alla resurrezione e per il disegno delle piume che potrebbe ricordare una pupilla, ai cento occhi della Chiesa che vede tutto. Rispettoso a questa simbologia medioevale sulle proprietà degli animali, ritengo che le porte siano sul modello della piuma del pavone.
Potevo scegliere il percorso, tornare indietro di qualche decina di metri e avviarmi per le calli più interne in direzione della chiesa, a mio avviso sottovalutata, di San Martino al cui interno sono conservate pregevoli opere pittoriche ed anche un paio di sculture di angeli di straordinaria fattura e poi proseguire fino ad incontrare il maestoso portale d’ingres­so dell’Arsenale (nome d’origine araba ad intendere luogo di costruzio­ne, restauro e rimessaggio di navi) o proseguire verso la Riva degli Schia­voni.
Avrei potuto raccontarti la storia dell’Arsenale dalla sua fondazione avvenuta attorno al 1000 ed anche dei successivi ampliamenti fino ai giorni nostri.
Del mondo del lavoro e le qualifiche delle numerosissime maestranze (alcuni ricercatori dicono 15/ 16.000) occupate all’interno, della sua ca­pacità produttiva. Alcuni studiosi assicurano che, sul finire del XV se­colo, fossero in grado di consegnare, completa di personale di bordo, una nave al giorno. 2
Avrei potuto descriverti il portale di Antonio Gambello e le allegorie relative alle varie statue collocate sul monumentale portale; non avevi questo interesse e non lo feci.
Troppo ridondanti, auliche, autocelebrative. Fu innalzato dopo la famosa battaglia di Lepanto. Guerra che non fu come molti oggi spe­culativamente voglio intendere e ricordare. Fu una guerra commercia­le per il controllo dei traffici e del commercio. I Veneziani soli abban­donati anche dagli stessi alleati, che poi alleati non erano. Desiderava­no la sconfitta della Serenissima.
Desideravo farti constatare un altro pezzo di storia, che a causa del tempo, dell’incuria e della bàrbaria degli uomini, ma anche per l’insen­sibilità dei politici amministratori, abbiamo definitivamente perduto.
Questo non è l’unico esempio di graffito scomparso.
Sparsi un po’ in ogni luogo ve n’erano centinaia e in gran parte oggi non sono più leggibili in grazia degli ottimi lavori eseguiti dai restaura­tori che, lavaggio dopo lavaggio, hanno raggiunto “il bianco che più bianco non si può”.
La memoria perduta per sempre.
Ai lati del portale vi sono collocate quattro sculture prelevate dal por­to di Atene dall’ammiraglio Francesco Morosini nel 1687 M.v., sul lato sinistro un leone e sul lato destro una leonessa e due cuccioli di felino. Sui fianchi del leone fino a circa vent’anni fa si potevano ancora intra­vedere e leggere, con l’aiuto di una luce radente, due graffiti in caratteri runici. Sul fianco sinistro: “Hakon unito a Ulf, a Asmund ed a Örn conqui­stò questo porto (il porto del Pireo ad Atene).
Questi uomini e Harold il grande (dall’alta statura) imposero (agli abitanti del paese) delle ammende considerevoli per causa dell’insurrezione del popolo greco Dalk è rimasto prigioniero (è stato trattenuto) in lontane contrade. Egli era andato in campagna (sic.!) con Ragnar nella Rumania ... e nell’Armenia”. L’iscrizione sul fianco destro del leone riportava: “Asmund incise queste rune (e fu in ciò aiutato da) in unione a Asgeir Thorleif, Thord e Ivar, su do­manda di Harold il grande, sebbene i Greci riflettendovi lo avessero proibito”.
Questi i testi dei mercenari Veringhi, soldati di ventura e aggiungerei anche un po’ analfabeti, da come scrivono.
Discesi dalla Scandinavia si erano posti al servizio dei successori di Giustiniano.
Erano impiegati in Asia, in Iberia, in Sicilia, in Puglia e, quando oc­correva, per la tutela dell’ordine pubblico, anche all’interno dello stato.
Nel 1040 una grande insurrezione di popolo si era manifestata per gravi balzelli imposti dalla cupidigia del ministro Giovanni sotto il go­verno del debole imperatore Michele il Paflagonio. Fu, secondo il C. C. Rafn, decifratore di questi testi, in quell’occasione che i Veringhi fu­rono inviati a reprimere la rivolta scoppiata in Atene; l’iscrizione sareb­be stata posta in memoria di quel fatto d’armi.
Lentamente, passo dopo passo, siamo giunti sul ponte della Ca’ di Dio.
Era pomeriggio avanzato, da lì a poco il sole sarebbe tramontato; proseguimmo attraversando il campo della Bragora giungendo in riva degli Schiavoni, così chiamata per la presenza di un alto numero di Dal­mati che svolgevano in prevalenza attività collegate alla marineria.
Il toponimo del ponte prende origine dal nome di un ospedale per pellegrini fondato nel XIII sec., ora convertito in casa di cura per lun­godegenti autosufficienti particolarmente facoltosi.
Colpiti da tanta indescrivibile bellezza ci soffermiamo per una pano­ramica su tutto il Bacino di San Marco.
Proseguiamo lungo la fondamenta e guardiamo gli edifici dove vi erano i forni della Serenissima.
Ancora una volta, come ogni volta, ho perso la capacità di leggere o forse l’ho trovata.
Un profilo che non sembra vero, note di un pentagramma, segnano il confine con il cielo.
Straordinario, unico, nessun edificio, per quanto elevato, ti obbliga a piegare all’indietro il collo per alzare lo sguardo, puoi spaziare.
Tutta opera di sinergie umane. Nessun intervento divino o sopran­naturale.
Il confronto, il dibattito e la sintesi delle idee degli uomini catalizzate, concretizzate e divenute materia.
E che dire dell’acqua del Bacino di San Marco con le sue cromaticità e gli infiniti riflessi che spesso ti abbagliano.
La luce dell’ultimo sole ti guarda negli occhi.
Nell’aria un impalpabile pulviscolo argenteo attenua e stempera l’az-zurro del cielo.
Il tramonto avanza permeando l’aria di un arancio rossastro, l’acqua riflette saette dorate.
I tetti degli edifici si sfumano e si confondono con l’infinito.
La luce ora divenuta più vermiglia rimbalza e s’innalza dai vetri delle finestre della Giudecca, impalpabile come un velo ora divenuto viola­ceo, un incendio senza fiamme e fumo.
Non riesci a staccarti e ritorni bambino, incantato, ipnotizzato dal ca­leidoscopio.
Quando invitavi con entusiasmo, con gioia coinvolgente, senza dare tempo al tempo a chi ti era vicino, la mamma, il papà, tutti a guardare dentro il foro e nessuno vedeva più la medesima immagine.
Neppure tu.
La delusione di un attimo e la nuova sorpresa rinnovava la tua spen­sierata allegria, la scoperta.
Anche questa è Venezia.
Mi guardavi come si guarda uno strano, ma non un pazzo, uno che non capisci, che non comprendi, che non rientra nei canoni.
Seguivi il mutarsi dei lineamenti del mio volto, i cambi d’espressione a volte tesi e concentrati come a voler imprigionare ed espandere l’immagine, a volte carichi di tensione quasi a voler abbattere o cancel­lare gli interventi d’arredamento urbano particolarmente stonati e di­sarmonici in questo contesto. E ti ponevi la domanda: e adesso dove e cosa avrà fissato la sua attenzione?
Seguivi il mio sguardo, guardavi attraverso i miei occhi.
T’interroghi, desideri, vuoi anticipare, m’interrompi, tu già sai.
Forse troppe, o non sufficientemente chiare, erano state le mie parole di premessa, forse non ero riuscito a coinvolgerti, a trasmetterti e a far­ti provare i sentimenti e le commozioni che vivo certamente con la ra­gione ma e in particolar modo con la carne.
Concediti del tempo, ti dissi sottovoce. Prova a soffermati; lasciati espandere, dilatare penetrare e riempire, guarda e ascolta l’armonia.
Vivi l’eros, non solo come carnalità, ma inteso come energia vitale, come amore, lasciati andare, cullare. Impara ad attraversare e superare il deserto della ragione che credi essere l’anima.
Riflettevo. Molti i dubbi. I pensieri si sovrapponevano, non trova­vano la via d’uscita, avevo ancora negli occhi lo sguardo dell’Uomo.
Tu sei ancora una che non ha tempo, che vuole tutto e subito. Che ha già capito.
Tu sei concreta, razionale ... credi.
Desideravi di più.
Tutto qui? Mi è parso di udire.
Provavo la delusione.
Un sapore agro, amaro come lo sconforto che precede la percezione del fallimento.
Proseguiamo, mi dissi con amarezza a mezza voce.
Superato il ponte sul rio dell’Arsenale chiamato già delle Catene, che tirate tra le due sponde non permettevano l’accesso al canale, ed ora, della Veneta Marina, originariamente in legno e levatoio, poi in ferro ed ora in pietra e mattoni, abbiamo iniziato a percorrere una delle poche vie di Venezia, la Via Eugenia, rinominata dopo l’Unità d’Italia Via Ga­ribaldi.
In realtà era il rio di San Domenico ed ora rio (canale) terà (interrato). Più che interrato è propriamente un canale coperto; l’acqua continua a scorrere imbrigliata dentro ad una volta di cemento sopra di cui vi è la pavimentazione. Subito sotto la balaustra all’estremità della via potrai vedere l’arco della volta che si raccorda con il canale.
Un via larga, perfettamente diritta, affiancata da edifici relativamente poco elevati. Con lo sguardo fai una panoramica e rimani colpita dalla presenza di numerose terrazze, ti correggo e ti faccio osservare che hanno ora il medesimo uso, ma si chiamano “altane”.
Un tempo i canoni della bellezza femminile prevedevano una carna­gione pallida e i capelli biondi tendenti al rosso detto “biondo Venezia­no”.
Per ottenere queste caratteristiche si esponevano al sole, ben coperte per evitare di abbronzarsi, e usavano come tintura “acqua di gioventù” (p**ì di bambino con l’aggiunta di erbe profumate per coprire l’odore di “ammoniaca”), per i capelli, applicata con una “sponzeta” (spugna). Una sorta di copricapo, generalmente in metallo, a larghe falde chia­mato “solana” era utilizzato per sostenere i capelli.
Una tipologia edilizia tipicamente veneziana, le “altane”, non fanno parte integrante del tetto, sono strutture relativamente leggere e tutte in legno.
Di solito l’accesso avviene attraverso un abbaino.
Poggiano sul colmo del tetto e su due piccole colonne di mattoni alte quanto basta a raggiungere il livello del colmo collocate sul muro mae­stro e sterno dell’edificio.
Il lastricato di recente restaurato è oggi perfettamente piano, non una sconnessione, non un “notaro” o “topano”, termini tipicamente venezia­ni ad indicare i leggeri dislivelli tra masso e masso causati o da cattivo posizionamento o da cedimento del substrato su cui poggiano.
Il tatto. Un senso negato.
Non ti pare di camminare a Venezia, dove nessun pavimento è spia­nato, liscio.
Dove nessun muro di nessun edificio è perfettamente verticale “a piombo”.
Senza storia, senza vita, senza memoria.
Al centro della via una decina di panchine e altrettanti banchi di frut­ta, verdura e pesce del mercato rionale, popolare certamente, ma ora anche questi rammodernati sono troppo nuovi da apparire falsi, ban­chi ancora senza passato, senza personalità, tutti eguali, moderni, razio­nali, funzionali. Una sintesi senz’anima.
Ti guardi attorno e, seminascosto tra le tende dei negozi, sopra una porta, uno splendido bassorilievo del XIV secolo colpisce la tua atten­zione.
È l’ingresso dell’ex Ospedale de le p**e (ospizio per bambine orfane). Nel timpano vi è raffigurato il Padre Eterno benedicente, subito sotto, su una sorta di predella che poggia sull’architrave della porta, i Santi Domenico, con giglio e libro, Andrea, con pastorale sormontato dalla croce ed infine Pietro Martire, con la palma del martirio e la lama il suo emblema, conficcata nel cranio.
Nelle due guglie collocate ai lati del timpano una delicatissima annun­ciazione con l’arcangelo Gabriele.
Sugli angoli superiori degli stipiti della porta lo stemma del doge Ma­rino Zorzi. Il tutto perimetrato da una gotica cornice dentellata, gotico tedesca, alla cui sommità è collocata una pigna, simbolo d’abbondanza come lo sono tutte le cucubitacee e la melagrana, i cento semi.
Questo complesso fu edificato per volontà testamentaria assieme alla chiesa e al convento di San Domenico (abbattuti nel 1808), con il contri­buto del doge, verso il 1310/15.
Non si conoscono tutte le vicissitudini di questo complesso, sappiamo per certo che alla metà del Cinquecento il convento ospitava il Prepo­sto al Tribunale dell’Inquisizione di Venezia e che ogni anno, il 29 marzo, sull’esistente ponte davanti alla chiesa erano bruciati i volumi posti all’indice.
Non conosco la data certa di quando fu abolito il Tribunale dell’In-quisizione a Venezia e ancor meno le destinazioni d’uso che l’ospedale ha subito in seguito, di certo è che da bambino e fino ai primi anni 70 i locali erano utilizzati come sala cinematografica.
Per recuperare un’area da destinare ai Giardini pubblici furono abbat­tuti anche la chiesa e il convento di San Nicolò di Bari, l’ospedale dei mari­nai, la chiesa e il convento delle Cappuccine e la chiesa di Sant’Antonio abate.
Come uno spezzone di un film mi ritornano agli occhi le emozioni che provavo quando con gli amici prima di andare al cinema Garibaldi, ora chiuso e ristrutturato ad uso commerciale, decidevamo di compra­re un pacchetto di si*****te di contrabbando da Magnamacchine; non co­nobbi mai il suo vero nome.
Quante paure, il desiderio di divenire adulti, di trasgredire. Suonare il campanello.
Che fatica. Vado io. Vai tu. Andiamo assieme. Un dibattito anche sulla marca delle si*****te.
Qui ci conoscono, potremmo incontrare degli amici di famiglia.
Sono ancora e sempre con te, tu sei il soggetto, eppure mi accade di non riuscire a mantenere la concentrazione, l’attenzione, mi disperdo nei meandri del passato.
Devo imparare ad accettare che sto invecchiando.
Temevo e tremavo, ora ero io a guardarti.
Desideravo apparire disinvolto.
Forse non te ne sei accorta.
Ti stavo vicino e lontano.
In silenzio.
Senza parole.
Titubante.
Attendevo le tue reazioni.
Non sono tardate.
Il tuo atteggiamento è improvvisamente mutato.
Finalmente ti ho visto destabilizzata, sbalordita, sorpresa e meravi­gliata prima e, dopo una frazione di tempo, ritornare presente a te stes­sa, attenta, e nuovamente concentrata.
Udivi il silenzio. Il silenzio dell’anima e la sua locquacità.
Un silenzio colmo, ingombrante, non riuscivi ad allontanarlo.
Il tuono della sua voce ti aveva finalmente espugnato, ti rimbombava nel cervello.
Ascolti le risonanze che vengono da oltre il nulla.
C’è qualcosa di strano.
Non l’hai pronunciato, ma l’ho udito.
Avanzavi ad alcuni passi da me.
Ti sei voltata.
Quasi inconsapevolmente, meccanicamente, hai allungato un braccio.
Hai perduto la bussola (ragione), hai percepito il vento (cupido).
Hai superato la paura del contatto, un bisogno di tenerezza.
Con la mano cercavi di raggiungermi, toccarmi.
Con lo sguardo mi hai interrogato.
Ti risposi a distanza e, sempre con lo sguardo: stai tranquilla.
Non c’è nulla da capire, non aver paura di sentire. Non hai bisogno di me. Sei una donna libera, o così ti voglio vedere e accompagnare.
Ascolta. Ascoltati.
Ora provavo una controllata emozione che aveva stemperato e dolci­ficato l’agro.
Una gradevolissima soddisfazione.
Non mi ero sbagliato, avevo visto giusto, tu potevi capire e condivi­dere.
Ho deglutito, ho ripreso ad inspirare ed espirare, a sentire l’aria gon­fiare ed estendere il diaframma e i polmoni.
Grazie! Mi hai dissetato.
Te lo comunicai senza parole, senza sguardi, con quell’energia che esprime un corpo quando è sciolto, disteso, privo di contrazioni.
Ero riservato, pudico e sereno.
Sono certo che tu mi hai riconosciuto.
Prima eri spaesata, confusa, stordita ed infine ti sei sentita smarrita.
Incantata e sedotta al contempo.
Molto, tanto, troppo in troppo poco tempo.
Poi ti sei lasciata andare, hai aperto le porte.
Hai accettato di sentire. Ti sei ripresa.
Anche questa è Venezia.
Hai udito anche tu nel cuore, nell’anima o forse nel cervello il rim­bombo delle voci della memoria.
Come le onde leggere, quelle di superficie, quelle generate da un refo­lo di vento, quelle che accarezzano il mare sono giunte alle tue orec­chie, dapprima lentamente, stemperate e attutite dalla foschia, una dopo l’altra, intervallate da pause di riflessione.
Poi sono montate in un crescendo e hai udito un coro.
E con le voci prendono corpo le figure, le situazioni, i luoghi.
Senza un perché, sono pervenuti anche i profumi che ti hanno risve­gliato la memoria di sapori lontani, ed ora vicini nel tempo. Presenti.
Ti ho visto perderti in uno spazio senza confini, vagare per le strade del tempo.
Ti ho visto bambina felice e gioiosa.
Ti ho visto correre forte forte tutta rossa e accaldata fino a farti man­care il fiato.
Avevi gli occhi chiusi. Cosa vedevi?
E poi girare vorticosamente su te stessa e improvvisamente rallentare la corsa e innalzare le braccia, parallele al suolo prima e inclinate ora a destra ora a sinistra poi, come ali per spiccare il volo.
Sognavi un mondo d’amore e lo vedevi possibile, concreto, certo a pochi passi da te.
Ah ... , quando sarò grande.
Ti ho vista immersa e assorta a rivedere spezzoni del tuo trascorso.
Ho letto la mobilità del tuo volto.
Rattristarsi e all’improvviso illuminarsi e poi ancora amareggiarsi e poi ancora mutare repentinamente senza una prevedibile ragione.
Sei stata spettatrice del film della tua vita con tutte le amarezze e le frustrazioni accumulate.
Venezia è anche un intreccio, un labirinto, ti sei smarrita nella vana ri­cerca di trovare il centro.
Ti fermi, chiudi gli occhi e rifletti. Inizi a metabolizzare e ti nasce, si fa strada il dubbio che forse non c’è.
Che forse non esiste. Tutto è un centro. L’uno tutto.
Un centro sempre mobile, che non ha tempo e luogo.
Muto, immobile, ti ho atteso.
Tu e solo tu hai le chiavi della tua memoria.
Piano piano, lentamente hai accettato la tua storia con tutti gli accadi­menti, con tutte le sue voci.
Non provi più la paura, non le fuggi e non le hai più interrotte.
Come un respiro. Hai iniziato ad interiorizzarle.
Ti sei rasserenata.
Nei lineamenti del tuo volto ho visto che lentamente, senza scosse, una nuova dolcezza come un’alba cominciava a sorgere.
I dolori del passato, i rancori decantati dal tempo, finalmente conver­titi in commozione e tenerezza, quella tenerezza che a volte fa gonfiare gli occhi, ma non piangi, hai paura, il pudore.
Ti sei svegliata, sei tornata a Venezia, presente.
Ti sei interrogata.
Mi hai rivolto lo sguardo.
I tuoi occhi avevano ora quella luminosità che solo l’amore sa rende­re.
Quanto è durata l’assenza?
Molto? Poco? Troppo?
Cosa è accaduto?
Scusami se ti ho lasciato, non è colpa mia, non capisco.
Avrei voluto risponderti istantaneamente.
Non attendevo altro.
Trattenni la mia loquacità, per non distruggere quegli istanti di pie­nezza che forse inconsapevolmente mi avevi ancora una volta donato. Un regalo, non puoi capire quanto grande.
Frenai l’impulso di abbracciarti.
Dissi solo: grazie.
Di che?
Mi hai risposto, fingendo di non capire.
Un gioco sottile.
Mai ebbi la capacità di dirti che anch’io avevo avuto un momento di stordità.
Ero con te e non potevo dirti che mi erano tornate agli occhi le im­magini di un recente passato in cui, abbracciato ad una donna avevo visto la bellezza negli occhi e che al contempo avevo percepito la mia.
L’assoluto nel relativo. Non sono bello, lo sono solo come immagi­ne riflessa.
Nuove emozioni si facevano spazio.
Le hai accettate ed hai riconosciuto il sacro e la sua magia di cui ti avevo parlato.
Stiamo proseguendo per la fondamenta di Sant’Anna, tra poco entre­remo, superato l’omonimo ponte, nella cosiddetta Venezia “minore”.
Mi guardi e mi interroghi: minore?
Minore inteso come più economica, meno monumentale, meno ari­stocratica.
Senza interventi di grandi firme, innalzata da semplici e anonimi “mu­reri e tagiapiera” (muratori e scalpellini).
La necessità di contenere i costi e i volumi più ridotti hanno stimola­to e sviluppato la fantasia. Questa architettura, “spontanea e ignoran­te” per il mondo accademico, è riuscita a coniugare con una rigorosa funzionalità soluzioni semplici, nulla togliendo alla espressività della composizione.
Guarda e goditi l’armoniosa bellezza di questi scorci, di questi camini, di questi poggioli, di queste volte di canale, di questi raccordi, di queste gradinate, di questi ponti, di questi pieni e di questi vuoti. Sono un movimento continuo, mai ripetitivo, unico.
Nessuna architettura ti risveglia immagini di un mondo contadino, agreste, nulla di bucolico, eppure senza nulla di monumentale percepi­sci l’eleganza e la signorilità di un tessuto urbano di città e di paese al contempo.
Una ricerca divenuta sintesi che ha raggiunto una bellezza così pura, così disarmante, così coinvolgente che sempre ti tocca e, a volte, ti può anche commuovere.
Il fascino e l’erotismo che percepisci, che ora ti avvolge è dovuto an­che all’energia e all’amore che generano ed irradiano queste architettu­re “minori”.
I rumori, i suoni ora non sono più violenti, caotici, frementi, nevroti­ci.
L’aria ti trasmette e fa giungere alle tue orecchie dei suoni che stimo­lano la tua curiosità. Vedo e riconosco in te quell’espressione di chi ne è attratto, attento.
Vorresti riconoscere i dialoghi, le parole ma non riesci a distinguere se sono voci umane o televisive.
Le insegui e ti pare di sentirle aumentare di volume e poi improvvisa­mente si attenuano, si dissolvono e scompaiono.
Non provi delusione e neppure abbandono, ti rimangono le emozio­ni, continui a passeggiare e ancora nuove suggestioni ti riempiono.
Tra presenze e assenze il vedere è superato dal sentire, dal provare nella mente ed anche nel corpo.
Con lo sguardo incontri una coppietta amoreggiare semi celata dallo stipite di un portone, li guardi e non li vedi, sono trasparenti.
Li percepisci, li senti nell’aria.
Sei felice che ci siano.
Ora anche tu sei divenuta impalpabile, solo energia, vita, amore.
Anche questa è Venezia.
Non un turista.
Solo “foresti”, visitatori attenti, pudichi, forse impauriti, rispettosi, si­lenziosi.
Un’altra città.
Anche le attività commerciali e artigianali hanno un’altra identità, non hanno lasciato spazio alla ricerca di una originalità che massifica e di conseguenza spersonalizza.
Hanno ancora una personalità, che non è il falso folclore ad uso con­sumistico, vivono con naturalezza e caparbiamente, non accettano di essere divenuti specie da conservare in via di estinzione, non hanno ancora svenduto la dignità.
Entri e pur nel linguaggio espresso in veneziano ancora relativamente poco inquinato, semplice e diretto dell’occasionale interlocutore, senti lo spessore della storia, la memoria.
Molto rare sono le attività che vendono i prodotti consumistici, per il mondo dell’apparenza, per un mondo senza luce, stupido. Bisogni imposti inventati, moda.
Ascolti, percepisci e vedi il colore dei suoni.
Solo uno sguardo.
Esiste, hai ragione, è vero! Ora la spiritualità la percepisco anch’io.
L’apparenza si fonde con l’essenza.
La bellezza t’insegue e ti avvolge.
S’incunea, ti penetra e ti converte.
Il tutto.
Lentamente passeggiamo lungo la fondamenta di Sant’Anna che co­steggia il canale omonimo. La chiesa di Sant’Anna e il monastero fon­dati nel XIII secolo. Attualmente l’area è stata data in gestione al Co­mune di Venezia che in gran parte ha già portato a termine i lavori di restauro e ristrutturazione per case popolari.
Non ti accompagno all’interno dell’area, ti evito di vedere questo re­stauro incongruente con l’architettura circostante, questo ennesimo spregio alla bellezza e all’armonia.
I “pergoli”, termine veneziano ad indicare i piccoli ballatoi sulle fine­stre, sono tutti squadrati senza movimento, rigidi nelle forme, in accia­io inossidabile. A Venezia ancor oggi quando una cosa non ha un senso si usa ancora dire: Ti se fora come un pergolo.”
Subito davanti a questo complesso, il ponte di Sant’Anna. Lo attra­versiamo. Ancora alcune calli e ci ritroviamo in campo Ruga.
Un silenzio irreale, ti guardi attorno alla ricerca di non comprendi cosa, alzi lo sguardo e come bandiere di tutti i colori, nessuna bandiera, sventolano attraversando il campo fissati alle funi, i bucati.
È vita, è gioia, non esiste la vergogna o la timidezza, nulla è celato.
Tutta la biancheria, lenzuola, asciugamani, camicie, sottane, calze, mutande.
Questa biancheria, che ora, improvvisamente, per la prima volta ave­vo visto come bandiere, mi aveva riportato alla memoria le parole di una “canzonetta”: “E mentre un giorno marciavi con l’anima in spalle/ vedesti un uomo in fondo alla valle/ che aveva il tuo stesso identico umore/ ma la divisa di un altro colore”.
Parole molto tristi, amare, tragiche che mi avevano riportato agli anni della mia gioventù quando tutto era possibile quando: L’Obbedienza non è più una virtù.
Quanto dovremo attendere ancora per vedere sventolare la bandiera della giustizia? Della pace? La bandiera dell’amore?
Non avevo ancora vent’anni, eppure avevo già conosciuto la violenza e la bàrbaria del potere e del terrore: Avola e Battipaglia, la strage di Piazza Fontana, il Vietnam.
Al contempo volevo aggrapparmi alla speranza, di un futuro migliore prossimo venturo.
Proprio in questi giorni avevo letto che a Roma sarà fondato il mu­seo delle mille bandiere a testimonianza dell’unità d’Italia.
Un piccolissimo, quasi impercettibile spostamento in avanti, per un inguaribile utopista e sognatore che ancora non è cresciuto abbastanza per divenire “maturo e saggio”.
Tutte le bandiere e tutte le lingue.
Ora il pensiero di Pico della Mirandola espresso nei suoi volumi mi era divenuto chiaro, lo avevo finalmente compreso, interiorizzato.
La tripartizione del mondo, le tre religioni monoteiste, il problema della comunicazione, la divinità come amore, la vita come dono d’amore.
Un brivido.
Non siamo figli di Dio, siamo divenuti mortali, tutti fratelli e sorelle, siamo figli di Adamo ed Eva.
Mai più avremo il Paradiso Terrestre, ma non è detto che non po­tremmo avere l’Arcadia. Questo il suo pensiero, questa la sintesi delle sue “Conclusiones” la sua filosofia, la sua utopia. Per questi reati d’opi­nione, giudicate eretiche, dovette fuggire in Francia inseguito dalle truppe papaline che lo arrestarono anche se solo per un breve periodo.
La natura dell’uomo, l’essenza dell’uomo è buona, l’uomo è artefice del proprio destino.
Non conosceva la rassegnazione, nulla è immodificabile. Così conti­nuò a pensare fino alla morte.
Il primo problema è la comunicazione, la lingua.
Bisogna ritornare indietro nel tempo, rileggere e studiare gli antichi testi, codici, manoscritti per ritrovare la “saggezza dei padri”, per tro­vare il punto di rottura, per tornare alla biblica “Torre di Babele” quando gli uomini, non comprendendosi più, cominciarono a litigare e ad ammazzarsi tra loro.
A cinquecento anni dalla sua morte questo pensiero è stato accettato e rielaborato solo da alcuni “illusi”, ma non è mai stato raccolto e colti­vato dai “potenti della terra”.
È più facile comandare e far fare ad altri, i sottoposti, spesso circuiti e plagiati, una, dieci, cento, mille guerre, per riportare la pace, dove la ra­gione è sempre del più forte.
Dove la morte è l’unica a cantar vittoria.
È più facile ammazzare “il nemico”, tuo fratello.
Puoi depredarlo, rubargli tutto in nome della “giustizia”. In nome della “civiltà democratica”.
Ancora si parla di razze, di religioni, di confini, di idea di nazione, di campanili.
Ma ero con te e la felicità che provavo mi ha aiutato ad allontanare, a sognare, a tornare indietro nel tempo, all’infanzia, per cancellare le illu­sioni e le frustrazioni.
A vedere in positivo, a sognare e credere nel futuro.
… Proseguiamo.
Attraversiamo il lungo e piano ponte in ferro e legno, proseguiamo lungo la Fonda menta che ci permetterà di entrare nel campo di San Pietro di Castello.
Davanti a noi compare la facciata della chiesa; appare stonata, inserita a forza, con violenza, troppo grande, troppo imponente, troppo super­ba, fredda, rigida, statica, nel contesto di quest’area che trasmette sen­sazioni di pace e serenità.
Un tempo, fino al 1807, questa chiesa era la cattedrale di Venezia. La facciata è stata progettata durante il mandato del patriarca Lorenzo Priuli (1591 - 1600) da Andrea Palladio e completata da Francesco Smeraldi.
Sopra l’altar maggiore, disegnato dal Longhena, si conserva l’urna con il corpo del primo Patriarca di Venezia Lorenzo Giustiniani. Sulla crociera è inserita una cupola con balaustra. Nella navata destra è con­servata l’attribuita cattedra di San Pietro d’Antiochia (XI - XII sec.) che la tradizione vorrebbe donata da Michele III Paleologo imperatore d’Oriente (842 - 67), sugli altari collocati alle pareti, dipinti di Marco Basaiti (1470 - 1530), Pietro Liberi, Pietro Ricchi, Antonio Belluc­ci, Gregorio Lazzarini, Paolo Veronese..
Il palazzo con chiostro a cui è collegata, ora in stato di assoluto de­grado, era la sede del Patriarcato.
Ancora una volta mi rivedo bambino quando andavo a trovare, pas­sando attraverso il chiostro, mia zia e suo marito maresciallo di marina che lì abitavano.
Due campi erbosi grandissimi dove potevo correre e giocare.
Tre bunker sul prato, avanzi della guerra, spaccavano in due il “cam­pazzo”.
Non avevano finestre o lucernai, gli accessi erano stati aperti, scardi­nati, avrei potuto entrare all’interno ma non superai la soglia, e non era la paura del buio a trattenermi, percepivo un sentimento di angoscia, delle presenze ostili, un odore di morte.
Avevano delle gradinate esterne che ci permettevano di salire sopra il tetto a volta, senza tegole, tutto di cemento armato, dove giocare, cor­rere e scivolare; sempre le ginocchia sbucciate.
Mi nascondevo all’interno di due vasche da bagno di pietra, in realtà sarcofaghi privi del coperchio di copertura, abbandonati sopra l’erba ai bordi del campo.
Sparsi nel campo o affioranti dal terreno vi erano numerosi cocci di terracotta e di vetro che raccoglievamo e spaccavamo ancora di più per ottenerne delle superfici piane da lanciare per vederle rimbalzare sul filo dell’acqua della laguna.
Erano cocci d’interesse storico archeologico, non ne eravamo co­scienti, nessuno si era mai premurato di spiegarcelo.
Da circa 25/30 anni l’area è stata transennata e vincolata da Sovrin­tendenza.
La chiesa, che la tradizione vuole fondata nel 660 e intitolata ai santi Sergio e Bacco, fu riedificata dal vescovo Magno di Oderzo nel 774 e dedicata a san Pietro.
L’ultima ristrutturazione, su modello palladiano, avvenne verso la fine del ‘500.
In questa chiesa riposano i resti del primo patriarca di Venezia, San Lorenzo Giustiniani.
Molti, e forse anche tu, sei rimasta affascinata dalla cattedra detta di “San Pietro”, il cui schienale è composto di una stele con inscritti moti­vi decorativi arabi e versetti del Corano. Il suo fascino, come spesso ac­cade, è dovuto in gran parte alla mancanza di documentazione.
Il campo è rimasto tale. Quasi come alle origini.
Non è che parzialmente selciato, è un verde prato alberato.
Siamo tornati alla fine del XV secolo.
Seduta su una delle panchine, concentrata ed assorta ad occhi chiusi, ascolti e non comprendi.
Le chiacchiere ti echeggiano nelle orecchie come note dal ritmo in­consueto.
Sotto il maestoso, imponente, ma non opprimente campanile di San Pietro di Castello ci sono le “impiraresse” sedute e tutte coinvolte ad infila­re collane e a “tagiar tabarri” (Taglia e cuci.)
Un tempo come spregio venivano sforbiciati i mantelli dei patrizi, ora questa espressione ha assunto un significato più esteso. Un esempio di dialogo: è bello, è buono, è intelligente una successione d’apprezza­menti fino a poi giungere infine all’immancabile; ma ..., però ... , taglia e cuci inteso come il pettegolezzo, la maldicenza e a volte la diffamazio­ne, abitudine ancor oggi ben radicata anche in città.
Il famoso venticello.
Il campanile di San Marco nella sua riedificazione, avvenuta dopo il crollo nel primi anni del novecento, è un ragazzino, ha appena com­piuto il secolo.
Le ortolane, con le loro ceste stracolme di verdure, ortaggi e fiori, sono lì poco distanti nel campo, sotto i platani. Ascolti le loro le voci di richiamo ai potenziali acquirenti, spesso sguaiate, volgari, ma tu le percepivi come dei canti. Il mercato.
I clienti rispondevano quasi in un controcanto.
A volte raccontavano il loro quotidiano; a volte delle gioie, più spesso dei dolori ed anche, seppur più di rado, la tragedia.
Ti sei nuovamente perduta, i tuoi occhi esprimevano nuovamente la sorpresa, confusione e stordimento, ma non hai provato il terrore.
Ti sei sentita avvolta da un calore che ti riscaldava, che ti penetrava in profondità attraverso tutti i pori della pelle senza toccarti, sentivi di es­sere accolta, abbracciata, coccolata ed amata.
Anche questa è Venezia.
Roteavi lentamente su te stessa scrutando ogni angolo, qualunque persona che casualmente transitava. Tutte le porte, tutte le finestre.
Le ombre.
Le calli sono strette, sempre più strette e scure, eppure non hai paura di avanzare, non percepisci l’ansia e la claustrofobia.
Le penetri e le percorri con serenità, hai in te la certezza più forte del­la ragione che ritroverai gli spazi aperti, luminosi, il futuro.
Tutto è naturale, nessuna ombra incupisce le pareti, tutte chiare e lu­minose, tutto stimola il tuo sguardo e ti trasmette un sentimento di fi­ducia.
La luce che dipinge, che supera, integra e dilata gli spazi e li converte in una prospettiva della mente.
Senza confini.
Anche questa è Venezia.
Ti vedo, leggo il tuo sguardo e taccio.
Ero tentato di farti riflettere su queste architetture.
Un gioco di incontri e di contrari.
Complesse e semplici.
Selvagge e rudi, a volte magnanime, a volte amanti della natura, a vol­te ostinate, aristocratiche e al contempo generose, umane. Così straor­dinariamente imperfette da sentirle respirare, conversare tra loro sotto­voce, chiacchierare e a volte urlare a squarciagola, imprevedibili, vive.
Ma non lo feci.
Ti rispetto, tu sei il soggetto di te stessa, tu sei libera.
Ti guardavi attorno alla ricerca di chi o cosa era stato a generarti que­ste emozioni.
Finalmente comprendi che nulla di ciò che vedi è per caso, che tutto corrisponde ad un pensiero occulto, che non conosci, che non puoi di­mostrare, ma che senti esistere.
Poi con i tuoi occhi profondi, caldi, velati d’autunno, di malinconia e al contempo interrogativi, sei tornata a fissare i miei.
Non ti risposi all’istante.
Questa è l’atmosfera che è capace di generare, solo a chi sa vedere e a chi ha imparato ad ascoltare, solo a chi non ha paura del silenzio, la si­gnora senza età.
Anche questa è Venezia.
Venezia è la madre.
Venezia ama tutti, anche se non sempre è ricambiata.
Venezia è una donna che non ti fa sostenere esami, è una donna che non ti giudica. Venezia non ti fa prigioniero, non ti trattiene. Venezia non è mai cinica come i deboli, non è ipocrita, non ha bisogno di nascondersi. Venezia non ha porte chiuse.
A Venezia non interessa vincere. Venezia non conosce la menzogna, è sincera.
Venezia non tradisce. Venezia ti aiuta a parlare, Venezia ti sa ascolta­re. Venezia tace e dal suo silenzio comprendi quando è ora che tu vada, da solo, senza parole, senza sb****re le porte. Venezia è un por­to, un ventre fecondato dai semi di tutti i popoli, Venezia non tollera, accoglie e tempera.
Venezia è Vergine, incorruttibile, onesta, sincera.
Venezia è abbondanza, distribuisce, dona a piene mani a tutti, ai belli come ai brutti, ai buoni come ai cattivi, come la cornucopia che nono­stante l’uso non si esaurisce mai.
Riscalda ed illumina tutti come il sole.
Con lei mi sento sempre piccolo, con lei ho il coraggio d’essere allie­vo, senza di lei potrei morire.
Venezia non ha età, Venezia non muore mai, Venezia è tutto.
Ti allontani, viaggi, giri per le strade del mondo e una sera, alzando gli occhi al cielo, vedi una stella.
Venezia è verità, Venezia è giustizia, Venezia è un dedalo, un labirin­to senza un centro, ma con cento centri, dove a volte puoi ritrovarti. Venezia è ... .
Questo poi ti dissi con lo sguardo, e voglio credere che tu l’abbia compreso.
Dalla fondamenta constatavi lo scorrere lento e silenzioso dell’acqua del canale - il tempo -, la fissavi, l’hai vista lentamente salire e lenta­mente scendere, pulsare, l’hai vista inspirare ed espirare come un petto, un ventre.
Ti specchiavi e ne sei rimasta ipnotizzata.
Ti sei vista riflessa.
Il significato della vita che nel frattempo fugge via.
Hai visto il tuo doppio. Ti attirava, ti sei guardata, ti sei vista bella ma non ci sei caduta dentro nel tentativo di abbracciarla.
Hai compreso, metabolizzato la sua essenza; la bellezza. Non può, né deve essere inseguita, ma perseguita.
Hai visto il tuo volto, il tuo corpo, i colori dei tuoi vestiti specchiarsi nell’acqua, dilatarsi, restringersi, inclinarsi, comprimersi, fiammeggiarsi come in un arabesco, e poi ancora le medesime dilatazioni comprimer­si sempre più velocemente per poi vederle nuovamente rallentare ... un tempo incostante eppure sempre uguale, si modifica solo il ritmo, mai eguale a se stesso.
Ti sei sciolta e ti sei vista in una danza viva e sensuale, accelerata, ri­petitiva, esplodente, a volte evocativa, a volte in un orgasmo travolgen­te passionale e carnale.
Hai provato l’emozione di sentire vibrare e risuonare il tuo corpo alle note a volte di Albinoni, lagunari e umide; a volte di Galluppi, ovattate e melanconiche; a volte di Vivaldi, frizzanti e gioiose.
Hai udito il tuo respiro, il battito del tuo cuore, l’eco dei passi del tuo procedere, la voce del suo richiamo ammaliatore come il canto delle si­rene d’Ulisse, e in lei ti sei ritrovata.
Il tempo scorreva leggero.
Attimi, solo attimi, frazioni di tempo dilatato che cancellano giorni, mesi, anni d’umiliazioni, frustrazioni, indifferenza.
Momenti in cui tutto si confonde, pensieri, memorie, emozioni vissu­te o solo sognate.
Una dolcezza infinita, quasi malinconica. Sei felice e temi che tutto possa finire all’improvviso.
Con i tuoi occhi torni a fissare i miei, e non parli.
Leggo le domande che ti stai ponendo.
Non ti anticipo, non è il caso che ti aiuti, non ti rispondo. Ora o mai più.
Questa volta hai veramente capito.
Il tempo, il prima e il dopo.
Una successione d’emozioni, di sentimenti che spesso impropria­mente chiamiamo amore.
Amore che poi altro non è, come molti ebbero già a dirci, con parole purtroppo inascoltate, incomprese e conseguentemente inapplicate, il fine ultimo della vita.
Omnia vincit amor, et nos cedamus Amori (Virgilio).
L’Amor che move’l sole e l’altre stelle (Dante).
Amor vincit omnia (Poliphilo).
Gli odori dell’erba tagliata di fresco, il profumo della terra dopo un temporale, l’aria fresca e pungente salire nel naso, il frusciare delle fo­glie mosse dal vento, il canto stridulo delle cicale, il profumo di sale e di mare del pesce fresco.
La fragranza del pesce arrostito sulla griglia, le voci, le espressioni idiomatiche, le parole in una lingua a te sconosciuta.
Continuavi a guardarti attorno.
Non hai più incrociato il tuo sguardo con il mio.
Non ne avevi più bisogno.
La terra, il sole la luna, il braciere col fuoco purificatore.
Ti ho visto assorta, concentrata, con gli occhi chiusi di chi vuole ve­dere più lontano avvicinarti, con timore e modestia alle pareti, alle sue pietre per accarezzarle, desideravi ascoltarle, leggere gli anfratti, la me­moria delle pietre, le fratture come una scrittura.
Un atlante storico.
Qualcosa è scattato in te, non sei più quella di prima.
Sei rimasta colpita ed assorbita ad ascoltare queste melodie che eri tentata di voler credere celesti.
Le sette sfere di Pitagora.
Le sette sfere di Agostino di cui parla con la madre Monnica sulla spiaggia del mare di Ostia.
Lo sciabordio delle barche sull’acqua dei canali, il tubare dei colombi, il rumore delle zampe dei cani lasciati a scorrazzare, il canto dei gatti in amore.
Li hai osservati nelle loro movenze, nella danza rituale, rincorrersi, postarsi, rifiutarsi per dire sì, avvicinarsi e puntarsi per dire no, la danza della vita.
Il canto stridulo delle rondini ti obbliga ad alzare gli occhi al cielo, le guardi, le rincorri con lo sguardo nel loro volo, si impennano, planano, virano. Disegnano nel cielo un alfabeto, parole, pensieri, che gli uomi­ni forse non sanno leggere.
Vedi le rondini e vedi le nuvole. E insegui quella nuvola che lenta­mente si stempera e poco dopo si ricompone senza inizio e senza fine, ti consola.
Non provi più l’amarezza appiccicosa della nostalgia.
Hai bevuto alcuni bicchieri di vino e gustato alcuni “cicchetti” (stuzzi­cherie, sfizi commestibili, alimenti sminuzzati dal francese, ma anche in italiano il termine indica un bicchierino di superalcolico).
I lineamenti del tuo volto si sono distesi, hanno ritrovato la luce e la serenità perduta da tempo, sei ringiovanita, non hai più un’età, tutto è possibile, sei più leggera.
Non hai bisogni da soddisfare, ti è rinata la fiducia e percepisci che i tuoi desideri potranno avverarsi.
Ora hai in te una nuova forza, ora non hai più il pudore di chiedere, ora senti che non è solo un diritto ma un dovere chiedere di più.
Chiedere tutto perché tu lo hai visto, perché tu l’hai provato, perché esiste.
Voli, voli con la mente, sola con i tuoi pensieri, quelli più intimi e se­greti, dove nessuno ti indaga e ti giudica.
Con distacco, quasi fossi esterna a te stessa, una turista, rivisiti sen­za paura o vigliaccheria il pozzo che contiene i tuoi fallimenti, le tue frustrazioni, le tue amarezze, i tuoi ricordi, non li sfuggi, non provi vergogna, non sono più tuoi. Per un attimo, un attimo im­menso hai dimenticato il tuo nome. Salivi i gradini del ponte con passo leggero, li sfioravi, sentivi che non avevi bisogno di dire pa­role. Che non avevi nessun luogo dove andare. Ti eri definitiva­mente persa, senza un orizzonte, senza una lingua, senza una casa e senza una memoria.
Volevi urlare al mondo che ti senti finalmente libera, la forza che ti dà la serenità, volevi gridare tutte le emozioni che riesci a provare.
Non puoi trasmettere tutte le commozioni che provi, non sono trascrivibili.
Non provi più la paura di essere osservata, valutata, soppesata, l’angoscia del dover essere.
Ora sei cosciente che sei splendente, luminosa. Sei appagata.
Una sola certezza, sei sola e non soffri la solitudine, sei piena e sazia di tutto e di nulla.
Nessuno potrà mai rubarti ciò che stai provando.
Sei inebriata.
Ubriacata e presente a te stessa, sei il tutto e non sei nulla. Un percorso che non conoscevi, hai finalmente aperto la porta e non provi più nessuna paura.
Non hai più catene.
Non sei più suddita di nessuno.
Non hai più impegni, non hai più una meta; ti libri leggera come un filo di fumo che si stempera nell’aria, nell’aria come una nuvola o come un aquilone, come i magici violinisti di Chagall.
Non hai un percorso prefissato da percorrere, un nuovo futuro percorso ti ha dolcemente penetrato, lo hai metabolizzato e ti sei lasciata rapire.
Anche questa è Venezia.

Indirizzo

Calle Casselleria, Vicino Negozio Ratti. Castello 5284
Venice
30122

Telefono

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