27/11/2024
● testo: «Prima nota su un film da fare», di Raffaele Ventura (Coz)
● l'interrogatorio di Coz a Parigi per i fatti di via De Amicis a Milano, il 14 maggio 1977
Per entrare al Consolato d’Italia a Parigi si deve passare per una doppia porta di sicurezza e prima che la seconda porta si apra, per qualche secondo si è bloccati in uno spazio molto ristretto. «Ma chi me l’ha fatto fare di ve**re qui?» – penso. «Non siamo in territorio italiano, dato che solo l’Ambasciata fruisce dell’extraterritorialità, ma il dubbio che mi possano ficcare in una valigia diplomatica per riportarmi in Italia ce l’ho. In Italia, in galera. Il poliziotto all’ingresso mi avverte che il giudice istruttore del Tribunale di Milano mi sta aspettando.
Lo osservo da lontano mentre carica la p**a. Ha l’aria di un primo della classe piuttosto che quella di un inquisitore. Mi viene incontro e mi invita a sedermi.
«Buongiorno, come le avranno comunicato sono a Parigi per interrogarla in rogatoria da imputato nel processo che deve stabilire i differenti gradi di responsabilità nell’uccisione del vicebrigadiere di Pubblica sicurezza Antonino Custra nel corso della manifestazione del maggio ’77 a Milano».
«Sì, lo so» – rispondo.
Nella stanza un tavolo da ufficio anni Cinquanta, quattro sedie come quelle delle scuole elementari, niente finestre, luce al neon verdastra. Un carabiniere in borghese si appresta a trascrivere il verbale d’interrogatorio con una vecchia Olivetti Lettera 22. Una porta cancello con sbarre di ferro si chiude alle mie spalle e vengo immerso nell’atmosfera dell’interrogatorio.
Ho accettato di incontrare il giudice perché volevo fare chiarezza su ciò che era successo quel giorno, e soprattutto per tentare di scagionarmi dalla pesante imputazione di concorso improprio nell’omicidio dell’agente di polizia. Concorso improprio significa non aver fatto quello che era necessario fare affinché il fatto non accadesse. E un concorso più legato al mio comportamento generale dell’epoca, alle mie responsabilità in un periodo di tempo abbastanza lungo, piuttosto che alla responsabilità materiale all’accadimento specifico.
Il giudice mette sul tavolo decine di fotografie numerate, repertoriate, ordinate cronologicamente. Un puzzle che ricostruisce il luogo degli scontri e della sparatoria. In tutte le foto ogni manifestante è contrassegnato da un numero, e lo stesso numero lo rivedo in altre foto con i soggetti in posizione sempre più ravvicinata al luogo dell’omicidio. Io sono il numero 20. Non sempre un numero corrisponde a un nome. Intuisco il retropensiero del giudice: vuole che lo aiuti a mettere dei nomi ai numeri che non li hanno ancora.
Mentre mette ordine alle foto mi dice: «Ricostruire quanto è avvenuto in quella giornata, e stabilire in primo luogo chi materialmente ha fatto partire il colpo che ha ucciso il poliziotto, è diventato l’ossessione dei miei ultimi cinque anni, da quando cioè sono stato incaricato di istruire il processo. Ho accumulato una quantità enorme di materiale fotografico, di negativi sequestrati in perquisizioni negli studi di fotografi di professione o dilettanti. Lei dovrebbe aiutarmi a dare un ordine a tutto ciò. Vedo già che ha messo a fuoco la sua presenza... eviti imbarazzi, il numero 19, vicino a lei, sappiamo già chi è... non è un nome che le chiederò in questo incontro».
La foto che sto guardando sembra animarsi e con un movimento tridimensionale entro nella scena di quel giorno in via De Amicis. Vedo in primo piano il «senza volto» numero 19. Tra i fumi degli incendi e dei lacrimogeni le figure si muovono come al rallentatore... chi spara, chi scappa, tutto si sovrappone, anche i rumori sono dilatati e rallentati, quasi ipnotici. Vedo la figura di Giuseppe Memeo con lo stesso passamontagna che ha nella foto, ma su un fondo bianco. Sento la sua voce: «Al processo volevo assumermi la responsabilità dell’omicidio. Avevo un’arma di precisione, una calibro 22 da tiro, ho mirato, pensavo di aver colpito l’agente ma le perizie balistiche mi hanno scagionato. Quella foto ha fatto di me un personaggio, è diventata un’icona e un mezzo efficace per veicolare in prima pagina l’immagine del terrorista... ma nessuno sa chi sono davvero, chi c’è dietro questo uomo mascherato. Ero soprannominato il “terrone”. Sono arrivato a Milano con la mia famiglia nel periodo del boom economico. Abitavamo in periferia, in quei quartieri dormitorio che hanno accolto la manodopera a basso costo arrivata a ondate dal sud Italia. Poi ho partecipato alle lotte operaie e studentesche che mi hanno dato un senso di appartenenza, un’identità, una voglia di cambiare. E così io ho partecipato a tutte le azioni possibili, perché discutere va bene ma agire è ancora meglio, soprattutto quando, come nel mio quartiere di Quarto Oggiaro per esempio, centinaia di persone entravano nei supermercati e ne uscivano con i carrelli pieni senza pagare...».
Il giudice fissa alla parete un’ultima foto. Racconta la storia dell’inchiesta prima che gli venisse affidata, dal primo processo ai tre studenti dell’Istituto Cattaneo alla nuova istruttoria basata sulle nuove foto trovate con tanto ritardo, troppo. Me le mostra. Mi concentro sulla posizione un po’ goffa di quel ragazzo che scappa: un diciottenne alla sua prima manifestazione. Vedo il suo volto su un fondo bianco: «Quello è il fotogramma che ha cambiato la mia vita. Quelli contro cui lottavamo avevano cervelli di latta capaci solo di immaginare fame, repressione, violenza, leggi speciali e morte; non volevano capire che non potevano distruggerci perché la nostra rabbia, la nostra fantasia urlavano più forte della loro sete di vendetta».
Il giudice interrompe le mie visioni: «Il ritrovamento delle foto scattate dal fotografo dietro gli alberi mi ha fatto capire che i principali responsabili non erano i tre ragazzi del Cattaneo, ma lei mi deve aiutare in questa ricostruzione...».
Vago nella memoria. Flash di una fuga con dei salvagenti in un fiume dopo una rapina. Le lancette ferme di un orologio sulla parete di una banca. Rivedo le immagini dell’abbattimento di un traliccio dell’alta tensione nel buio di un bosco, le discussioni, le canne, la fatica... Era un periodo di grandi fermenti, di trasformazioni rapide e di strutture organizzative informali. I gruppi organizzati legati al movimento erano collettivi territoriali frequentati da giovani di differente origine sociale ma che nella vita quotidiana affrontavano insieme le difficoltà economiche e relazionali che condividevano. Anche i figli delle «famiglie bene» avevano rotto con il loro status di privilegiati e, come i giovani di origine proletaria, vivevano giorno per giorno la stagione dell’autonomia. Si riappropriavano delle merci, sul lavoro sabotavano le macchine che gli imponevano ritmi toppo elevati, non pagavano i concerti perché la musica doveva essere gratuita. I comportamenti illegali erano diffusi e la forza del movimento garantiva l’impunità a chi li praticava.
Il giudice tamburella le dita su una foto: «Non sono venuto fin qui per sollecitarle vecchi ricordi con i suoi amici di un tempo... Allora, si è riconosciuto in questa foto no? Quella nella sua mano è una pi***la?». Un dettaglio quasi fuori campo: i pantaloni a zampa d’elefante mi rinviano a ricordi di situazioni a colori intensi, molto contrastati.
Quattro giorni di concerti, decine di iniziative previste dagli organizzatori dell’ultimo festival di Parco Lambro, migliaia di accampamenti improvvisati per i brevi momenti di riposo. Spinelli, musica, danze liberatorie al sole e sotto la pioggia. Ma qualcosa covava sotto quella vernice tardo hippy. Erano le migliaia di fratelli di Memeo, il proletariato giovanile che irrompeva sulla scena come protagonista sconvolgendo le regole del gioco. I loro comportamenti erano imprevedibili e passano dalla spensieratezza alla violenza. L’eroina sequestrata agli spacciatori che ronzavano attorno a ogni avvenimento giovanile venne bruciata sul palco tra un concerto e l’altro. Gli stand alimentari, anche se a prezzo contenuto, furono presi d’assalto, i polli surgelati che riempivano un camion frigorifero degli organizzatori diventarono palloni per una gigantesca partita di calcio senza regole né arbitro. Una pioggia di sassi si riversò sui veicoli della polizia che sostava nei dintorni del parco.
La nuova figura sociale prodotta delle trasformazioni industriali e del territorio si presentava e si rappresentava come controcultura nell’esperienza degli indiani metropolitani, e come contropotere nella pratica delle bande di quartiere con tutto il loro potenziale di violenza. Nessuna sorpresa dunque se qualche mese dopo, nelle strade e nelle piazze, comparvero le armi.
Mentre le Brigate rosse cercavano di dare obiettivi strategici e alzavano il tiro verso il «cuore dello Stato», il movimento danzava tra ricordi ed eredità della guerra partigiana e gli embrioni di nuove forme di resistenza. Per i giovani quello che più contava era lo spirito di banda, l’appartenenza a un gruppo di affinità, la sperimentazione di nuove forme di vita. La nuova parola d’ordine «riprendiamoci la vita», cresciuta nei gruppi di autocoscienza femministi, diventò patrimonio comune di quei giovani e si coniugò con la parola d’ordine vecchia di alcuni anni del «prendiamoci la città». I Circoli del proletariato giovanile difendevano il proprio territorio con le «ronde proletarie», occupavano edifici e case sfitte per creare luoghi di socializzazione, isole liberate in cui riunirsi. Esprimevano pratiche di contropotere e d’illegalità diffusa. Ma quando, ispirandosi al modello delle Brigate rosse, cedettero alla tentazione di alzare il livello dello scontro e l’impunità cessò, molti furono arrestati e alcuni di loro, per non restare anni in galera, contrattarono con la giustizia la riduzione della pena, e la merce di scambio divenne la libertà e la vita dei loro compagni.
Ma di nuovo la voce del giudice mi riporta nella stanza: «Come saprà il numero I, Marco Ferrandi, ha parlato e sappiamo già tutto... abbiamo solo bisogno di alcune conferme. Chi ha organizzato quel giorno l’arrivo delle armi in piazza?».
Fisso lo sguardo sulla figura contrassegnata con il numero I. Quello a una trentina di metri dallo schieramento della polizia che si ripara dietro un’automobile è «Coniglio», Marco Ferrandi, un grande amico di Memeo. Qualche anno dopo la sparatoria di via De Amicis si era rifugiato a Londra per evitare la galera, dato che qualcuno aveva fatto il suo nome. Londra concesse l’estradizione e già nel viaggio di ritorno cominciò a parlare. Raccontò con aneddoti coloriti quel periodo di «guerra civile a bassa intensità» che aveva attraversato il paese. I giudici prendevano gusto ad ascoltarlo, anche se in realtà conoscevano già quasi tutto. I suoi racconti produssero molti arresti. Cercò di convincere tutti quelli della sua banda a «pentirsi», così sarebbero usciti tutti in fretta dalla galera.
Il giudice mi dice: «Ferrandi è in libertà perché è stato un prezioso collaboratore di giustizia, ma lo aspetto al varco, fosse solo per mettere un nome al killer di via De Amicis. Sono certo che sia lui l’assassino dell’agente Custra. È comprensibile che lei voglia motivare le cause sociali, dare ragioni profonde, ma io sono un giudice e faccio il giudice, voglio solo sapere chi ha esploso il colpo mortale e chi ha portato le armi in piazza, tutto il resto e compito degli storici, dei politici. Io devo fornire al tribunale solo gli elementi probanti, non le fioriture».
Sul tavolo le immagini delle fotografie ora non si muovono più.
«Non posso dire quello che non so. Ho accettato di rispondere all’interrogatorio per parlare di me, del numero 20, e non per accusare qualcuno. I suoi due sospetti hanno confessato tutto, fanno parte dei cosiddetti “pentiti”, hanno sparato insieme con due armi uguali e non sanno chi di loro due impugnava la pi***la che ha ucciso».
Usciamo insieme dal Consolato. E luglio e all’aria aperta si sciolgono i nodi allo stomaco ed evaporano le paure. Propongo al giudice di accompagnarlo al suo hotel, sui Grands Boulvards. Ci ritroviamo cosi in tre, io, il giudice e il carabiniere, su una Peugeot 305 break color gendarmeria. Strana vettura per quella passeggiata imprevista. Sono un po’ impacciato e cerco di darmi un contegno guidando all’italiana. Il carabiniere cerca di rompere la tensione e forzando il suo accento siciliano mi dice con un certo sarcasmo che, dopo tutto, per essere un naufrago non me la passo tanto male. Evito di commentare e cerco di mantenere un profilo basso, parlo delle mie attività, dei documentari che realizzo sui temi dell’immigrazione. Poi, dato che siamo sull’argomento, dico: «Ho una mezza idea di fare un film a partire da quella foto, vorrei titolarlo “Storia di una foto”. Vorrei contribuire a far si che quell’immagine, che non e mai stata una foto, lo diventi finalmente entrando in una album di cui si possano finalmente girare le pagine». Nel retrovisore vedo il giudice scuotere la testa, poi, guardando fuori dal finestrino mi dice: «Ventura, pensi a godersi questa citta, dato che sarà la sua vera citta ancora per molti, molti anni...».
● da: «Storia di una foto. Milano, via De Amicis, 14 maggio 1977. La costruzione dell’immagine-icona degli “anni di piombo”. Contesti e retroscena», a cura di Sergio Bianchi, DeriveApprodi, 2011.