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04/02/2025

● in preparazione: Non mi sono fatto niente. Guerriglie esodi droghe carceri, di Maurizio Gibertini
● uno stralcio: Frammenti di un processo

Durante il processo, alla presenza dei carabinieri nella gabbia ci abituiamo presto. Questione di sopravvivenza, impariamo a ignorarli fino a dimenticarcene. D’altra parte abbiamo altro da fare per esserne distratti: ci sono gli abbracci e i baci da non sprecare, i nuovi amori – dureranno giusto il tempo del processo – e quelli che si consumano, come il mio con F., le lunghe chiacchierate, l’alfabeto muto con compagni, amici, amanti presenti tra il pubblico.
F. mi ha mollato perché le piace Tata, ma lui sta da sempre con Mària, peraltro la sua migliore amica. Non si scannano, anzi passano gran parte del tempo in tre.

Tra il pubblico un giorno appare una bellissima ragazza. Colpito e affondato. È la compagna di uno di noi al momento latitante. Piccolina, pelle scura, lunghi capelli neri, occhi azzurri. Una delizia. Lei e altre hanno deciso di «prenderci in adozione», una per ciascuno di noi. Le sono toccato in sorte – che c**o – ma dopo quella comparsata in aula ha deciso di mollarmi a un’altra: «Quello ha uno sguardo da maniaco». L’equivoco è dovuto al fatto che sono molto miope, la mia messa a fuoco è un lungo lavoro di calibrazione. Praticamente sono come un obiettivo a regolazione manuale manovrato da un operatore impedito. Fatto sta che qualche anno dopo lei è stata la ragione del mio trasferimento esistenziale a Roma. Ci siamo messi insieme e abbiamo convissuto per due anni.

Un giorno, durante il processo, un sottufficiale dei carabinieri dice a me e a Roby che c’è un nostro amico che ci aspetta alle spalle delle gabbie. Sorpresa! E chi sarà mai? Accettiamo.
L’«amico» uscito dal cilindro del prestigiatore ci accoglie con un gran sorriso. In effetti lo conosciamo bene, molto bene. Coniglio. La paraculaggine è sempre stata la sua virtù principale.
Scambio un’occhiata con Roby. L’intesa è di stare al gioco e vedere dove si va a parare.
Lui è seduto su una panca. Ci accomodiamo anche noi. Apre il giaccone e tira fuori l’arma segreta: una bottiglia di Jack Daniel’s. È ancora mattina e non abbiamo pranzato. Ma come si fa a dire di no a quel ben di dio? Facciamo sorsi da mezza pinta mentre parte il sermone: «Collaborate, che è un’opera di bene. Dobbiamo salvare il mondo e intere generazioni dal baratro del terrorismo». E vai col mambo. Non si prende sul serio neppure lui, e si vede bene: risate sornione, smorfie del viso che non lasciano dubbi.
Finita la bottiglia e dignitosamente ubriachi lo salutiamo e torniamo in gabbia dagli altri. Un po’ biascicando raccontiamo l’incontro. Il resto dell’udienza lo passiamo tentando di non cadere russando sui gradoni della gabbia in braccio a un qualche carabiniere.

Un giorno, durante un’udienza, chiedo a un caramba di recapitare una rosa – non ricordo come me l’ero procurata – alla giudice a latere, una gran bella donna, e pure giovane. Una maniera per ringraziarla di avermi aiutato a ottenere uno dei miei permessi coniugali, mi racconto. Sono convinto che tanto la rimanderà indietro. Invece no, quando la Corte rientra dalla pausa pranzo per riprendere l’udienza vedo che la tiene in mano, e poi, una volta seduta, l’appoggia sul banco davanti a sé.

● L’immagine della copertina del libro è provvisoria.

11/12/2024

● ahida: selfie da zemrude, comparto a cura di Officina Multimediale

Abbiamo bisogno di entrambe le città? Crediamo di sì. Siamo portatori sani della sindrome di Hawthorne.
Lo sguardo è un rombo del diagramma di flusso che processa le relazioni.
Pratichiamo libertà! La scelta non si dà tra le cose ma nel senso che conferiamo.

Doniamo senso dunque.
E-strani racconti
il nostro comparto,
divulgativo e un po’ bastardo,
centrifuga
di lingue
di suoni
di immagini rubate
al tempo che scappa.
Fotografie sgranate,
immagini in movimento
che ballano,
musiche sghembe,
parole bisbigliate
come segreti sotto le lenzuola.
Parole in fuga,
parole che inciampano,
archivi dis-ordinati,
polverosi?
Luminosi!
Si reinventano
con occhi di bambino.
Il sottoterra che vive,
sperimenta,
cerca soluzioni
al racconto che esplode.
Indipendenti,
viventi!

Un selfie collettivo,
uno specchio rotto,
ogni frammento
si fa voce,
smorfia,
storia,
un gioco.

Alla fine,
chi sa...
Baci da Zemrude!
Elementi Fondamentali del Progetto
Obiettivi principali

● divulgazione: offrire contenuti che esplorino e diffondano le peculiarità dell’in giù, mettendo in luce sperimentazioni e percorsi alternativi.
● laboratorio creativo: creare uno spazio per l’interazione tra linguaggi multimediali, con l’obiettivo di generare nuove forme narrative e, quando possibile, far nascere comparti specifici e autonomi.
Focus tematici e linguaggi
● narrativa multimediale: integrare immagini, suoni, segni per creare narrazioni ibride.
● sperimentazione: apertura a scritture non codificate e utilizzo creativo degli archivi.
Metodologia
● costruire sinergia tra discipline e aut[ ]i.
● favorire interazione tra partecipant[ ].
● adottare una «linea redazionale» collaborativa e aperta, che si evolva in modo organico con il contributo di chi partecipa.

27/11/2024

● ahida/compArt, a cura di Manuela Gandini

Il comparto dell’arte sarà come una citta in crescita, con i suoi bassifondi e centri direzionali, che ospiterà articoli e saggi improntati all’analisi dell’arte contemporanea, alla teoria e al racconto di esperienze visive/poetiche/performative legate alla condizione sociale e politica contemporanea. Le recensioni saranno considerate come organismi aperti alla discussione culturale e non concepite come «frame» chiusi nel soliloquio del linguaggio critico tradizionale.
Apertura internazionale, interdisciplinare, interspecista, infratemporale.
Dunque l’arte come dispositivo politico, onirico, trasformativo, immersivo che include mondi, discipline, nuove tecnologie, conflitti e spiriti.

Manuela Gandini

27/11/2024

● verso una nuova rivista: ahida – per una confederazione di autonomi saperi critici.
● «comparto post-poetica», a cura di Marco Giovenale

Nessuno è più stufo della poesia di chi la fa sul serio. Per farla «molto» sul serio, forse, dobbiamo allora oltrepassarla; o meglio: è possibile oltrepassare quei moduli che sappiamo essere già alle nostre spalle, anzi, proprio alle spalle del già detto. Soprattutto, dobbiamo (o comunque possiamo) renderci conto che i generi letterari da tanto ormai si sovrappongono, si mescolano, si intersecano e confondono, forse si negano, anche, sbiadiscono. Slittano lontano. Quella che ne affiora è dunque un’area, smarginata e incerta, in cui il prefisso «post» è perfino più importante della (perdibile o già persa) «poesia». Il detto popolare dice che, chiusa una porta, si apre un portone. O un portale, chissà, o insomma una zona online, un comparto di pagine e contropagine. Le vedremo.

Marco Giovenale

27/11/2024

● testo: «Prima nota su un film da fare», di Raffaele Ventura (Coz)
● l'interrogatorio di Coz a Parigi per i fatti di via De Amicis a Milano, il 14 maggio 1977

Per entrare al Consolato d’Italia a Parigi si deve passare per una doppia porta di sicurezza e prima che la seconda porta si apra, per qualche secondo si è bloccati in uno spazio molto ristretto. «Ma chi me l’ha fatto fare di ve**re qui?» – penso. «Non siamo in territorio italiano, dato che solo l’Ambasciata fruisce dell’extraterritorialità, ma il dubbio che mi possano ficcare in una valigia diplomatica per riportarmi in Italia ce l’ho. In Italia, in galera. Il poliziotto all’ingresso mi avverte che il giudice istruttore del Tribunale di Milano mi sta aspettando.
Lo osservo da lontano mentre carica la p**a. Ha l’aria di un primo della classe piuttosto che quella di un inquisitore. Mi viene incontro e mi invita a sedermi.
«Buongiorno, come le avranno comunicato sono a Parigi per interrogarla in rogatoria da imputato nel processo che deve stabilire i differenti gradi di responsabilità nell’uccisione del vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Antonino Custra nel corso della manifestazione del maggio ’77 a Milano».
«Sì, lo so» – rispondo.
Nella stanza un tavolo da ufficio anni Cinquanta, quattro sedie come quelle delle scuole elementari, niente finestre, luce al neon verdastra. Un carabiniere in borghese si appresta a trascrivere il verbale d’interrogatorio con una vecchia Olivetti Lettera 22. Una porta cancello con sbarre di ferro si chiude alle mie spalle e vengo immerso nell’atmosfera dell’interrogatorio.
Ho accettato di incontrare il giudice perché volevo fare chiarezza su ciò che era successo quel giorno, e soprattutto per tentare di scagionarmi dalla pesante imputazione di concorso improprio nell’omicidio dell’agente di polizia. Concorso improprio significa non aver fatto quello che era necessario fare affinché il fatto non accadesse. E un concorso più legato al mio comportamento generale dell’epoca, alle mie responsabilità in un periodo di tempo abbastanza lungo, piuttosto che alla responsabilità materiale all’accadimento specifico.
Il giudice mette sul tavolo decine di fotografie numerate, repertoriate, ordinate cronologicamente. Un puzzle che ricostruisce il luogo degli scontri e della sparatoria. In tutte le foto ogni manifestante è contrassegnato da un numero, e lo stesso numero lo rivedo in altre foto con i soggetti in posizione sempre più ravvicinata al luogo dell’omicidio. Io sono il numero 20. Non sempre un numero corrisponde a un nome. Intuisco il retropensiero del giudice: vuole che lo aiuti a mettere dei nomi ai numeri che non li hanno ancora.
Mentre mette ordine alle foto mi dice: «Ricostruire quanto è avvenuto in quella giornata, e stabilire in primo luogo chi materialmente ha fatto partire il colpo che ha ucciso il poliziotto, è diventato l’ossessione dei miei ultimi cinque anni, da quando cioè sono stato incaricato di istruire il processo. Ho accumulato una quantità enorme di materiale fotografico, di negativi sequestrati in perquisizioni negli studi di fotografi di professione o dilettanti. Lei dovrebbe aiutarmi a dare un ordine a tutto ciò. Vedo già che ha messo a fuoco la sua presenza... eviti imbarazzi, il numero 19, vicino a lei, sappiamo già chi è... non è un nome che le chiederò in questo incontro».
La foto che sto guardando sembra animarsi e con un movimento tridimensionale entro nella scena di quel giorno in via De Amicis. Vedo in primo piano il «senza volto» numero 19. Tra i fumi degli incendi e dei lacrimogeni le figure si muovono come al rallentatore... chi spara, chi scappa, tutto si sovrappone, anche i rumori sono dilatati e rallentati, quasi ipnotici. Vedo la figura di Giuseppe Memeo con lo stesso passamontagna che ha nella foto, ma su un fondo bianco. Sento la sua voce: «Al processo volevo assumermi la responsabilità dell’omicidio. Avevo un’arma di precisione, una calibro 22 da tiro, ho mirato, pensavo di aver colpito l’agente ma le perizie balistiche mi hanno scagionato. Quella foto ha fatto di me un personaggio, è diventata un’icona e un mezzo efficace per veicolare in prima pagina l’immagine del terrorista... ma nessuno sa chi sono davvero, chi c’è dietro questo uomo mascherato. Ero soprannominato il “terrone”. Sono arrivato a Milano con la mia famiglia nel periodo del boom economico. Abitavamo in periferia, in quei quartieri dormitorio che hanno accolto la manodopera a basso costo arrivata a ondate dal sud Italia. Poi ho partecipato alle lotte operaie e studentesche che mi hanno dato un senso di appartenenza, un’identità, una voglia di cambiare. E così io ho partecipato a tutte le azioni possibili, perché discutere va bene ma agire è ancora meglio, soprattutto quando, come nel mio quartiere di Quarto Oggiaro per esempio, centinaia di persone entravano nei supermercati e ne uscivano con i carrelli pieni senza pagare...».
Il giudice fissa alla parete un’ultima foto. Racconta la storia dell’inchiesta prima che gli venisse affidata, dal primo processo ai tre studenti dell’Istituto Cattaneo alla nuova istruttoria basata sulle nuove foto trovate con tanto ritardo, troppo. Me le mostra. Mi concentro sulla posizione un po’ goffa di quel ragazzo che scappa: un diciottenne alla sua prima manifestazione. Vedo il suo volto su un fondo bianco: «Quello è il fotogramma che ha cambiato la mia vita. Quelli contro cui lottavamo avevano cervelli di latta capaci solo di immaginare fame, repressione, violenza, leggi speciali e morte; non volevano capire che non potevano distruggerci perché la nostra rabbia, la nostra fantasia urlavano più forte della loro sete di vendetta».
Il giudice interrompe le mie visioni: «Il ritrovamento delle foto scattate dal fotografo dietro gli alberi mi ha fatto capire che i principali responsabili non erano i tre ragazzi del Cattaneo, ma lei mi deve aiutare in questa ricostruzione...».
Vago nella memoria. Flash di una fuga con dei salvagenti in un fiume dopo una rapina. Le lancette ferme di un orologio sulla parete di una banca. Rivedo le immagini dell’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione nel buio di un bosco, le discussioni, le canne, la fatica... Era un periodo di grandi fermenti, di trasformazioni rapide e di strutture organizzative informali. I gruppi organizzati legati al movimento erano collettivi territoriali frequentati da giovani di differente origine sociale ma che nella vita quotidiana affrontavano insieme le difficoltà economiche e relazionali che condividevano. Anche i figli delle «famiglie bene» avevano rotto con il loro status di privilegiati e, come i giovani di origine proletaria, vivevano giorno per giorno la stagione dell’autonomia. Si riappropriavano delle merci, sul lavoro sabotavano le macchine che gli imponevano ritmi toppo elevati, non pagavano i concerti perché la musica doveva essere gratuita. I comportamenti illegali erano diffusi e la forza del movimento garantiva l’impunità a chi li praticava.
Il giudice tamburella le dita su una foto: «Non sono venuto fin qui per sollecitarle vecchi ricordi con i suoi amici di un tempo... Allora, si è riconosciuto in questa foto no? Quella nella sua mano è una pi***la?». Un dettaglio quasi fuori campo: i pantaloni a zampa d’elefante mi rinviano a ricordi di situazioni a colori intensi, molto contrastati.
Quattro giorni di concerti, decine di iniziative previste dagli organizzatori dell’ultimo festival di Parco Lambro, migliaia di accampamenti improvvisati per i brevi momenti di riposo. Spinelli, musica, danze liberatorie al sole e sotto la pioggia. Ma qualcosa covava sotto quella vernice tardo hippy. Erano le migliaia di fratelli di Memeo, il proletariato giovanile che irrompeva sulla scena come protagonista sconvolgendo le regole del gioco. I loro comportamenti erano imprevedibili e passano dalla spensieratezza alla violenza. L’eroina sequestrata agli spacciatori che ronzavano attorno a ogni avvenimento giovanile venne bruciata sul palco tra un concerto e l’altro. Gli stand alimentari, anche se a prezzo contenuto, furono presi d’assalto, i polli surgelati che riempivano un camion frigorifero degli organizzatori diventarono palloni per una gigantesca partita di calcio senza regole né arbitro. Una pioggia di sassi si riversò sui veicoli della polizia che sostava nei dintorni del parco.
La nuova figura sociale prodotta delle trasformazioni industriali e del territorio si presentava e si rappresentava come controcultura nell’esperienza degli indiani metropolitani, e come contropotere nella pratica delle bande di quartiere con tutto il loro potenziale di violenza. Nessuna sorpresa dunque se qualche mese dopo, nelle strade e nelle piazze, comparvero le armi.
Mentre le Brigate rosse cercavano di dare obiettivi strategici e alzavano il tiro verso il «cuore dello Stato», il movimento danzava tra ricordi ed eredità della guerra partigiana e gli embrioni di nuove forme di resistenza. Per i giovani quello che più contava era lo spirito di banda, l’appartenenza a un gruppo di affinità, la sperimentazione di nuove forme di vita. La nuova parola d’ordine «riprendiamoci la vita», cresciuta nei gruppi di autocoscienza femministi, diventò patrimonio comune di quei giovani e si coniugò con la parola d’ordine vecchia di alcuni anni del «prendiamoci la città». I Circoli del proletariato giovanile difendevano il proprio territorio con le «ronde proletarie», occupavano edifici e case sfitte per creare luoghi di socializzazione, isole liberate in cui riunirsi. Esprimevano pratiche di contropotere e d’illegalità diffusa. Ma quando, ispirandosi al modello delle Brigate rosse, cedettero alla tentazione di alzare il livello dello scontro e l’impunità cessò, molti furono arrestati e alcuni di loro, per non restare anni in galera, contrattarono con la giustizia la riduzione della pena, e la merce di scambio divenne la libertà e la vita dei loro compagni.
Ma di nuovo la voce del giudice mi riporta nella stanza: «Come saprà il numero I, Marco Ferrandi, ha parlato e sappiamo già tutto... abbiamo solo bisogno di alcune conferme. Chi ha organizzato quel giorno l’arrivo delle armi in piazza?».
Fisso lo sguardo sulla figura contrassegnata con il numero I. Quello a una trentina di metri dallo schieramento della polizia che si ripara dietro un’automobile è «Coniglio», Marco Ferrandi, un grande amico di Memeo. Qualche anno dopo la sparatoria di via De Amicis si era rifugiato a Londra per evitare la galera, dato che qualcuno aveva fatto il suo nome. Londra concesse l’estradizione e già nel viaggio di ritorno cominciò a parlare. Raccontò con aneddoti coloriti quel periodo di «guerra civile a bassa intensità» che aveva attraversato il paese. I giudici prendevano gusto ad ascoltarlo, anche se in realtà conoscevano già quasi tutto. I suoi racconti produssero molti arresti. Cercò di convincere tutti quelli della sua banda a «pentirsi», così sarebbero usciti tutti in fretta dalla galera.
Il giudice mi dice: «Ferrandi è in libertà perché è stato un prezioso collaboratore di giustizia, ma lo aspetto al varco, fosse solo per mettere un nome al killer di via De Amicis. Sono certo che sia lui l’assassino dell’agente Custra. È comprensibile che lei voglia motivare le cause sociali, dare ragioni profonde, ma io sono un giudice e faccio il giudice, voglio solo sapere chi ha esploso il colpo mortale e chi ha portato le armi in piazza, tutto il resto e compito degli storici, dei politici. Io devo fornire al tribunale solo gli elementi probanti, non le fioriture».
Sul tavolo le immagini delle fotografie ora non si muovono più.
«Non posso dire quello che non so. Ho accettato di rispondere all’interrogatorio per parlare di me, del numero 20, e non per accusare qualcuno. I suoi due sospetti hanno confessato tutto, fanno parte dei cosiddetti “pentiti”, hanno sparato insieme con due armi uguali e non sanno chi di loro due impugnava la pi***la che ha ucciso».
Usciamo insieme dal Consolato. E luglio e all’aria aperta si sciolgono i nodi allo stomaco ed evaporano le paure. Propongo al giudice di accompagnarlo al suo hotel, sui Grands Boulvards. Ci ritroviamo cosi in tre, io, il giudice e il carabiniere, su una Peugeot 305 break color gendarmeria. Strana vettura per quella passeggiata imprevista. Sono un po’ impacciato e cerco di darmi un contegno guidando all’italiana. Il carabiniere cerca di rompere la tensione e forzando il suo accento siciliano mi dice con un certo sarcasmo che, dopo tutto, per essere un naufrago non me la passo tanto male. Evito di commentare e cerco di mantenere un profilo basso, parlo delle mie attività, dei documentari che realizzo sui temi dell’immigrazione. Poi, dato che siamo sull’argomento, dico: «Ho una mezza idea di fare un film a partire da quella foto, vorrei titolarlo “Storia di una foto”. Vorrei contribuire a far si che quell’immagine, che non e mai stata una foto, lo diventi finalmente entrando in una album di cui si possano finalmente girare le pagine». Nel retrovisore vedo il giudice scuotere la testa, poi, guardando fuori dal finestrino mi dice: «Ventura, pensi a godersi questa citta, dato che sarà la sua vera citta ancora per molti, molti anni...».

● da: «Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli “anni di piombo”. Contesti e retroscena», a cura di Sergio Bianchi, DeriveApprodi, 2011.

11/11/2024

● verso una nuova rivista: «officina multimediale» partecipa alla costruzione di «ahida»

Perché «ahida?»

Noi di officina multimediale siamo mediattivisti? Anche. Ma preferiamo definirci «narratori».
Il nostro strumento preferito? Le «immagini in movimento», ma non disdegniamo nessuna forma della comunicazione.
La tradizione a cui ci rifacciamo è il «racconto orale» sia che si tratti di storia che di presente.
La nostra finalità? Contribuire a ridare dignità e voce al «racconto del reale» perché pensiamo che non ci sia nulla di più distopico, assurdo, imprevedibile della realtà.
Paradossalmente non siamo realisti ma degli impenitenti sognatori e siamo costantemente e spasmodicamente alla ricerca di «segnali» del cambiamento.
La nostra è un’identità collettiva e dinamica, a volte siamo pochi, altre volte siamo tanti, ma non siamo mai uno.
Perché ahida?
Perché ci assomiglia.

Maurizio Gibertini

Nuova anticipazione. Grazie Milieu. Da pischello a pischello marxista leninista de noantri
05/07/2024

Nuova anticipazione. Grazie Milieu. Da pischello a pischello marxista leninista de noantri

● collana «settanta milieu» – sezione «narrazioni»
● anticipazione da: «Non mi sono fatto niente. Guerriglie esodi droghe carceri», di Maurizio Gibertini

In chiusura d’estate andai per la prima volta – e quasi ultima – a lavorare. Assunto per un lavoro a termine da uno zio che aveva la «fabbrichetta». Mi accompagnavo a un altro ragazzo, dovevamo incastrare le lamelle di ferro per assemblare un trasformatore. Un lavoro infame. Già dopo il primo giorno avevo le mani piagate. Le fottute lamelle tagliavano come rasoi e usare i guanti era d’impiccio.
La tortura durò tre settimane. Al momento della paga, il mio compagno prese l’equivalente del salario orario per quella mansione, una miseria. A me toccò una pacca sulle spalle e quattro spicci del c***o perché ero il nipote.
Ancora prima di approcciarmi all’operaismo, a Toni Negri, a qualsiasi teorizzazione politica e ideologica, capii: il «mondo nuovo» o si basava sul rifiuto del lavoro o non era.
Inviai l’iscrizione per il liceo al Volta, quello di zona. Respinta. Ero destinato al VI Liceo scientifico, anche conosciuto come «la pattumiera», non degno financo di avere un nome; nel tempo divenne VIII e poi X. Tre sedi, una in via Kolbe/viale Corsica ‒ ospitato da un oratorio, abbastanza vicino a dove stavo io ‒ e altre due in zona Sempione, dall’altra parte della città, nel quartiere cinese; quella di via V***a pure nei locali di un oratorio. In via Cagnola aveva preso il posto di una scuola muraria. Ovviamente io fui deportato – per fortuna, con il senno di poi – alle sedi più lontane, rimpallato tra la scuola muraria e l’oratorio di V***a.
Le prime persone che conosco al liceo sono per-fet-te. La prima è Edy, compagna di classe, già militante dell’Unione dei comunisti italiani, Servire il popolo, chiamata dai più, me compreso, Servire il pollo, un’organizzazione maoista più simile a una chiesa che a un partito comunista. In fondo, i partiti comunisti un po’ chiese lo erano, nessuno escluso. Con lei partecipo a quella che mi sembra fosse la riunione fondativa delle Guardie rosse – la sezione giovanile di Servire il popolo – . La cosa non mi entusiasma. Essendomi scoperto marxista leninista maoista ‒ tutto d’un fiato¬ ‒ mi allontano da quel giro; approderò più tardi al Pcd’I-linea nera (la linea rossa era da poco fuoriuscita fondando un altro Pcd’I, da ricovero), l’unica organizzazione riconosciuta dal Partito comunista cinese. Gestiva l’associazione culturale Italia-Cina, praticamente uno spaccio di libretti rossi e distintivi di Mao di ogni di ogni forma e misura.
La seconda è un ragazzo, Giulio, di nobili lombi. Aveva velleità da compagno – durate pochissimo – ma, soprattutto, la madre Valeria era la segretaria nazionale del fan club dei Beatles. In casa loro – l’appartamento più borghese che avessi mai visto – c’era una stanza della musica rivestita di vinili disposti di taglio che la facevano sembrare una sala anecoica. Centinaia di longplay, inclusa tutta la produzione mondiale dei Fab Fours. Valeria in quella stanza trascorreva la giornata riempendo il vuoto pneumatico che la attanagliava con musica, maglia e yoga. Io spesso le tenevo compagnia, godendomi la possibilità di ascoltare musica che non mi sarei mai potuto permettere.
Il padre/marito calava a Milano di rado, quando c’era lui io mi eclissavo. Di nobiltà terriera, era un eremita rustico, gretto, di modi spicci, intollerante e reazionario. Da mandare giù con un bastone.
C’era un altro membro in famiglia, una figlia più piccola: Adriana. Bionda e algida, bellissima. E voleva me! Un paio di anni dopo è stata forse il primo amore vero della mia vita. Giulio invece, poco dopo essersi iscritto al mio liceo, si è spostato in una scuola privata e – guarda un po’ – s’è scoperto fascistissimo, dando l’abbrivio a un plot degno di una pellicola brillante alla francese. Lui organizzava feste in salone infestate di sanbabilini. Noi, Valeria il sottoscritto e qualche altro amico, prendevamo possesso della stanza della musica, antistante la cucina, di fatto impedendo ai fascistelli di approvvigionare cibo e intrattenimento. Ci prudevano le mani, ma quella casa era convenzionalmente un territorio neutro.
A proposito di fascisti, devo sempre al liceo la scoperta che il fascismo, oltre a essere un’idea del c***o, consisteva di gambe, braccia, carne... m***a. M***e. I fratelli La Russa.
A un paio di mesi dall’inizio delle lezioni decidiamo di occupare la scuola, più per solidarietà con gli altri istituti e non essere da meno che per un programma di lotta puntuale. Era la ribellione l’obiettivo, sempre e comunque. Per farlo adottiamo le parole d’ordine consuete di allora: contro il caro libri e la fatiscenza degli edifici scolastici, abolizione del voto di condotta ecc. A me e Claudio ‒ il compagno di classe storico ‒ il compito di procurare catene e lucchetti che sarebbero serviti a bloccare tutti i varchi una volta dentro.
Quattordicenni, infagottati nei nostri eskimi ultima presa del mercatino «americano» di Livorno, placcati di «stelle rosse» e del compagno Presidente Mao in tutte le salse, le tasche con la ferramenta utile e il libretto rosso, arriviamo fin sotto il portone di casa.
Veniamo intercettati da due cosoni, tali ci parevano essendo più grandi di qualche anno: Ignazio e Romano La Russa. La famiglia, nota in quartiere per dichiararsi fascista e i pargoli segnatamente per essere due c***o di picchiatori, abitavano a non più di due traverse di via Pacini.
Lo scontro era inevitabile. I due ci vengono sotto e ci intimano di toglierci le spille. Come statue di sale respingiamo la provocazione optando per una sorta di resistenza passiva ‒ lo scontro fisico ci avrebbe visto soccombere ‒ e ci rifiutiamo di eseguire l’ordine. Parte qualche spintone e la catena nel tascone dell’eskimo tintinna. Incuriositi, tentano di infilarmi le mani in tasca. Reagisco afferrando la catena, non per colpire ma per non farmela sottrarre. Non riescono a strapparmela via, allora afferrano ciascuno un capo e cominciano a ti**re stritolandomi mano e dita. Surreale. Le scene di violenza vivono curiosamente di un tempo cristallizzato. Due ragazzotti contro due adolescenti, pochissime parole e molto silenzio, i due che tirano la catena, la mia mano è un pezzo inerte di carne violacea, ma non un fiato. La mano cede e i due se ne vanno tronfi e soddisfatti della gloriosa impresa, brandendo il loro bottino.
Ho il dubbio sul pronostico di un secondo scontro, che non ci fu mai. Non ci siamo più incontrati. Nel frattempo loro erano diventati se possibile più fascisti e io assai più vissuto.
Comunque le spille non le ho tolte e il Comitato centrale del Pcc avrebbe dovuto essermene grato.

13/03/2024

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Viterbo

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