28/10/2025
Non basta un impianto, quattro luci e un po’ di musica anni ’90 per fare il DJ.
Viviamo in un’epoca in cui chiunque può sembrare un DJ.
Basta un computer, due casse e una buona dose di convinzione scenica.
Oggi, l’immagine ha sostituito la sostanza.
L’estetica ha preso il posto dell’esperienza.
E la finta sicurezza davanti a un pubblico inconsapevole vale più di anni di pratica dietro una console.
Ma la differenza si vede.
Eccome se si vede.
C’è chi studia, chi osserva, chi ascolta.
Chi vive il club, capisce la pista, percepisce le vibrazioni.
E poi ci sono i fake DJ: gente che pensa che basti muovere le mani come nei video di YouTube, o fingere di toccare un disco che non esiste.
Li riconosci subito: non hanno le cuffie, non hanno il tempo, non hanno idea.
Usano l’effetto nostalgia come copertura:
mettono la solita musica anni ’90 che conoscono tutti, così nessuno si accorge che dietro non stanno facendo nulla.
È la strategia del “piace a tutti, così funziona comunque”.
Ma il DJing non è mettere canzoni che piacciono: è creare un viaggio musicale.
E questo è il punto.
Un DJ vero costruisce un’esperienza.
Studia, ascolta, prepara, adatta.
Capisce che ogni brano ha un senso, una direzione, una funzione nella storia che sta raccontando.
Un fake DJ invece copia le movenze, ma non capisce il linguaggio.
È come vedere qualcuno che finge di suonare il violino con una racchetta da tennis.
Puoi anche illudere chi non sa ascoltare.
Ma chi la musica la vive, ti sgama in tre secondi.
Essere DJ non significa fare finta di sapere cosa si sta facendo.
Significa saperlo davvero.
E non serve un computer o quattro luci per provarlo.
Serve rispetto.
Serve cultura.
Serve vocazione.
Perché il DJ non è chi mette le canzoni più famose.
È chi fa sentire qualcosa che non ti aspettavi di provare.